Il palazzo Orgnani-Martina di Venzone è davvero un luogo simbolico, nel pieno centro storico della città murata medievale risorta, dopo il terremoto del 1976 che la rase al suolo, per la caparbietà dei propri abitanti che letteralmente la ricostruirono pietra su pietra. Contiene il museo Tiere Motus dedicato ai tragici lunghi giorni del sisma, che divide i propri spazi, senza soluzione di continuità, con il Museo della Terra patrocinato dal Parco Naturale delle Prealpi Giulie.
Un accostamento perfetto che guarda nello stesso momento alle meravigliose bellezze del territorio e alle sue fragilità; da una parte l’apollineo splendore delle sue montagne, dall’altra le forze dionisiache e oscure delle sue tragedie in un compendio tra la luce e l’orrore vero e amaro come la vita.
Su una delle vie cardinali che tagliano a croce la cittadina, a poche decine di metri dall’antico palazzo comunale, un grande portone si apre su una corte interna attorno alla quale si erge da settecento anni il palazzo. Il luogo del concerto di Elsa Martin è proprio questo, protetta dalle travi che sorreggono il piano nobile nell’androne ha sistemato i marchingegni elettronici che aiutano la sua voce a colorare gli spazi più imprevedibili.
La precisa intenzione della rassegna Estensioni Jazz club diffuso alla sua seconda fortunata stagione, voluto da Slou Soc. coop e in questo caso da Farfalle nella testa Soc. coop, è quello di portare la musica nei luoghi più insoliti e significativi del nostro territorio, tra natura, storia e musica per aprire percorsi lontani da quelli canonici che necessariamente sono statici e poco flessibili. La musica non può essere eternamente ingabbiata, incarcerata nei teatri e negli auditorium che rischiano di diventare solo dei mausolei nei quali la musica viene tumulata anziché sgorgare libera. Spazi contenuti insoliti per spettatori coraggiosi che hanno la voglia di mettersi alla prova con ascolti non omologati e anticonvenzionali nei quali la qualità non è mai al servizio della quantità.
Vox Humana è uno spettacolo nel quale sono protagoniste le voci di Elsa Martin, il plurale non è stato utilizzato a caso perché la cantante in alcuni momenti sembra quasi “abitata” da presenze vocali che la scuotono, impossessandosi della sua dolcezza e capacità d’interpretazione.
La sua è una “voce dell’umano” che incarna diversi personaggi, in un viaggio sonoro tra i poeti della nostra terra e che, allo stesso tempo, è rievocazione e proiezione di desiderio e nostalgia per qualcosa di lontano che deve ancora darsi.
Elsa Martin s’impegna in performance del tutto particolari, che richiedono di abbandonare le costrizioni del pensiero logico (Logos) abbandonandosi al cuore (Pathos) per raggiungere lo spirito (Pnèuma). Lei è la dolcissima guida in un itinerario nel quale è possibile esperire la ruvidezza delle pietre, la freschezza delle acque sorgive, l’arborescenza della vegetazione fino alle sue e nostre radici nel cielo terso. La cantante augura: “Buon viaggio insieme a me!” e già in questo inizio comincia a intravvedersi lo svolgersi di una lunga teoria di emozioni.
Nei brani che si susseguono inframmezzati da interessanti introduzioni in forma di riflessioni ad alta voce, risuonano digitalmente tamburi a cornice e nacchere, vocalizzi acuti di grandissima estensione a cui si sovrappongono le campane del vespro in una meravigliosa casuale tessitura che rende ancora più colorato e intenso il fiore di suoni che sboccia dalla laringe della cantante. E’ un’autentica sonorizzazione d’ambiente, la voce e i suoni digitali della Martin sembrano sgorgare dai muri e dalle pietre e ben sappiamo quali partiture contengono gli edifici di Venzone.
La Martin, ipnotica e sciamanica nel suo intonare i versi in lingua friulana, evoca qualcosa di ancestrale e futuro allo stesso tempo (una procesion di stelis lontana lontana) ed è nella parlata di Navarons della poetessa Novella Cantarutti che davvero sa commuovere cogliendo il femminile e lo spirituale della natura semplicemente attraverso il profumo degli alberi di ciliegie (il bon odour dai ciaresars) che proprio in questi giorni di fine primavera possiamo percepire e assaporare.
La Martin mette in Loop la sua voce e stratifica un canto che affiorando dimostra tutta la profondità del suo inabissarsi.
Canta di Emily Dickinson che rinchiusa nella sua stanza spendeva il proprio tempo nella vertigine del suo genio poetico cucendo nelle pieghe del proprio sudario i versi che l’accompagnano nell’eterno tra i quali: “Delight Becomes Pictorial, when viewed through pain, more fair, because impossible that any gain. The mountain at a given distance, in amber lies; approached, the amber flits a little, and that’s the skies!” La delizia della bellezza diventa pittorica quando è vista attraverso il dolore!
