L’edizione ancora in corso di Folkest ha già regalato al proprio pubblico una delle esperienze più straordinarie di tutta la sua pluridecennale storia. Se esiste un interesse per un genere musicale che ancora oggi chiamiamo folk lo dobbiamo principalmente al talento, alla creatività e alla lungimiranza di Judy Collins che per prima negli anni ‘60 fece scoprire al grande pubblico la grande bellezza della cultura musicale popolare anglo-americana che fino ad allora era stata relegata alle feste di paese e quasi completamente dimenticata; si innescò così un movimento di rinascita e rinnovato interesse per le musiche, cosiddette, “non colte” che ci ha portato dal Blues fino alla World Music e non hanno ancora finito di deliziarci.

Fu lei a riportare alla popolarità la musica di Woodie Guthrie caduto in completa disgrazia che tutti scansavano e di cui nessuno voleva più nemmeno sentire parlare. Certo, c’è stato anche Pete Seeger e poi in seguito Bob Dylan e molti altri, ma fu lei a guidarli verso il successo; se non avesse cantato le loro misconosciute canzoni portandole all’attenzione del grande pubblico con la sua voce d’angelo, la storia della musica sarebbe di sicuro molto diversa.

Erede nostrano di questa meravigliosa tradizione, il Folkest è giunto alla 44 edizione, con 55 appuntamenti e 60 gruppi musicali in giro per il Friuli Venezia Giulia e qualche data anche oltreconfine, nonostante tutto questo blasone, l’affascinante presentatrice della serata in piazza Duomo a Spilimbergo, in splendido abito da sera, ha sbagliato nell’ordine la pronuncia di Jethro Tull che è diventato Ghetro Tull, Alan Stivell storpiato in Staivell e Al di Meola detto così come si scrive in italiano. Può capitare, ma non è un buon inizio, bisogna pur dirlo.

La necessità di una presentatrice è del tutto televisiva e poco adatta ad un festival così blasonato che vive di passioni autentiche. Non è il caso di farsene un problema, al giorno d’oggi è il minore dei mali, la cosa veramente importante è che si suoni bene e che a nessuno venga in mente di privarci un’altra volta della musica dal vivo, sarebbe davvero troppo doloroso.

Grazie di cuore perciò a Folkest che ha avuto la giusta perseveranza recuperando il concerto della fantastica interprete americana già programmato prima dell’epidemia, sarebbe stato davvero un peccato perderlo.

Tra il pubblico c’era una ragazzina di tredici anni al suo primo concerto, la dividevano dall’autentica Signora con la maiuscola sul palcoscenico, la bellezza di settant’anni dei quali quest’ultima ne aveva passati sessanta a cantare e suonare le canzoni più belle di ogni tempo. Tutta la magia e il mistero della musica era compreso negli sguardi di quelle due ragazze di epoche diverse ma con la stessa energia negli occhi e nel cuore. Apparteneva loro quella forza che ci fa amare e vivere; erano ai due poli estremi e contrapposti della parabola dell’esistenza con la musica a fare da filo conduttore.

Ognuno dei presenti si è sentito un miracolato, nessuno avrebbe mai pensato di poter assistere ancora ad un concerto della Collins; chi avrebbe mai pensato ad una sua tournée europea alla tenera età di 83 anni. E’ proprio vero: “La fortuna aiuta gli audaci” e così è stato Folkest con il proprio pubblico.

Prima dell’esibizione, della regina indiscussa del folk sul palco, della splendida piazza Duomo, sono saliti i vincitori del Premio Parodi 2021 che da quindici anni, oltre a ricordare l’indimenticabile artista Andrea Parodi leader dei Tazenda, ha un occhio di riguardo per i giovani che esplorano la World Music a partire dalla propria identità culturale e prospettiva linguistica.

