Il Gran Teatro Geox di Padova rappresenta un’ottima occasione per rivedere dal vivo in Italia una delle band più amate di sempre, i Jethro Tull, in una data unica per il nord est nazionale, domenica 6 febbraio. Il Tour The prog Years dopo le date italiane (tra le quali Torino e Roma) attraverserà tutta l’Europa ripartendo dal Portogallo e dalla Spagna, con date già fissate fino al novembre del 2022. Devo fare una piccola premessa un po’ di parte: sono cresciuto ascoltando Aqualung, capolavoro del progressive rock pubblicato nel 1971, opera che è entrata di fatto nel patrimonio musicale mondiale: il 33 giri è ancora ben conservato nonostante centinaia di ascolti che l’hanno rigato per bene. Ma i Jethro non sono ovviamente solo Aqualung: basti citare, tra gli altri album del gruppo realizzati negli anni ’70 Benefit, Living in the past, Thick as a brick (con una copertina leggendaria), Stormwatch, seguiti da una carriera di luci e ombre e un continuo susseguirsi di modifiche alla formazione originale e tentativi del frontman di intraprendere una carriera solistica. Dopo la sostituzione di Mick Abrahams con il poliedrico Martin Barre, circa altri trenta musicisti si sono avvicendati nelle fila della band, marchio che sopravvive fino ad oggi e dura nel tempo.
Anderson, oggi settantaquattrenne, non ha mai abbandonato le esibizioni live e in tempi recenti ha anche portato in scena la celebrazione della vita di Jethro Tull, l’agronomo e inventore inglese del settecento da cui prese il nome la band. Da citare, a questo proposito, il dialogo contenuto nel film Armageddon:“Ciò che mi fa perdere le staffe sono quelli che pensano che Jethro Tull sia un musicista del complesso. Chi è Jethro Tull?”.
Il gruppo ha da poco pubblicato il disco di inediti The Zealot Gene, descritto da Anderson come un “insieme di riflessioni su temi e concetti biblici”. L’ascolto mette in evidenza un sound che ricalca il tipico marchio del gruppo, senza ricerca di particolare innovazione, fatto di parti solistiche di tastiere, arrangiamenti minuziosi, chitarra e l’immancabile flauto. Un album che ha già ottenuto buoni riscontri dalla critica musicale e, come è naturale, anche qualche critica. Dodici tracce guidate dall’inconfondibile voce di Ian Anderson che nonostante gli acciacchi del tempo resta emozionante e unica. Tra i brani risaltano la title track The zealot gene (di cui parleremo in seguito), l’acustica Jacob’s tales e il riff magnetico di Shoshana sleeping.
Il pubblico che affluisce all’ingresso del Gran Teatro Geox è eterogeneo con presenza massiccia di ultracinquantenni ma fa piacere anche notare giovani fans e anche qualche teenager munito di t-shirt del gruppo. L’attesa scorre in relax nell’ampio atrio della struttura, con incontri piacevoli e inaspettati di amici appassionati e ascolti di brani che hanno fatto la storia del rock, tra i quali gli stessi Jethro Tull, gli Stones e i Creedence. Viene annunciato che lo show sarà di diviso in due parti. Lo scenario del concerto è essenziale, con il palco centrale a dominare l’ambiente un megaschermo alle spalle dei musicisti sul quale vengono proiettati video molto evocativi che accompagnano i singoli pezzi.
Il concerto inizia in perfetto orario alle 21:15. L’affluenza di pubblico è molto corposa. Con i tempi che corrono e le limitazioni dovute alla crisi pandemica (alcune parti laterali della sala non sono accessibili) si può affermare che si è registrato il “tutto esaurito”. Lo stesso sta avvenendo nelle prossime date fissate del Tour.
La formazione che sale sul palco è composta dal frontman e anima della band Ian Anderson (voce, flauto, chitarra acustica), Joe Parrish James (chitarra elettrica, nota bene: classe 1995), David Goodier (basso), John O’Hara (tastiere) e Scott Hammond (batteria, percussioni).