La creatività e l’approccio della cantante friulana ricordano alcuni lavori di Bjork anche se la vocalità è del tutto diversa e per estensione e dolcezza la cantante friulana fa venire in mente grandi voci ben più classiche della folk renaissance e poi le sperimentazioni Avant-Garde, dalla Dark wave al Vocalese, i suoi riferimenti e influenze sono di certo molto alti ma, dopo averla sentita anche solo scaldare la voce nelle stanze del palazzo Orgnani, ci si convince che la sua arte ha basi davvero solide; anche il suo lavoro con il computer e le altre diavolerie elettroniche con le quali accompagna le proprie performance ha una nobilissima antesignana in Laurie Anderson.
Il momento più matematico e catartico del concerto è quando la voce della cantante materializza la forza dionisiaca di quello che può essere considerato tra i più grandi cantori della nostra terra di sempre. Federico Tavan lottava per noi contro i suoi demoni e cercava di salvare il proprio bambino interiore proprio come dovremmo fare tutti noi.
Tavan era un “Cristat”, un povero Cristo che, nella sua sofferenza, era in grado di parlare alla pari, guardandolo dritto negli occhi, quell’uomo che abbiamo messo sugli altari perché quello che diceva era troppo scomodo, meglio lasciarlo inchiodato su quella croce che farlo circolare tra di noi, troppo pericolose e rivoluzionarie le sue parole di pace, libertà e fratellanza.
Lo stesso “discorso” cristologico si può fare su Tavan, senza paura di essere blasfemi. Al più grande poeta degli ultimi decenni la città di Pordenone, per esempio, è stata in grado di dedicare solamente un parcheggio sotterraneo dove gli automobilisti, parcheggiando i loro SUV, possono vedere la sua gigantografia che gli indica gli stalli e le vie d’uscita.
Un vero e proprio sacrilegio che, se non fosse frutto della solita cecità degli amministratori e della loro pusillanimità, potrebbe perfino sembrare un gesto anarchico e situazionista, come dedicare un vespasiano romano a Pier Paolo Pasolini ed è perfino possibile che qualcuno ci abbia pure pensato. Non ci sarebbe proprio niente da stupirsi in una regione nella quale del poeta di Casarsa fino a qualche anno fa non si poteva nemmeno parlare. Oggi lo si esalta in celebrazioni e faccine sui social ma molto pochi sono quelli che leggono le cose più urticanti, al più vengono considerate stranezze ed eccessi di una mente troppo polemica, l’antesignano dell’intellettuale scomodo da salotto televisivo che bercia su qualunque argomento gli venga dato da sbranare.
Anche Tavan era di quella razza, solo che il suo aspetto d’orso nascondeva una maggiore fragilità e la vita lo ha consumato troppo in fretta. Quello che ci ha lasciato è di una bellezza scabra e ruvida, sono versi fatti di pietre e di legno, parole spezzate e biascicate come una luce d’inverno che a stento s’insinua tra le persiane o che ci spalanca gli occhi come una lama di giaccio e ci ferisce.
Tavan sa graffiare e mordere ma ci fa sentire anche tutto il suo essere indifeso e logorato dalla vita e dall’intensità dolorosa della sua sensibilità. Nella voce della Martin tutto questo si sentiva e si materializzava davanti agli occhi e agli orecchi di chi finiva per perdersi in quel groviglio di emozioni. Quando non sono impegnate a “suonare” il computer, le sue mani l’accompagnano in una sorta di danza propiziatoria che modella i suoni e le melodie che escono dalla sua gola.
Da un grande matto al re dei pazzi sapienti: Amedeo Giacomini che ha bestemmiato le sue preghiere feroci e dolcissime.
Turoldo diceva che solo un vero credente può bestemmiare con tanta intensità e non si sbagliava per niente.
Amedeo Giacomini: Prejere
Signôr, ch’i tu nus âs fas nassi par câs,
no volûs, che la fan, pai fîs, no si la voul –
ch’i tu nus âs sparnissâs – vie pal mônt
e come nemâi peâs a ogne vuàrzine,
par un toc di pan, un got, ‘ne ciche…
Signôr, dai turcs, dai cosacs, dal taremot,
tiribil Signôr che di secui tu nus sclíssis dal alt
come s’i fóssin puls o viêrz o zàvis,
torne cajú tra nó, Signôr, torne, tu sês perdonât.
Proprio in quel momento si sente il vociare della vicina osteria con gli avventori che amabilmente degustano prelibatezze e bevono di buon sorso deliziando le proprie viscere così come la Martin nutre con la sua voce lo spirito e il cuore di chi rapito non riesce a smettere di ascoltarla di meraviglia in meraviglia.
I versi di Tavan e Giacomini, cantati di seguito con così tanta intensità, colpiscono come un pugno, sono una sferzata emotiva che fa traballare anche le fondamenta più solide come un terremoto di sensazioni, colori e voci che la Martin è anch’essa autentica poetessa nel senso più vero del termine; come dice il dizionario Treccani: “Poesia è l’arte (intesa come abilità e capacità) di fare, produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate regole e modalità”.