Il Matteo Leone Quartet ha una solida preparazione rock blues e fa una musica di interessante ascolto che deve moltissimo a Fabrizio De Andrè, soprattutto quello che si faceva sostenere da Mauro Pagani. Il leader dell’ensemble è un chitarrista mancino con lo strumento ad accordatura rovesciata come Hendrix, la sua ottima tecnica e il suo stile devono molto oltre che al Delta del Mississippi anche al Desert blues di Bombino e dei Tinariwen.

Di originale non c’è moltissimo oltre ad un buona interpretazione di uno stile musicale ibrido e molto italiano. Di sicuro interesse, invece, è l’operazione culturale del quartetto che canta in lingua Tabarchina, espressione di una delle culture che costituiscono l’identità sarda, che è un’antica variante della lingua ligure. Davvero affascinante la storia di questa minoranza linguistica che risale ad una comunità di pescatori di corallo di Pegli in Liguria che si trasferì sull’isola di Tabarca, al largo dell’odierna Tunisia. Prosperarono per più di due secoli per poi cadere in disgrazia nella prima metà del XVIII sec quando il Bey di Tunisi strappò l’isola agli spagnoli. Alcuni Tabarchini finirono schiavi altri si trasferirono nelle isole dell’arcipelago del Sulcis nella Sardegna sud occidentale. Le canzoni del gruppo raccontano il punto di vista di questa particolarissima cultura e della sua diaspora. Il sound è piacevole, si ascoltano con gusto ma niente di più. Insomma, “abbiamo tutti un blues da piangere”.

Finito con l’agrodolce vicenda sardo-ligure-tunisina in scala pentatonale, dopo una breve pausa, è stata la volta della regina indiscussa del folk. Un annunciatore dall’altoparlante dice: “Ladies and Gentleman please welcome on stage lady Judy Collins”. E’ proprio una Signora con la maiuscola quella che il pubblico si è trovato davanti, un’artista dall’immensa, inestimabile caratura.

C’è una bellissima foto che la ritrae seduta in una sorta di casetta sospesa su di un albero insieme a Joni Mitchell che imbraccia una chitarra e canta arpeggiando. E’ il Laurel Canyon nel 1969. Erano i giorni nei quali, a casa della Mitchell in California, si stava registrando il primo album di Crosby, Stills and Nash; la Collins, in tournée attraverso gli Stati Uniti, si fermò per una visita agli amici più cari. Quell’immagine, così bizzarra, riassume benissimo tutto un periodo storico e un momento creativo di enorme importanza.

Non a caso la Collins ha cominciato il suo concerto intonando i meravigliosi versi di “Both Sides Now” accompagnandosi con una chitarra a dodici corde, sostenuta da Russel Walden al pianoforte. E’ il brano di Joni Mitchell che lei per prima interpretò rendendolo famoso, spianando la strada del meritato successo alla cantante del Saskatchewan, Canada.

La voce della Collins è ancora meravigliosa anche se nei primi brani del concerto doveva ancora scaldarsi. Tra un brano e l’altro la cantante si è rivolta al pubblico raccontando la propria lunghissima avventura artistica che sembra ancora in grado di riservare positive sorprese.

In questo caso, ha dichiarato che Al Kooper dei Blood, Sweat & Tears, suo ottimo amico, sul finire degli anni Sessanta, in piena notte, le telefonò entusiasta dicendo che doveva farle assolutamente sentire le canzoni di una giovane artista. Era la giovane Mitchell che dall’altra parte del ricevitore le intonò alcuni suoi brani. Da quello strano incontro telefonico nacque una delle avventure artistiche più straordinarie del nostro tempo.

La Collins ha raccontato ancora di essere cresciuta in una famiglia molto musicale. Il padre conduceva un importante radio show di musiche della tradizione popolare anglosassone che sono state la colonna sonora della sua infanzia. Per sottolinearlo ha intonato così a cappella il traditional irlandese “Danny Boy” con la sua voce di soprano intatta e cristallina che sembra venire da un’altra dimensione.

Ha cantato poi “The Gypsy Rover”, la romantica e scapigliata storia di una giovane scappata con il carro degli zingari per seguire il proprio cuore e ha continuato, subito dopo, con la prima canzone a propria firma, che incise nel 1964: “Anathea” che racconta di uno stallone rubato sulle Misty Mountains.

