Venerdì 20 maggio alle ore 21.15 nell’ex Convento di San Francesco a Pordenone per Jazzinsieme (www.bluesinvilla.com), verrà presentato in concerto il nuovo disco del pianista e compositore Gianpaolo Rinaldi, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Marco D’Orlando alla batteria.

L’album si intitola “Sapiens doesn’t mean sapiens” ed è composto da otto brani che disegnano un viaggio che prende spunto da profonde riflessioni sugli scritti del filosofo contemporaneo israeliano Yuval Noah Harari. Sono composizioni incentrate sui temi dell’evoluzione e del progresso, oltre che da vissuti personali, chiamate a scrivere un nuovo capitolo della sua produzione, ricca di profondità ed invettive.
Un talento pianistico ed un polistrumentista alle tastiere, tanto nel disco quanto dal vivo. Rinaldi ha già una notevole discografia alle spalle, tanti concerti, progetti come ospite, co-leader, side man in varie formazioni, con nomi nazionali ed internazionali. Quest’ultima uscita, dopo il cd “Suspension” del 2018, ha la freschezza e le qualità delle grandi esperienze. Il suo stile qui si rinnova, implementato da una carica melodica ispirata, nelle mutevoli armonie che personalizza con il suo tocco, nelle aperte maglie del jazz, nelle complicità palpabili di Magatelli e D’Orlando. Un disco che ha un “tiro” tutto suo e che si muove con carattere e poesia in liberi rimandi alla letteratura, all’arte, al sé, da diventare uno spazio sonoro di improvvisazioni, emozioni condivise. Un album di pensiero e libertà d’azione, espressione personale di un pensiero maturo.

Registrato, missato e masterizzato da Francesco Marzona al Black Mirror Studios di Udine, con Gianpaolo Rinaldi al gran coda Fazioli F 278 e al Rhodes MK1 in due tracce speciali, affiatato sempre con contrabbasso e batteria, “Sapiens doesn’t mean sapiens” è entrato nel circuito “Tag”, ovvero The Artist Garage, la piattaforma prima in Italia nella produzione e promozione di talenti musicali.

È la numero tre la “title track” del disco che attacca a sorpresa nel lancio ad effetto del brano “Tiresia’s prophecy”, profetico nel racconto omerico, da connettere subito l’ascoltatore in una storia sonora che prende, mai scontata, versatile ed emotiva. Percezioni e perizie di classe musicale che si riverberano in “Restart”, “Lessons”, “Moon”, dai riferimenti autobiografici, e ancora in “Just search for”, “There’s left”, per chiudere nell’estro de “Il brano che non arriva”.

«Durante la sua storia, l’umanità ha raggiunto l’incredibile: attraverso la cooperazione e la creatività, ha superato ogni altra creatura vivente sulla terra. Abbiamo gradualmente cambiato il nostro stile di vita, ma è difficile dire se ci stiamo evolvendo saggiamente. Le nostre invenzioni stanno in qualche modo sfidando lo sviluppo delle nostre capacità individuali, il nostro spirito di comunicazione e persino la nostra cultura».

È questo scritto che compare nel booklet ad averti ispirato?

«Il concetto che sta alla base di “Sapiens Doesn’t Means Sapiens” si ispira a riflessioni di Yuval Noah Harari, storiografo e filosofo israeliano che ha scritto importanti testi sull’argomento. Il principale dei suoi scritti cui mi ispiro è “Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità”. Il senso, che si ritrova soprattutto nella title track, riguarda tutto il progresso che l’umanità nel tempo ha conseguito, aumentando a dismisura la qualità della vita, portando soluzioni che ci hanno avvantaggiati tantissimo ma anche impoverito. Per esempio con l’agricoltura l’uomo ha perso le sue qualità di cacciatore raccoglitore. Ora ci ritroviamo in una condizione di dipendenza dagli altri, reagiamo diversamente agli stimoli e anche nella tecnologia abbiamo subìto degli impoverimenti, come quelli relativi al linguaggio, alla comunicazione, proprio nell’era della comunicazione. Ci sono, in sostanza, delle conseguenze al progresso dell’uomo, non necessariamente positive ed io con questo disco propongo di rifletterci: forse potremmo chiederci se quelli che consideriamo progressi siano in effetti dei passi in avanti a tutti gli effetti o se portino delle conseguenze con sé e se siamo, in effetti, così evoluti come crediamo».