Dopo un inizio scoppiettante e una versione energica di Nothing is easy, il terzo brano in scaletta – Thick as a brick – riscalda la platea: il pubblico canta il finale dello storico pezzo assieme a Ian Anderson, che nell’occasione imbraccia anche la chitarra acustica. Seguono Living in the past e Hunt by numbers. Bouree viene accolta con un sonoro battimani e l’assolo di David Goodier è di ottima fattura e risulta molto apprezzato dal pubblico. Nel finale l’assolo al flauto di Ian Anderson viene accolto da una vera e propria ovazione.
L’abilità di Anderson e il suono inconfondibile del suo flauto sono un vero e proprio copyright che nel corso del tempo ha conferito ai Jethro Tull quell’unicità che li contraddistingue a livello mondiale. La prima sessione dell’esibizione si chiude con My God, brano tratto da Aqualung che critica aspramente il dogmatismo religioso. L’inizio è intimo, con Ian Anderson all’acustica e la tastiera di John O’Hara. L’esplosione strumentale del brano viene accompagnata da immagini a sfondo religioso e da un inquietante interno di una cattedrale gotica. Ciò che è artisticamente alto non teme lo scorrere del tempo.
Dopo una breve pausa inizia la seconda sessione, anch’essa molto energica, contraddistinta da esecuzioni sempre al limite della perfezione. Ian Anderson è un leader che cura minuziosamente i particolari e la sua padronanza di palco lo dimostra appieno. The zealot gene, title track dell’ultimo lavoro della band è una canzone ben strutturata, una sorta di invettiva contro il populismo, contro la pigrizia di chi non vuole andare a fondo dei pensieri, contro la tendenza a far parte di fazioni e fanatismi. Un testo che rispecchia appieno l’attuale società, guidato dalla proiezione di immagini dei famosi ed effimeri “like” dei Social media con la partecipazione vocale del chitarrista Joe Parrish. Come dicevo in premessa non pare che l’interesse di Ian Anderson e soci sia quello di creare suoni e atmosfere innovativi ma piuttosto di strutturare armonie e atmosfere solide proponendo temi che inducono a riflettere sulle nuove tendenze del mondo attuale. Un gran bel pezzo, sicuramente tra le migliori performance della serata.
Songs from the wood è una vera e propria cascata di sonorità prog con intrecci musicali di forte complessità, una perla per gli amanti del genere. Aqualung, come accade da un po’ di tempo, viene proposta in una versione profondamente diversa dall’originale ed è cadenzata da fraseggi virtuosistici dei componenti della band. Una canzone epica che parla degli ultimi, dei dimenticati, di chi soffre e subisce l’impietoso giudizio morale della collettività, un brano complesso anche nella lettura più profonda dei significati che trasmette.
Il tema strumentale eseguito alla fine dello show unisce in abbraccio le bandiere ed è un invito a superare differenze e diffidenze, un’esortazione a creare un nuovo ordine che metta al vertice di tutto la pace fra i popoli. La passerella finale e il saluto dei componenti dei Jethro Tull con tanto di “sigla di chiusura” conclude uno show che ha confermato che la longevità di un gruppo non può basarsi solo su un logo bensì avere come fondamento un lavoro continuo di ricerca e il mantenimento di un’alta etica artistica.
Certo, il tempo passa, la voce di Ian Anderson non è quella che abbiamo conosciuto nei vinili, ma l’energia non è mai mancata. Va evidenziata anche l’estrema accuratezza dell’esecuzione da parte di una band molto affiatata e dotata di grande personalità e tecnica. Insomma, quello di Padova è stato uno spettacolo ben calibrato e strutturato, uno show di alto livello di una grande Band che saprà ancora regalare nel futuro altre perle ai suoi numerosi fans e, più in generale, al mondo artistico. Noi siamo tornati a casa pienamente appagati.