La trentunesima edizione di Pordenone Blues sarà ricordata a lungo non solo per i grandi numeri che ha portato il concerto di Jeff Beck + Johnny Depp ma per la qualità assoluta di alcune proposte che sulla carta erano già buone ma che si sono rivelate dal vivo outsiders stellari.

Senza dubbio le esibizioni di Kingfish e Fantastic Negrito segnano uno dei momenti più esaltanti di un festival che in tre decenni ha portato sul proprio palcoscenico giganti della musica blues. Questi due artisti rappresentano, a ragion veduta, il presente e il futuro del genere, con le radici ben piantate nel fango del Delta del Mississippi per quanto riguarda il chitarrista, con la testa nell’afro-futurismo per il cantante.

Prima di dare notizia di alcuni concerti della manifestazione nel particolare, un grande applauso va all’organizzazione del festival nella persona del suo “capo supremo”, Andrea Mizzau, che da decenni, con i propri valenti collaboratori, si occupa di progettare e coordinare gli eventi ma che dimostra la sua grande passione per la musica aggirandosi, cordiale e affabile, tra la gente con il suo caratteristico cappello di paglia.

E’ un vero ospite gentile che si preoccupa del benessere del pubblico e condivide empaticamente lo stesso entusiasmo e voglia di divertirsi. E’ davvero raro e fa la differenza. Pordenone Blues, sotto questo punto di vista, è una grande famiglia che comprende gli artisti, il pubblico e, naturalmente, chi rende possibile questo miracolo che si compie immancabilmente da 32 anni.

Altra caratteristica rimarchevole del festival è la sua parte “Street food”. In fondo all’ampio spazio del parco San Valentino che lo ospita, trova posto un ampia area nella quale ci si può preparare degnamente ai concerti consumando vere delizie alimentari: dagli arrosticini ai paninazzi con hamburgher di canguro, passando per i fritti di mare e le titaniche grigliate alla sudamericana fino ai dolci e ai gelati artigianali, il tutto innaffiato da ottima birra gelata, anche questo è molto blues, “Soul Food in a Soul Kitchen”.

Christone “Kingfish” Ingram “662: Juke Joint Live” with Paul Rogers (basso) Chris Black (batteria) D-Vibes (tastiere)

Questo ragazzone americano considerato a ragione un autentico prodigio della musica sa essere lirico e drammatico con la sua Telecaster senza mai dimenticare qual è il senso più profondo del blues secondo Son House, che qualcosa ne sapeva: “E’ quella cosa che succede tra uomini e donne, si chiama Amore”. Infatti, canta “She call me Kingfish”e “Gotta Have you babe” e infine “You’re already gone” tanto per riassumere .

Il suo approccio al genere è davvero stratificato ma, infondo, assolutamente classico; anche alla chitarra semi-acustica 12 corde fa meraviglie, con un suono tagliente che va dritto al cuore, impreziosito dalla splendida voce.

Il suo primo punto di riferimento è di certo il primo blues di Chicago, schizzato dal “fango elettrico” di uno dei suoi alfieri, Muddy Waters che con “Electric Mud”(1968), per l’appunto, confermò il passaggio di quella tradizione alla psichedelia nella quale sguazzava già da alcuni anni.

Per non farsi mancare niente Kingfish suona anche un po’ di funky, reggae e rithm’n blues molto scuro. Nella sua chitarra ci sono le note di Hendrix, B.B.King, Stevie Ray Vaughan, Buddy Guy e via di seguito, in un continuo dialogo tra tradizione e innovazione del tutto personale e unico. Anche se ironicamente canta: “I heard about you … but I’m too young to remember”.

Kingfish è un “pierino” di 23 anni oversize, con la “cuppulella cu ‘a visiera alzata”, un tipico americano con qualche “piccolo” disturbo alimentare ma con una genialità e un’abilità impareggiabili; suona, canta, interagisce con il pubblico, parla con i roadies, i musicisti, il proprio manager tutto allo stesso tempo con una naturalezza inaudita.

