Canta Francesco Guccini: “Però che Bohéme confortevole giocata fra casa e osterie, quando ad ogni bicchiere rimbalzano le filosofie, Oh quanto eravamo poetici, ma senza pudore e paura, E i vecchi “imberiaghi” sembravano la letteratura, Oh quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore o vergogna, Cullati fra i portici cosce di mamma Bologna.”
Di quanto fu decisiva la formazione sentimentale e culturale di Pasolini a Bologna si dice poco; è soprattutto del poeta friulano o del profeta delle borgate romane che si parla. La vulgata vuole che i quasi quindici anni passati in quella città non siano stati alla base della sua poetica e del suo immaginario come le primule e i temporali del Friuli o le Marane di Roma dove si tuffava a “caposotto” il Riccetto.
Il centenario della nascita del Poeta si annuncia come una celebrazione in pompa magna, una beatificazione a lungo cercata che serve a disinnescare il potenziale eversivo della sua parola e del suo magistero.
Emilio Marrese, nel suo film “Il giovane corsaro”, presentato nei giorni scorsi al cinema Visonario di Udine, ha scelto di raccontare gli anni bolognesi del giovane Pasolini con uno stile ibrido tra documentario e fiction; attraverso un pretesto narrativo tutto sommato piuttosto banale, segue con la cinepresa in modo discreto ma puntuale uno studente universitario che sta approntando la propria tesi di laurea.
L’azione inizia con l’impacciata proposta al relatore di riferimento da parte dello studente che forse non ha ben chiaro nemmeno quello che davvero farà ma sente un’irrefrenabile attrazione per l’opera del poeta. Si prosegue per gradi con la raccolta dei materiali, le interviste, le discussioni, con una progressione da manuale del laureando, provetto ricercatore che tanti anni fa si condensò nel magistrale “Come si fa una tesi di laurea?” dell’inarrivabile Umberto Eco, pilastro dell’Alma Mater e della cultura europea. L’unica ingenuità del film è forse quella di credere che gli studenti universitari di oggi siano sempre così appassionati e ricchi di stimoli, la grande maggioranza, al contrario, vive con i propri docenti in un limbo fatto solo di burocrazia, sterili esami e tesine didascaliche e compilative. Marrese vuole illudersi e sperare che non sia vero, sinceramente lo vogliamo anche noi, abbiamo tutti un gran bisogno di essere anacronistici.
Gli studi e le scoperte dello studente Nico s’intrecciano con la quotidianità dei suoi affetti e con le vicende del giovane poeta in un continuo risuonare di stanze, rievocazioni di ambienti, situazioni e sensazioni che danno vita ad una rappresentazione biografica ritmata e vibrante.
Grande merito va alla magnifica interpretazione di Nico aka Nicole Guerzoni che ad un certo punto sembra quasi l’incarnazione delle contraddizioni e delle ambiguità di Pasolini. Nei vari film biografici dedicati al poeta di Casarsa si è ricercata molto spesso una precisa somiglianza somatica dell’interprete principale fino alla ricerca di veri e propri sosia (Massimo Ranieri, Willelm Dafoe …..) trascurando fin troppo la rappresentazione almeno mimetica dell’identità di per se fluida del poeta.
Nico Guerzoni, con alle spalle ottime esperienze teatrali e un paio di cortometraggi di un certo rilievo, dimostra con la propria interpretazione un’identità non binaria, un approccio alla figura di Pasolini non cristallizzato o ossificato in uno stereotipo sociale e non è importante se Nico reciti un personaggio o metta in scena la propria personalità. E’ comunque un segno di massima apertura verso l’interpretazione anche visiva che richiede un piccolo sforzo allo spettatore proprio nel rinunciare alla pretesa di definire sempre necessariamente un ruolo e un genere. E’ un salutare rafforzamento del principio di sospensione dell’incredulità: chiunque può essere quello che sceglie e che ritiene meglio per se al di là delle etichette e delle definizioni alle quale il Potere sovente ci incatena.
