Sono passati dieci anni da quando “La merda” irruppe nel panorama teatrale, trionfando al Fringe Festival sia come miglior spettacolo che come “Stage Award for Acting Excellence” per l’eccezionale performance di Silvia Gallerano.

Dopo tutti questi anni il testo di Cristian Ceresoli arriva finalmente anche a Trieste grazie a La Contrada, che ha ospitato il suo flusso di coscienza sulla condizione umana sul palco del Teatro Bobbio. E diciamolo subito: non ha perso nulla della sua forza iniziale. Forse perché va a toccare tasti suonati talmente tante volte e così pesantemente nella nostra epoca da essersi profondamente radicati nell’essere umano contemporaneo, tanto da far risuonare in ciascuno gli stati d’animo fatti provare -magistralmente- da Silvia Gallerano.

Ma andiamo con ordine.

Che voglia essere uno spettacolo provocatorio, politically incorrect, senza mezze misure lo si capisce da subito: fin dal titolo, o dalla nudità di Silvia Gallerano in scena, tra l’altro senza nessun altro tipo di scenografia (se non l’enorme sgabello su cui rimane seduta) che possa permettere di distogliere lo sguardo. Nudità che non è per nulla fine a sé stessa: da un lato è metafora del come la protagonista metta a nudo -nel corso dell’ora passata in scena- anche la propria anima, le proprie debolezze; dall’altro esplica bene come tali fragilità si riconnettano in tutti e tre gli atti al materiale, all’apparire e quindi in ultima istanza al corpo.

Gli atti (scanditi solo da una breve dissolvenza al buio, per permettere alla Gallerano di riposizionarsi sullo sgabello) sono un continuo flusso di coscienza che mescola passato, presente e futuro: ricordi e traumi accumulati nel corso della vita, blocchi e paure attuali, aspettative e desideri di un futuro finalmente in pace. Il tutto nell’ottica -drammaticamente ancora attualissima- dell’apparire, del successo come unica via per la realizzazione personale e per la stima di sé.

Silvia Gallerano è una ragazza comune, timida e introversa nei suoi racconti, convinta di non essere bella e di non valere ma altrettanto sicura che sono quelli come lei gli unici che non si piegano, che sono liberi. E che prima o poi il mondo se ne accorgerà, e lei allora potrà brillare davvero. Il contrasto tra l’orgoglio del non far parte del sistema ma il voler contemporaneamente che tale sistema ci riconosca è palese, segno di una confusione interiore che certamente tutti abbiamo provato. E che trova radici in ciò che prima di tutto siamo stati nella nostra vita: bambini. Non a caso la prima impressione che la Gallerano da sul palco è quella: issata su uno sgabello troppo grande per lei, con i capelli a pon pon, la postura ingobbita come a tentare di chiudersi su sé stessa, non è nient’altro che una bambina un po’ sperduta che continua a ripetersi le proprie illusioni su un futuro in cui sarà davvero ciò che è (o ciò che il mondo le chiede di essere per venire riconosciuta?).

Sulla prova d’attrice potremmo spendere pagine e pagine: magistrale la performance della protagonista, capace di conquistare, ipnotizzare ed emozionare ad ogni minuto dello spettacolo. Un’espressività che si concretizza innanzitutto nell’uso incredibile della voce, con mille sfumature che le permettono di caratterizzare con pochi colpi di mannaia (eppure efficacemente) tutti i personaggi secondari, che qui e lì appaiono mentre il suo flusso di ricordi rievoca dialoghi e situazioni. Dal padre che in posizione marziale sentenzia sulle qualità degli uomini liberi, alla segretaria svampita, alla dottoressa saccente finta-amichevole, all’handicappato che le chiede un favore molto intimo: tutti efficacissimi, tutti criticabili ma nel contempo “umani”, visti con l’occhio di quella bambina che sì, sa che magari hanno fatto qualcosa di male ma tutto sommato così va il mondo e non è colpa loro, dai.