Modulando la propria voce scompone e ricostruisce i versi poetici, li scardina, ricompone e riaggiusta, li stravolge negli accenti e nelle rime fino ad appropriarsene completamente facendoli propri. Utilizza i componimenti degli altri come tessere di un mosaico che va componendo nella sua esibizione in tempo reale.
In questo senso, non interpreta ma crea riuscendo perfettamente ad esprimere anche il tormento esistenziale e la sofferenza interiore dei due poeti uniti da quel sottile filo di disperazione che li legava stretti l’uno all’altro; anche se non risulta si siano mai conosciuti erano padre e figlio l’uno dell’altro e viceversa.
Quelle della Martin non sono per nulla solo giaculatorie perché, anche nella drammatica durezza elettronica delle sue scelte sonore con percussioni fredde e disanimate che non sono più ritmi ma rasoiate, riesce a conservare una soavità del tutto imprevedibile e inaspettata.
Torne cajú tra nó, Signôr, torne, tu sês perdonât.
Perdonare il proprio dio è la più grande virtù del credente. La voce della Martin prende accenti misticheggianti e lirici tanto da sfiorare e alludere a quel Mysterium iniquitatis, baricentro attorno al quale aggiogati facciamo ruotare la macina delle religioni di Abramo.
Se è possibile, il momento più leggero e sognante del concerto è il brano riferito alla composizione di Maria di Gleria: “Anin a Gris” che tanta fortuna ha avuto e continua ad avere nella commovente interpretazione di Alice.
La poesia è davvero bucolica e ritrae il nostro paesaggio naturale visto con i “voi discols” (occhi scalzi) un accostamento poetico che evoca mondi di sopore e tenerezza notturni e inauditi.
Mentre la Martin canta tanta dolcezza sotto le travi dell’androne con le spalle al grande portone di legno del palazzo sul selciato dello spazio interno scoperto, quasi un chiostro di monastero, comincia a piovere a brevi gocce un’acqua leggera e lustrale, tra terra, sassi e cielo che brontola e lampa per accompagnare la voce celeste della cantante che regala un’interpretazione davvero fantastica da lasciare senza fiato.
Giunti alle ultime battute del concerto, la Martin ricorda una sua residenza estiva a Paluzza durante la quale ha imparato dalla signora Lucia una dolce vecchietta, un’antica filastrocca locale ispirata alla cosiddetta “Torate”, la Torre Moscarda di origine medievale che sovrasta e simbolicamente protegge l’abitato con la sua antica mole anche se in realtà si trova in località Enfretors orfana della gemella sulla sponda opposta del torrente Bût.
La cantante ha elaborato elettronicamente l’antica melodia sovrapponendo alla registrazione della voce dell’anziana la propria con un effetto straniante e intrigante che offre una prospettiva temporale di grande profondità nella quale è possibile scorgere una tradizione piena di giorni a venire.
Più di una volta, durante la performance il pensiero di qualcuno va anche a Carmelo Bene che per primo in Italia seppe usare con intelligenza e straordinaria arte l’amplificazione elettronica per magnificare la sua arte geniale di macchina attoriale. Elsa Martin, da par suo, sembra percorrere quella strada in una multiformità di espressioni artistiche tanto che, per usare una locuzione davvero efficace, si potrebbe dire che non solo “canta la propria voce” ma addirittura “danza” la propria vocalità facendo rivivere, in questo suo progetto, la poesia e l’anima degli antenati come in un rito sciamanico nel quale il millenario senso tribale e primitivo della tradizione orale si fonde con la luce prospettica del presente aprendosi all’infinita successione di domani.
Si conclude con Pasolini di cui ricorre il centenario e non ci poteva essere niente di meglio. Il rombo del temporale, le campane che continuano a suonare dal campanile della città murata e poi l’effetto campionato di passi sul selciato facilitano la giusta disposizione d’animo per l’ascolto di quei versi che, cantati da voce femminile, rivelano ancora di più di essere stati composti per l’eterno istante di tutti i ricordi a venire.
“Ciant da li Ciampanis
Co la sera a si pièrt ta li fontanis/ il me pais al è colòur smarit./Jo i soj lontàn, recurdi li so ranis/la luna, il trist tintinulà dai gris./ A bat Rosari, pai pras al si scunis: jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis. Forèst, al me dols svualà par il plan, no ciampà: jo i soj un spirit di amoùr/ che al so paìs al torna di lontàn.”
La voce del temporale che si allontana chiude il concerto; gli spettatori sono ben consapevoli d’aver assistito a qualcosa di prodigioso che a lungo porteranno nel cuore. Grazie Elsa ci hai regalato un sogno!
Flaviano Bosco – instArt 2022 ©