In una splendida sequenza del finale Nico indossa degli occhialoni da sole con la montatura spessa proprio come quelli del poeta; davanti allo specchio dialoga con lui in uno sdoppiamento che forza Pasolini a contraddirsi ancora una volta e sempre: “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter essere più compresi”.
L’opera di Pasolini, al contrario, ancora ci interroga, ci mette davanti ad uno specchio, ci spinge sempre e ancora a farci delle domande su noi stessi e sulla nostra ipocrisia, sulla nostra identità personale e sociale.
La questione non è tanto da che parte stiamo, quale ruolo abbiamo, chi siamo o chi ci crediamo di essere, ma cosa vogliamo e cosa scegliamo. E’ proprio ancora una questione di scelta, è qui la radice della paradossale volontà autocontraddittoria di Pasolini che scardina e rovescia ogni convenzione sociale e convinzione personale. Come dimostra il documentario, cominciò ad agire in questo senso già a partire dalla sua giovinezza bolognese, da quei portici e da quelle osterie, dal liceo e dall’università.
Alle tante intense parole e immagini di repertorio del poeta, sia relative al suo periodo bolognese che all’intero arco della sua produzione artistica, si sovrappongono nella docu-fiction quelle dei giovani che affiancano l’interprete principale. Samantha Faina che interpreta la sua compagna, allieva della Scuola dell’Opera del Teatro Comunale Bologna, ad un certo punto fa la domanda più pasoliniana di tutto il film, senza fronzoli e in modo diretto e spontaneo, chiede: “Ma sto Pasolini, ma chi cazzo era?
Un’innocente, celeste volgarità che suona molto più genuina, irriverente, dissacratoria e perfino sacrilega della prosopopea della santificazione che il poeta sta subendo proprio in questi primi mesi del suo centenario, quella si davvero blasfema e fasulla. Si consideri semplicemente l’appropriazione indebita della sua figura da parte di alcuni partiti politici di estrema destra che senza alcuna vergogna, dopo averne per decenni oltraggiato la memoria, estrapolano citazioni a vanvera dai tanti suoi scritti che a malapena sono in grado di leggere. Certo è che non si tratta solamente di evidente analfabetismo funzionale, tanta è la malafede e la strumentalizzazione a puro scopo di propaganda.
Quello che si vuole fare è trasformare sempre di più l’irriducibile vitalità e irrimediabile contraddittorietà del poeta in un fenomeno mediatico omogeneizzato, pre-masticato e digerito buono per tutti i pomeriggi televisivi domenicale e per i gadget da edicola.
Per fortuna non è per niente facile disinnescare l’ordigno Pasolini che mina la nostra ipocrisia alle fondamenta ma sono quasi cinquant’anni che il Potere ci sta comunque provando.
La bellezza del lavoro di Marrese non sta solo nelle splendide immagini di repertorio o nella luce con la quale fotografa le meravigliose architetture anche “interiori” di Bologna, ma soprattutto nel non aver ceduto alle lusinghe e alle sinistre sirene maligne della memorialistica nostalgica e del trionfalismo celebrativo che fa sì che molti sciacalli si stiano contendendo ancora una volta, brano a brano, il cadavere di Pasolini come “lupi feroci cupidi di guadagno” come quelli di cui parlava l’Alighieri, proprio gli stessi che nell’appena trascorso centenario danteschi si sono pasciuti di cantiche e terzine biascicandole come marabutti senza capirne soprattutto le esortazioni all’onestà, alla rettitudine morale e redenzione.
Marrese ha il grande merito di tenersi lontano dai soliti pietismi che riguardano, per esempio, il suo tenero rapporto con la madre Susanna e con tutto l’universo femminile che a volte viene strumentalizzato ed edulcorato.
Da “Il giovane corsaro” è assente anche la solita prurigine scandalistica e morbosetta attorno alle sue preferenze sessuali sulle quali si insiste malignamente trasformando la sua legittima, personale ricerca di sentimento, piacere e vita in una bieca perversione da compiangere chiamando in causa le sue cacce notturne per le borgate di Roma e la sua voracità sessuale.
