Una location del tutto nuova per uno dei primi concerti che aprono ufficialmente la 32° edizione del festival Udin&Jazz.

Il parco Brun è un meraviglioso compendio d’umanità misconosciuto da molti udinesi, tra una rotonda molto trafficata, i palazzoni e tutta una sonnacchiosa zona residenziale attraversata da una roggia.

Al centro della bella zona alberata un grande chiosco per le bevande, il Giangio bar propriamente detto e un altro per le carni alla griglia e succulenti paninazzi. D’estate è una specie di paradiso per le famiglie con torme di bambini vocianti e di tutti i colori che si scatenano sulle altalene, i vari scivoli, la piramide di corda, il tappeto elastico e tutti gli altri divertimenti che dai quattordici anni in su finiamo per vietarci negandoci la libertà e la spensieratezza dell’infanzia e barattandole con la rispettabilità.

Il parco è assolutamente multiculturale e multietnico, com’è già da anni la vera città di Udine quella che gli amministratori si ostinano a non voler vedere e ad osteggiare in ogni modo. Per quanto facciano, per fortuna, non riusciranno mai a fermare questa onda che cresce e se i loro amici in parlamento si accapigliano, in questi giorni, per concedere un diritto che tutti gli uomini già possiedono in modo inalienabile e indiscutibile cioè il diritto alla cittadinanza e ad un istruzione adeguata (Ius scholae), la società va avanti senza “lor signori” che prima o dopo si troveranno in compagnia solamente della propria arroganza.

In questo senso, sappiamo bene da cosa fu causato il contrasto tra Euritmica e l’amministrazione comunale udinese: la partecipazione attiva nella giunta comunale di elementi di estrazione neofascista e le sciagurate politiche retrive e oscurantiste nelle politiche sociali e culturali.

Euritmica allora, poco dopo le elezioni, sbatté la porta e rifiutò qualunque collaborazione e relativo finanziamento dall’allegra “brigata nera”. E fece benissimo ad andarsene con la propria trentennale manifestazione gioiello Udin&Jazz, trovando ospitalità a Grado, perla del litorale giuliano. Ora che quell’esperienza si è conclusa, l’associazione torna trionfalmente a Udine e con le sole proprie forze e tanta caparbietà riprende il festival jazz nella propria città natale.

Niente è stato chiesto al Comune, che si è ben guardato dal preoccuparsene, per allestire anche logisticamente un cartellone straordinario con artisti internazionali e nostrani di grandissima levatura e tra questi ultimi, i fantastici ragazzi del Gianpaolo Rinaldi Trio. Il leader al pianoforte, al contrabbasso Mattia Magatelli e Marco D’Orlando alla batteria e aggeggi. Per l’occasione presentavano dal vivo il nuovo fiammante album in studio: “Sapiens Doesn’t mean Sapiens”.

Rinaldi è un pianista colto, dalle ottime letture, mai supponente, né come musicista e nemmeno come persona. Si fa apprezzare per la sua competenza e talento raffinato ma anche per una cordialità e affabilità non comuni, spesso soprattutto in campo musicale.

Mentre i musicisti sul prato già si prodigavano nelle loro meraviglie, una bambina bionda insieme ad altri piccoli si sedeva sull’erba succhiando un calippo al limone, proprio davanti al “palcoscenico”, guardava, probabilmente senza capire davvero cosa stavano facendo, quei “signori strani” con i loro strumenti. Lei con il suo gelato era già in paradiso, della musica non aveva proprio bisogno ma forse è quest’ultima che aveva ed ha sempre bisogno di quegli occhietti curiosi.

Con una punta di disperazione dei funambolici e insostituibili Mimmo Dragotti e dei Velliscig Brothers di Euritmica per gli irrequieti bambini che correvano e sbraitavano ovunque, alla fine la magia della musica si è compiuta e tra l’abbaiare dei cagnetti che portavano a passeggio i relativi padroni, il traffico dell’incrocio, il vociare degli avventori, le note del Rinaldi trio si sono fatte carne viva, sono diventate attimi, persone, momenti, cose per quello che non era il solito pubblico ingessato o almeno così non lo si può definire.

Era soprattutto “gente” vera seduta sulle panche di legno del bar, oppure a spasso nella serata estiva, o ancora che si leccava il gelato, che si godeva il fresco dopo essersi fatta fuori una bella grigliata con una montagna di patatine.

Erano i “Sapiens Sapiens” in tutta la loro eterogenea varietà proprio quelli di cui parla la musica dell’album di Rinaldi che si è ispirato al famoso e discusso saggio del filosofo israeliano Yuval Noah Harari “Sapiens, da animali a dei. Breve storia dell’umanità.”

Il trio non suona un semplice sottofondo alla gente che si diverte, molti sono lì per loro e ascoltano con grande attenzione e piacere. L’alchimia che creano insieme a tutti i presenti è una realtà immateriale in cui la musica si riappropria della libertà dalla quale proviene, anche se fin troppe volte ce lo dimentichiamo, perchè l’abbiamo imbalsamata e rinchiusa in tanti mausolei insonorizzati e climatizzati, nei quali ha perso completamente la sua vitalità trasformandosi in un esangue rituale borghese, disanimato e privo di qualunque necessità e urgenza.

Se ci pensiamo bene, per il jazz il fatto di suonare in un giardino in mezzo alla città tra famiglie con bambini non è per nulla una novità, semmai un ritorno. Il parco Brun non è poi così diverso da Congo Square, New Orleans dove tutto è cominciato più di due secoli fa.