Deve il suo soprannome ad un personaggio piuttosto turbolento della una situation comedy “Amos ‘n’ Andy” che a partire prima dalla radio degli anni ‘20 e poi nella televisione degli anni ‘50 fece epoca e divenne uno dei punti di riferimento della cultura popolare afroamericana.

Il suo è un sound che convince alla prima nota e che riassume in se, come dicevamo, tutto il percorso fatto dal blues nell’ultimo secolo dal Delta del Mississippi fino allo spazio interstellare e ritorno.

Dice, infatti, di venire da un posto chiamato Clarksdale nel nord del Mississippi dove il prefisso telefonico è 662. Proprio per significare il suo attaccamento alla terra di provenienza ha intitolato il suo secondo lavoro discografico e il tour mondiale con quel numero.

In “Something in the dirt” canta: “I was born in Clarksdale…quello che c’è di magico nella musica e quel qualcosa nella “mia sporca terra”, c’è un Drugstore all’angolo dove suonava Robert Johnson, ci deve essere qualcosa nella “mia sporca terra” … ho suonato per la prima volta a undici anni … non sapevo cosa facevo davvero, c’è qualcosa nella “mia sporca terra” e io sto cercando di scavarlo fuori”.

Di passaggio, in un riff, cita, non casualmente, anche “Johnnie B. Goode” di Chuck Berry che in pratica racconta, in altro contesto, la sua stessa storia: “Deep down in Luisiana close to New Orleans, Way back up in the woods among the evergreens, There stood a log cabin made of earth and wood, Where lived a country boy named Johnny B. Goode, Who never ever learned to read or write so well, But he could play a guitar just like a-ringin’ a bell”.

Tra il pubblico c’era chi si toglieva le scarpe per poter ballare meglio sull’erba al ritmo delle “good vibrations” del bluesman di Clarcksdale, non era proprio possibile resistere.

Alcune volte, durante l’esibizione, proprio nel bel mezzo del brano, usciva di scena, continuando a suonare dietro le quinte, per farsi letteralmente richiamare in scena dalle ovazioni del pubblico disorientato; ha finito per scendere dal palco e suonare un lunghissimo assolo spostandosi in mezzo alla gente mentre la band, rimasta al proprio posto, seguiva i suoi riff senza vederlo, dimostrando un affiatamento incredibile e assoluto.

Mai vista una cosa così spiazzante, fendeva la folla come Mosè il Mar Rosso. A occhi chiusi suonava attorniato da centinaia di persone con altrettanti telefonini accesi per le solite riprese e foto, una vera selva di pixel. E’ inutile fare troppo i moralisti, il nostro mondo “viaggia” sui social, bisogna prenderne atto, l’importante è la buona musica e Kingfish ne ha regalata tanta.

Nel clamoroso finale dopo più di un’ora di continui fuochi d’artificio il giovane chitarrista ha dimostrato tutta la sua regalità cimentandosi nell’impresa più difficile in assoluto per ogni musicista contemporaneo: interpretare “Hey Joe” di Jimi Hendrix. Niente di più spericolato e inarrivabile, un brano talmente sacro e universalmente noto da essere una vera sfida. Per fare un paragone, è come pretendere di tirar fuori qualcosa di veramente nuovo dalla Toccata e fuga in Re minore (Bwv 565) di J.S. Bach o da “Yesterday” dei Beatles .

Kinghfish fin dalle prime note dell’anthem ha fatto ammutolire tutto il pubblico che, in estasi, ha seguito compiersi il miracolo più autentico di un’interpretazione sublime che ha lasciato tutti senza fiato.

Dopo aver ringraziato sentitamente il pubblico adorante e aver regalato il proprio plettro ad una persona in particolare del pubblico, ha deciso che ne aveva abbastanza; ha letteralmente gettato la chitarra a terra e se n’è andato mentre la band ha concluso da sola la monumentale versione di “Hey Joe”.

Come canta in “Outside of this town”: “I’m leaving this town tomorrow, I got many places to see, and many places to go, I’m so tired of doing the same old thing, Shooting for the highest star, Want people to remember my name”..”