Espressività che è ancora più commovente nei continui passaggi tra le varie sfumature (personalità?) della donna, che ciclicamente prendono la parola: oltre alla bambina c’è la ragazza più matura e infine quella che potremmo chiamare “la vera lei” (o almeno così si autodefinisce), quella che una volta presa la ribalta sfoga, vomita tutta la sua rabbia e la sua sete di rivalsa, anelando al momento in cui tutti la riconosceranno e la apprezzeranno. Passato, presente e futuro desiderato. È efficacissima la Gallerano nel passare dall’una all’altra nel corso del suo flusso di coscienza, riuscendo a non far mai sentire uno stacco netto ma piuttosto l’interconnessione delle parti di una personalità complessa, dilaniata tra di esse ma contemporaneamente presente in tutte loro perché incapace di trovare davvero il proprio centro, il proprio io.

Anche i tre atti formano una specie di flusso, temporale e simbolico della funzione digestiva. Da un lato il racconto procede nel corso del tempo, dando spazio prima ai ricordi infantili e alla figura del padre, poi alla seconda fanciullezza e la gioventù e infine sul tempo presente, i pochi giorni precedenti il provino a cui la protagonista tanto tiene e che nella sua mente cambierà per sempre la sua vita.

Ogni atto è però anche una metafora della digestione, un microcosmo in cui il “mangiare” i propri traumi è un viatico per tentare di  metabolizzarli e lasciarseli alle spalle ma che alla fine porta solo al desolante risultato di portarseli sempre più appresso: “mangiare le proprie cosce” e “mangiare cazzi” (primi due atti) rimangono solo desideri, non vere maturazioni dell’io, e questo si palesa completamente nello straziante finale in cui il mangiare la propria merda è la definitiva condanna del rimanere perduti per sempre nei propri problemi, nei propri blocchi, nelle proprie paranoie. Il voler espellere tutto ciò che ci blocca ma sapere che senza quello non saremo mai parte del sistema, mai accettati, e che quindi dobbiamo per forza ingerire nuovamente tutto: essere piuttosto tormentati, lacerati dentro, ma con un applauso da parte di chi ci sta attorno.

E a proposito di applausi: tanti ce ne sono stati alla fine dello spettacolo, anche se dolorosi. Non per la qualità di quanto visto (che avrebbe meritato anche maggior apprezzamento, ma di questo parleremo tra un attimo) ma perché la nudità -fisica ed emotiva- della Gallerano è un atto di accusa: contro il mito moderno dell’apparire di cui tutti siamo un po’ complici, contro il rinnegare sé stessi inghiottendo le parti di noi che potrebbero non piacere e non farci sentire accettati, contro chi fomenta questo tormento interiore giudicando, criticando, emarginando chi non è come gli altri. In ogni caso il testo di Ceresoli risuona in ognuno di noi, lasciandoci uscire da teatro a testa bassa e meditando su quale ruolo stiamo impersonando in questo sadico gioco: vittime o carnefici, persone come la donna sul palco o come quelle che l’hanno portata a essere così. E svelandoci sadicamente che in ogni caso il problema non è quale ruolo ma il fatto che siamo solo pedine di un gioco a cui non abbiamo ancora voluto sottrarci.

L’apprezzamento, si diceva. L’unica nota stonata della serata arriva infatti non dal palco ma dalla platea: dopo dieci anni di standing ovations e di “sold out” lascia spiazzati vedere un teatro pieno solo a metà, soprattutto dopo tutti gli sforzi fatti dalla Contrada per pubblicizzare e dare visibilità allo spettacolo-cult. Evidentemente Trieste è ancora troppo bigotta e conformista, più pronta a scandalizzarsi nel vedere LA MERDA e un seno al vento sulle locandine appese che ad approcciare con mente aperta un testo che sì, colpisce duro ma sa perfettamente dove tirare i suoi affondi e lascia soddisfatti, sbigottiti, scossi.

Scossi come era la Gallerano alla fine: avvolta nella bandiera italiana mentre accoglieva gli applausi, ere ben evidente quanto fosse ancora provata dall’ora passata sul palco. Segno -se ancora ce ne fosse bisogno- di quanto fosse immersa per davvero in ciò che narrava. Tanto che appena al terzo ritorno sul palco le è stato possibile accennare un primo sorriso; speriamo solo che abbia potuto notare i tanti sorrisi che erano affiorati anche in platea, segni della grande empatia che si è venuta a creare per quel dramma umano messo su un trespolo sul palco ma di cui tutti facciamo parte.

Luca Valenta / ©Instart