Allora agli schiavi afroamericani veniva concesso dai loro padroni, una volta alla settimana, di incontrarsi, socializzare, ballare e suonare. Alzi la mano chi non si sente uno schiavo nella società turbocapitalista che ci opprime.

Intanto che Rinaldi e i suoi sono impegnati con i loro strumenti, vicino allo spazio improvvisato del palcoscenico, su un tavolo di legno del parco, quattro adulti che si indovinano essere dell’est europeo, giocano placidi a domino senza minimamente scomporsi per il concerto. Facevano immediatamente pensare al brano-capolavoro di Syd Barrett, “Dominoes”: “perdere tempo con il domino, in una giornata così buia, così calda, la vita che non fa male, io e te e il domino e il tempo passa”.

Il disco, registrato presso lo studio della casa di produzione udinese “The Garage artist”, ha un fascino tutto particolare e originale che dal vivo si accresce enormemente.

Il primo brano eseguito è stato “Just Search for” e racconta della ricerca di ogni musicista di quel suono che lo rappresenti ed esprima al meglio la propria sensibilità e creatività, è una ricerca che dura tutta la vita e che, per fortuna, non finisce mai.

Il secondo, “Lessons”, ci rimanda a tutte le lezioni che la vita ci riserva attraverso l’esperienza, nessuno deve credersi lo studente migliore; è vero la vita ci insegna molte cose ma inevitabilmente molto ci sfugge.

Il terzo è il brano che da il titolo all’album ed è una riflessione in musica sulle conclusioni del filosofo israeliano che in sostanza dice che l’evoluzione non sempre ci ha giovato, non tutto quello che abbiamo ottenuto si può chiamare sapienza.

D’Orlando alcune volte fa stridere i piatti strofinandoci una bacchetta o un archetto da violino tanto da far abbaiare i cani al guinzaglio che, felici, sembrano voler partecipare anche loro. D’Orlando è un batterista estroso, fantasioso e pieno di colori con un tocco leggerissimo e preciso, mai ridondante o sopra le righe anche quando affronta complicatissime e veloci strutture poliritmiche. La sua flemma da “pirata dei Caraibi” gli stampa in faccia una costante espressione ilare e sorniona, la sua creatività agisce spesso per sottrazione e il suo suono rimane sempre chiaro, pulito e perfettamente distinguibile battuta per battuta.

Bellissimo e suggestivo anche il lavorio di Magatelli al Contrabbasso nel brano Tiresia’s Prophecy dedicato alla Nekyia di Ulisse. La catabasi durante la quale il famoso indovino nell’Ade rivela il futuro a Odisseo: “Divino Laerziade, ingegnoso Odisseo perché infelice, lasciando la luce del sole, venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo? Ma levati dalla fossa, ritira la spada affilata, che beva il sangue della vittima sacrificata e poi il vero ti dica”.

La musica è straordinariamente evocativa ma non seriosa e per nulla cupa o noiosa, le composizioni di Rinaldi riescono sempre ad essere godibili anche nei momenti più intensi. I signori che continuavano con il domino, di tanta profondità sepolcrale non si sono nemmeno accorti e probabilmente gliene importava poco ma se la sono ascoltata con piacere ugualmente. Non è sempre necessario capire tutto per ascoltarsi ed apprezzare della buona musica.

“Il brano che non arriva” è lo spauracchio di ogni musicista che cerca la propria aspirazione che arriva quando le pare e piace.

Non è per niente vero che il jazz non sia una musica adatta per un contesto simile che, come sostiene qualcuno, sarebbe più indicato per la musica leggera o leggerissima ma è il solito discorso snobistico, elitario e classista.

La musica di Rinaldi e dei suoi è piacevolissima pur essendo ragionata e complessa. In fondo, è discriminatorio pensare che solo chi frequenta le sale da concerto si merita la musica con la Maiuscola, per le persone “normali”, per il popolo bastano le canzonette o le porcherie della televisione. Non è per nulla così, la musica vera non ha confini e nemmeno luoghi esclusivi. Rinaldi lo ha dimostrato ampiamente anche in questa insolita situazione se ce ne fosse ancora bisogno.

L’ultimo brano è paradossalmente “Restart” (Ripartenza) che il pianista ha scritto dopo la riapertura post-covid. Utilizzare il Fender Rhoades per questa esibizione all’aperto è stata una scelta davvero vincente, il pianoforte sarebbe stato uno spreco e poi i brani, rispetto all’incisione in studio, acquistano così ancora un’altra prospettiva, una diversa profondità garantita dal suono vetroso e vibrato dello strumento elettronico. Le auto sulla rotonda che fanno da sfondo all’esibizione sembrano quasi danzare a ritmo di musica con un effetto di luci e di riflessi nella semi oscurità suggestivo nella sua involontaria magia di fanali e indicatori di direzione.

Naturalmente c’è anche il tempo di un bis molto atmosferico e sospeso che si conclude proprio mentre passa dietro ai musicisti un bambino con la bici che fa un rumore quasi da motorino per la linguetta di plastica o di metallo inserita tra i raggi, perfettamente a tempo con la fine dell’esibizione tanto da sembrare una trovata degli stessi musicisti.

“La musica è finita, gli amici se ne vanno”, non prima però di aver rivolto ai musicisti un ultimo grande applauso, davvero meritato.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©