Allora la Collins era già famosa come interprete delle canzoni di Woodie Guthrie e di Pete Seeger, Phil Ochs; la sua fortuna era cominciata a partire dai caffè del Greenwich Village di New York nel 1960 dove alcuni discografici l’avevano notata mettendola sotto contratto, come fecero qualche anno dopo con Bob Dylan.

Sul finire degli anni ‘60 un amico le presentò un altro cantante canadese. Nientemeno che il giovane sconosciuto Leonard Cohen si presentò a casa sua e le suonò alcuni brani che la stregarono. Come aveva fatto con la Mitchell, incise immediatamente, a proprio nome quello che l’aveva colpita di più, dando vita ad un altro vero e proprio prodigio. Quella canzone era l’immortale “Suzanne” che la Collins canta ancora, a più di cinquant’anni di distanza, come un angelo del cielo regalando emozioni talmente intense da essere quasi insostenibili.

In realtà, ha raccontato sempre la cantante, il suo destino non era quello della folk singer, ma quello della pianista classica. La prima volta che si esibì di fronte ad un pubblico pagante, aveva solo tredici anni, non conosceva ancora la tradizione dei monti Appalachi o altro, ma suonava le composizioni per piano di Mozart, Rachmaninov, Chopin, ecc.

Ancora adesso compone cercando l’ispirazione sui tasti del suo Steinway & Sons. La tournée europea che l’ha portata a Spilimbergo e che l’ha vista impegnata anche al pianoforte, promuove infatti “Spellbound” l’album di brani originali che ha composto durante il periodo del Lockdown. “When I was a Girl in Colorado” è uno di quelli e canta un ricordo d’adolescenza struggente e commovente: “Quando ero una ragazza in Colorado, ne sapevo abbastanza per innamorarmi come un uccellino (Sialia) tra i rami di pino o come la neve che cade”. Versi molto semplici ma di grande suggestione anche perché è un’anziana signora a intonarli rendendoci partecipe di un sogno.

Dal punto di vista canoro i modelli cui si è ispirata di più sono stati Ella Fitzgerald e Frank Sinatra e poi naturalmente l’opera italiana. Da Bob Dylan, ironicamente sostiene che non si può imparare a cantare o trarre davvero ispirazione, intendendo che è del tutto fuori categoria, lo si può solo reinterpretare oppure plagiare prendendosene tutti i rischi connessi. Per dimostrarlo canta, insieme al pubblico, una commovente Dylaniante versione di “Mr. Tambourine Man”. Stupenda!

Queste sue affermazioni le fanno davvero onore, facendo piazza pulita di quei giovinastri che pretendono di essere tutti il nuovo “menestrello del rock” mentre il loro vero impiego dovrebbe essere nel campo dell’agricoltura o al massimo in quello della zootecnia (vedi quel Arsun Sorrenti visto di recente a Sexto ‘nplugged).

A sigillare la sua fama anche l’aneddoto del suo incontro con il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton e con la moglie Hilary durante il quale scoprì che la loro figlia deve il proprio nome ad un’altra canzone di Joni Mitchell che la Collins portò al successo, e che ascoltavano da innamorati, per l’appunto “Chelsea Morning”. A noi italiani, senza patria e senza dio, non fa un grandissimo effetto ma per un americana purosangue come lei è una bella soddisfazione patriottica.

Le lunghe strade dell’America profonda si sono srotolate fino all’orizzonte mentre cantava una clamorosa e inaspettata cover di John Denver: “Take Me Home, Country roads”.

C’è stato ancora il tempo per un pugno di canzoni, bis compreso e poi giustamente le è stato conferito sul palcoscenico il Premio Folkest “Una vita per la musica”. La Collins ha ringraziato sentitamente con i propri meravigliosi sorrisi pur non sapendo che un’altra ragazzina di tredici anni potrà cantare in futuro con grande fierezza: “When I was a girl in Spilimbergo”.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©