Il pantheon del blues ha un nuovo eroe da ricordare e venerare che può sedere, a buon diritto, in mezzo alle altre divinità della genia di Robert Johnson e suonare insieme a lui nel Drugstore dietro l’angolo.

Scaletta: She calls me Kingfish, Fresh Out, Another life goes by, Empty promises, Too young to remember, Your time is gonna come, Something in the dirt, You ‘re already gone, That’s all it Takes, Not gonna lie, Outside of this town, 662, Long distance woman, Hey Joe.

Grayson Capps (chitarra acustica, Harmonica, Voce) J. Sintoni (chitarra elettrica) Sadie Morningstar (basso) Angelica Comandini (batteria)

Grayson Capp è un picaro che suona un Blues del Delta sudato e contaminato di country folk, kajun e blue grass. Per lui la musica è una questione di famiglia, la scontrosa bassista è sua figlia e la biondissima energica batteria è la sua “amica”, almeno così dice lui.

Sfoggia una canonica armonica a bocca, chitarra acustica e la voce giusta per un Country blues molto Southern con i piedi nel fango della Louisiana.

Ha una simpatia contagiosa nel suo interagire continuo con il pubblico: “Parlo inglesiano e sto imparando l’italiano. La prima parola che mi hanno insegnato è stata Birra, poi Bella figa, la terza è stata Grappa”. Non c’è che dire, i fondamenti della cultura e degli usi li ha di certo assimilati, il resto è conseguenza.

La bassista era davvero al minimo sindacale con un evidente distacco, talmente annoiata e ostile che raramente si ricordava di sorridere, lanciando occhiate maligne al pubblico. Chissà forse aveva il blues.

Il chitarrista gioca con i modi di dire dell’italiano con gli scontati: “In bocca al lupo” “In cu** alla balena ecc. definendo bonariamente gli italiani come stravaganti, non solo linguisticamente, ma, basta pensarci bene, anche gli americani non scherzano quando si tratta di proverbi, tipo: “Birds of a feather, flock together” letteralmente “Uccelli della stessa piuma si accoppiano”.

Una battuta sciocca ma divertente è stata anche quella che ha descritto il suo stupore quando in un supermercato italiano, si è trovato davanti allo spray anti-zanzare più blues del mondo: ZZ Stop.

Grayson è un chitarrista molto carismatico e l’esibizione funzionerebbe anche se fosse da solo sul palcoscenico, “One Man Show”

In un brano ricorda la volta che a 18 anni se ne scappò di casa per andare a vedere la vita “selvaggia” dei locali a New Orleans; all’angolo di una strada vedeva sempre suonare una splendida donna con tanto di Washboard e cucchiai. Nasce così la struggente ballata dedicata a quel ricordo d’infanzia. “Washboard Lisa”. E’ il ricordo di una splendida musicista di tanti anni fa che: used to “Wash away your sins”, ogni volta che muoveva le sue piccole dita da “sporcacciona” sullo strumento si portava via i nostri peccati.

Segue una canzone dedicata alle sirene (maremaids) che nel suo italiano maccheronico chiama “fi*** di mare”, certo non proprio un termine elegantissimo, ma rende l’idea. Aggiunge che odia la guerra e come musicista vuole solo amore ed energia positiva quindi la canzone è dedicata a tutti i soldati al fronte non importa schierati da quale parte.

Un altro brano molto divertente, basato sulle sue esperienze italiane è “Drink a little Grappa before you die”, d’ora in poi possiamo mettere il distillato di vinaccia vicino a “One Burbon, one Scotch, one Beer” stando bene attenti poi a dove andiamo, meglio se ci sarà qualcuno pronto a portarci a casa.

Dice che ora abita in Alabama verso il Golfo del Messico dove ci sono gli uragani e la sua musica evidentemente ne risente. L’ultimo brano è dedicato all’amore e all’empatia tra esseri umani anzi, tra tutti gli esseri viventi compresi gli animali e le piante. Sembra una frase fatta ma è proprio del bios che ci dovremmo occupare e del pianeta come una sorta di super-organismo che merita di essere rispettato in ogni sua parte.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©