Un tema che apre a situazioni ed esperienze diverse, come suggeriscono i titoli delle altre tracce del disco.

«Dietro ad ogni brano ci sono dei racconti, nati da pensieri ed emozioni, per cui la parte razionale ed emotiva si incontrano e si completano totalmente nella musica. Nel brano di apertura “Tiresia’s prophecy”, faccio riferimento ad un importante passo dell’epica omerica, una delle mie grandi passioni. In altri casi tento di descrivere delle situazioni psicologiche come gli sbalzi umorali e la difficoltà nel decifrare sé stessi, come in “Moon”, o da vissuti, come in “Restart” che è stato il primo brano che ho composto dopo la conclusione del lockdown e i lunghi mesi trascorsi a casa nell’impossibilità di suonare. In sostanza, dietro e dentro ad ogni composizione c’è una narrazione che prende le mosse o dai campi dell’arte e del pensiero filosofico o da mie esperienze di vita».

Puoi vantare già importanti collaborazioni con artisti nazionali ed internazionali, in studio ed in live, dimostrando anche in questo campo la tua versatilità non solo di compositore e improvvisatore, ma anche di polistrumentista alle tastiere, come in “Sapiens”.

«Oltre al pianoforte suono l’organo Hammond, il Rhodes ed il sintetizzatore. Sono sempre stato affascinato dagli strumenti a tastiera e ho cercato di esplorare il maggior numero di possibilità sonore che offrono. Nel disco è in “Moon” ed in There’s left” che ho deciso di utilizzare il Rhodes Mk1, dalle sonorità e dalle dinamiche ideali per quello che i brani vogliono esprimere. Per il resto ho avuto la fortuna di poter lavorare principalmente sul pianoforte, lo strumento che preferisco in assoluto, che in questo caso è un gran coda Fazioli, una delle più importanti eccellenze del nostro territorio. Per quanto riguarda la versatilità, posso dire che sia stato un mio desiderio sin dall’adolescenza. Ho sempre voluto approfondire il maggior numero di linguaggi possibili, ben sapendo che, purtroppo, non basterebbe una vita intera ad ottenere risultati soddisfacenti anche in uno solo di essi».

Qual è il tuo approccio alla composizione?

«Musicalmente sono piuttosto onnivoro e aperto a tanti generi e forme. Sono cresciuto fin dalla prima infanzia nella musica classica, tutt’ora una mia passione e piattaforma di studio costante. Al tempo stesso in casa non mancavano i dischi di black music e rock, il genere a cui mi sono dedicato maggiormente prima di approdare al jazz, sia di tradizione che sperimentale e contemporaneo. Oggi, forse più di un tempo, questi confini, soprattutto tra la classica ed il jazz, sono sempre più labili, in particolare il suono del pianoforte è molto influenzato dalla classica, un aspetto che condivido e nel quale mi ritrovo.
Per quanto riguarda la scrittura invece, cerco di partire dalla melodia per costruire un brano, per poi aggiungere l’armonia solo in un secondo momento. È un procedimento che va un po’ contro a quella che sarebbe la natura del mio strumento che, essendo squisitamente polifonico, spingerebbe a ragionare al contrario. Mi muovo però in questo modo perché credo che la melodia costituisca l’elemento di maggior forza di una composizione ed è su quello che mi piace investire maggiormente».

Sul canale Youtube di Gianpaolo Rinaldi sono usciti i teaser ed i video di “Sapiens doesn’t mean sapiens”, tutti da vedere ed ascoltare, realizzati da Pablo De Biasi. Il disco è disponibile su tutti i digital stores, mentre il formato fisico lo si può richiedere attraverso il sito www.gianpaolorinaldi.it.