Un festival cinematografico, per lo spettatore appassionato, è spesso un’incognita, tra gli autori più noti che si scelgono ad occhi chiusi ce ne sono altri quasi del tutto o per niente noti che vogliono far scoprire il loro talento.

Si guarda il programma, si decide a quali proiezioni assistere sulla base delle scarne note in sinossi, per le immagini della locandina, gli attori, poi, con un po’ di esperienza, anche per istinto.

Naturalmente, non sempre è la fortuna a guidarci, capita che abbia altro da fare o che sia distratta, perciò è inevitabile incappare in un certo numero di film deludenti o che in altre condizioni mai avremmo scelto di guardare. In ogni caso ne vale la pena, c’è sempre qualcosa da imparare o da scoprire. I festival servono proprio a questo, farci uscire dai percorsi già noti per scoprire nuovi sentieri del cinema e pazienza se a volte non condurranno da nessuna parte, sarà stata sempre un’esperienza in più.

Le recensioni che seguono riguardano dunque opere presenti al Trieste Film festival non del tutto riuscite ma comunque con qualcosa da dire.

Nella parte di questa breve esplorazione delle pellicole del festival triestino facevamo riferimento ad alcune considerazioni di Giorgio Manganelli tratte dal suo “Altre concupiscenze”, che riguardavano il vero significato di una qualunque recensione. Sempre con quel pizzico di autoironia che rende più sopportabile il nostro peregrinare in questa valle di lacrime, riportiamo il sarcastico e sprezzante giudizio del grande scrittore sul recensore nel quale il redattore di queste righe si riconosce pienamente.

“Se la letteratura è un sogno caotico e sfrenato, una città frequentata da cantafavole, buffoni, prèfiche a pagamento, ciarlatani virtuosi e predicatori di elaborati vizi, ecco che il recensore sarà il buffone del buffone, la spalla del grande tragico, la claque del meditabondo, il parassita del pe­dante. Ecco, il parassita, nobile, arcaica, odiosa e petulante figura che appartiene alle più antiche tradizioni dell’urbanistica della suburra letteraria. Il parassita è un impasto di smorfie, di fraintendimenti, parole storpiate, echi equivoci, rumori sconci, lazzi pensosi e concetti sbracati; che chiedere di più pertinente a un discorso letterario, ornata, splendida orazione funebre in onore dell’unico eroe attendibile, l’eroe negativo! Indulgenti, preoccupati, gettate il vostro obolo al furbo parassita.”

Detto questo, “buffone del buffone” lo scrivente si sentirà più libero di esprimere le proprie opinioni non sempre lusinghiere sui film che seguono senza pretendere di dire verità assolute e senza voler avere ragione a tutti i costi, tanto la ragione è solo dei pazzi, così come appartiene loro anche la verità.

Būsiu su tavim (Sarò al tuo fianco) di Virginija Vareikyté, Maximilien Dejoie, Lt/It/Ch 2021, 73 min. Scrive Emile Cioran nei suoi “Incontri con il suicidio”: Quando ci afferra l’idea di farla finita, uno spazio si stende davanti a noi, una vasta possibilità fuori dal tempo e dall’eternità stessa, un’apertura vertiginosa, una speranza di morire al di là della morte. Invero, uccidersi è rivaleggiare con la morte, dimostrare che si può fare meglio di lei, giocarle un brutto tiro…” Una sperduta cittadina della Lituania rurale vanta il non invidiabile primato del più alto tasso di suicidi d’Europa, la pellicola, con stile pseudo-documentaristico, racconta gli sforzi delle istituzioni per contenere le percentuali che a livello statistico condannano la località alla sua triste fama. Sono proprio solo i numeri a contare e ad essere presi in considerazione. L’intreccio non fa minimamente riferimento alle motivazioni che spingono gli abitanti a togliersi la vita, non ci si chiede mai il perché di certi atti ma si mettono semplicemente in atto strategie per contenerli. La coppia di registi concentra i propri sguardi su una scattante psicologa, atletica e performante anche se stagionatella, e su una giovane corpulenta poliziotta, una coppia che non avrebbe sfigurato in un film di Lynch o dei fratelli Cohen.

Le due controllano una serie di potenziali suicidi e passano il loro tempo a cercare di convincerli a non farla finita. Sono persone anziane e sole che sembra necessitare solamente di una qualche chiacchierata per risolvere tutti i problemi, è una “favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude” del tutto irreale e da ufficio di promozione turistica. Per fortuna la telecamera non indugia su particolari da caso umano, le persone che la coppia “assiste” non vengono quasi mai mostrate in primo piano, vi è una certa discrezione nel mettere in scena la sofferenza, non vi è alcuna pornografia del dolore. Il fatto veramente triste è che non c’è altro se non una bella fotografia e dei gran giri in macchina delle due protagoniste attraverso la campagna lituana. Tutta la vicenda potenzialmente molto interessante a livello cinematografico si rivela un’occasione persa, un giro a vuoto che forse avrebbe potuto dire tanto su un argomento spinoso e attuale e che finisce tra quattro capriole di fumo. Nessuno, per esempio, che spieghi agli spettatori perché quelle povere persone non dovrebbero cercare il primo albero e una corda come Estragone e Vladimiro nella famosa pièce di Beckett. “E se c’impiccassimo?”.