Il regista ha dichiarato che a muovere la sua curiosità verso il poeta furono proprio le malevole, spregiative considerazioni sulla sua persona che ancora oggi non sono per nulla infrequenti. Un suo ricordo d’infanzia entra in sceneggiatura proprio a sottolineare la cattiva reputazione di cui godeva Pasolini. Marrese era un bambino quando sentì alla televisione la notizia del poeta assassinato, incuriosito domandò al proprio padre: “Ma chi era Pasolini?”, la risposta secca e definitiva fu :”Un Busone!” termine spregiativo con il quale il dialetto bolognese indica gli omosessuali. Nella finzione del documentario l’interprete principale trent’anni dopo si sente dare la stessa risposta.
Chi scrive queste righe cresciuto a pochi chilometri da Casarsa e si ricorda bene gli anni nei quali il nome di Pasolini era solo sussurrato a mezza bocca con grande disprezzo e sulla sua figura insisteva una cappa di totale silenzio e di esecrazione che sono poi la damnatio memoriae dei friulani.
Intelligentemente nel documentario si fa un riferimento anche a questo antico “canone del silenzio” relativamente agli infausti “fatti di Ramuscello”. Marrese non ha certo peli sulla lingua, non si risparmia sulle contraddizioni giovanili del poeta, indagando anche sulle sue prime esperienze di scrittura sulle riviste dell’epoca, unica via possibile per un giovane intellettuale di comunicare ed esprimersi e veder pubblicati i propri lavori.
Naturalmente, nota anche che già allora trovava spazio la sua vena creativa e trasgressiva.
Emozionante il riferimento alla gioia incontenibile del giovane Pasolini per la pubblicazione della sua prima silloge, “Poesie a Casarsa” del 1942 e per l’encomiastica recensione di Gianfranco Contini.
Utilizzare la lingua friulana nella parlata della destra Tagliamento durante il Ventennio e per di più con la guerra in corso al confine orientale d’Italia era un vero e proprio atto eversivo per la bieca politica linguistica nazionalista del fascismo. Per un inquadramento generale sull’argomento si legga “Il martire fascista” di Adriano Sofri (Marsilio 2019).
In ogni caso, i suoi brevi componimenti non passarono inosservati, sembrarono fin da subito rigeneranti, sorgivi, lustrali come l’acqua fresca del suo paese.
“Poesie a Casarsa” cominciava con questa Dedica:
“Fontana di aga dal me paìs.
A no è aga pì fres-cia che tal me paìs.
Fontana di rustic amòur.”
Certo Pasolini era nato a Bologna, ci aveva studiato, continuò a tifare tutta la vita per la squadra di calcio di quella città ma scelse di essere friulano con la testa e con il cuore, uno che quella terra d’elezione dovette abbandonare ma nella quale tornò sempre e della quale conservò sempre un intimo affetto e che ora lo accoglie come generazioni di emigranti costretti prima ad un amaro esilio e che continuano poi a ritornare nella terra avita.
Nel documentario di Marrese si fa più di un riferimento ad uno scritto di Pasolini dell’8 maggio 1975 rivelatore in questo senso e che ci ricorda cosa pensasse davvero il poeta della città che lo partorì a pochi mesi dalla morte.
“Bologna non è una città “tipica” dell’Italia. Essa è un caso unico…La sua anomalia è dovuta al fatto che essa si è “sviluppata” in questi ultimi anni secondo le norme ormai sacramentali dello sviluppo consumistico. Dunque gli amministratori comunisti hanno dovuto affrontare i problemi che imponeva loro lo sviluppo capitalistico della città…(prefigurando) l’eventuale Italia del compromesso storico in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di piccoli borghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla borghesia gli operai.”
Dopo i titoli di coda un breve frammento mostra Pasolini che se ne va tra le dune di Ostia in una famosa intervista tra le ultime, quella in cui, con una certa disperazione, denunciava l’avvenuta omologazione degli italiani sotto la sferza del nuovo fascismo veicolato dalla società dei consumi che vedeva ben rappresentata nella città di Bologna, rimpiangendo “l’illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa” che per lui s’incarnava in un Friuli che forse è esistito solo nella sua memoria e nel suo amore incondizionato.
Flaviano Bosco © instArt