Avako di Ksenija Pčelinceva, Russia 2021, 29 min. Un American Graffiti “a la russe” senza alcuna vergogna. Per pubblica dichiarazione della giovane regista è la rappresentazione nostalgica della sua adolescenza scapigliata di tredicenne che scopriva i primi rossori per il solito bulletto di periferia più grande di lei. Come in tutti i sobborghi del mondo i ragazzi giocavano a fare gli americani con i loro skate board e “Puorte ‘e calzune cu nu stemma arreto/Na cuppulella cu ‘a visiera alzata/Passa scampanianno pe’ Tuledo/Comm’a no guappo pe’ te fa’ guardà” proprio come diceva Carosone. In questo cortometraggio i clichè davvero si sprecano, a partire dalla rappresentazione del ragazzo pseudo punk che passa la sua ultima giornata con gli amici e l’impertinente “Pippi calzelunghe” prima di arruolarsi nell’Armata Rossa. Zuccheroso, dolciastro, inutile, fa solo venir voglia di Unione Sovietica e di cantare alla regista:“Sient’a mme chi t’o ffa fa?”

Amygdali (Amigdala) di Maria Hatzakou, Grecia 2021, 22 min. Si dice nel corto: “L’Amigdala o corpo amigdaloideo è un complesso nucleare situato nella parte dorsomediale del lobo temporale del cervello che gestisce le emozioni. E’ ritenuta il centro di integrazione di processi neurologici superiori come le emozioni, coinvolta anche nei sistemi della memoria emozionale. E’ attiva nel sistema di comparazione degli stimoli ricevuti con le esperienze passate.” Tanta prosopopea si risolve in una storiella puberale di odio e amore morboso tra due sorelle che si trasforma in un atroce incubo di sangue in un’estate in piscina. Sembrerebbe l’ottimo materiale narrativo per il solito pessimo slasher classico all’americana o per una riedizione del sempre attuale “Che fine Ha fatto Baby Jane?” di Aldrich e invece il tutto si risolve in un fumettone pseudo saffico e vagamente incestuoso come nemmeno nel peggior Yuri del Sol Levante. Stupende adolescenti in costume da bagno che si sfiorano sull’amaca mentre la sorellina “rossa mal Pelo” gelosa e capricciosa le “guata” meditando vendette paranormali che si compiono nella strage finale a bordo piscina tra allucinazioni e cruda realtà. Il risultato è un cortometraggio con evidenti riferimenti zuccherosi e pasticciati all’edulcorata estetica Kitch dei disgustosi anni ‘80; non viene risparmiata agli spettatori nemmeno un’indigeribile colonna sonora finto new wave che la regista in presentazione ha il coraggio perfino di pubblicizzare in versione cassetta nastro a tiratura limitata.

Big di Daniele Pini (Ita) 2021, 14 min. Brutti, sporchi e cattivi sulla spiaggia. Questo non indispensabile esercizio retorico in forma di corto cinematografico concentra tutti i possibili stereotipi rubati da una lunga tradizione cinematografica che ha certo nel film di Scola il suo riferimento maggiore, ma al cui treno possiamo agganciare tranquillamente i vagoni di ”La terra vista dalla Luna” di Pasolini e di “Casotto” di Franco Citti e anche quello de “I Mostri” di Dino Risi. La vera differenza è che quelli erano capolavori nel loro genere, questo ha la fragranza di un bombolone della settimana precedente. La sceneggiatura racconta di una ragazzona con qualche ritardo mentale che vive in una baracca in riva al mare con il proprio padre anche lui piuttosto male in arnese, entrambi conducono una vita miserabile; davanti a loro solo il mare d’inverno limaccioso e scuro di nuvole basse, alle loro spalle una squallida statale piuttosto trafficata, condividono questo spazio paradossale con un’umanità incanaglita nel degrado della miseria e dell’abbandono.

Un tocco di surrealismo vuole che la ragazzona pingue e tarda venga costretta dal padre a perlustrare la spiaggia con un metal detector alla ricerca di qualche piccolo tesoro dimenticato e smarrito (anellini, monete ecc.). E’ obbligata a vendere le cianfrusaglie che scava dalla sabbia ai passanti sulla statale, i magri proventi vengono trasformati dal padre in birrette che si beve con gli altri suoi amici crapuloni che nello squallore dell’abiezione insidiano e abusano della figlia demente.

Lei un giorno trova davvero un grande tesoro sepolto: un bel po’ di esplosivo (forse qualche residuato bellico) con il quale fa saltare baracca e burattini. Il corto è ben confezionato dal punto di vista tecnico ma è troppo indulgente e fin troppo compiaciuto della propria sostanza di fiaba nera alla romanesca con personaggi volutamente caricaturali costantemente sopra le righe e del tutto fuori registro.

Nonostante tutto il livore e il malanimo del contrariato recensore che, come diceva Manganelli più sopra, ha la falsa coscienza di un buffone di quart’ordine, il Trieste Film Festival rimane una meravigliosa occasione per incontrare un continente cinematografico dall’energia e dalla carica vitale ancora intatte. L’ultima edizione, appena conclusa, l’ha dimostrato ampiamente. Viva il TFF!

Flaviano Bosco © instArt