Non poteva esserci luogo migliore che il Revolver Club di San Donà di Piave per il ritorno di una delle band più estreme della storia del metallo nero che da tre decadi devasta i palcoscenici di tutto il mondo, quella degli svedesi Marduk. “Frontschwein”, uno dei loro album più acclamati dopo i classici “Panzer Division Marduk” e “Wormwood” riguarda gli orrori e le tempeste d’acciaio della Prima Guerra mondiale.

“Porci del fronte” erano definiti i giovanissimi soldati al battesimo del fuoco che venivano mandati al macello in quell’insensato massacro. A Poche centinaia di metri dal luogo del concerto, sotto il Ponte della Vittoria, scorre placido il Piave, il fiume sacro alla Patria, che ha visto il sacrificio dei ragazzi del ‘99 che bloccarono l’avanzata tedesca dopo la rovinosa disfatta di Caporetto. Il Piave mormorava allora e forse, con tutto il rispetto, lo ha fatto ancora per una sera al rombo dell’artiglieria svedese.

Molto è cambiato da allora, cento anni non sono passati invano, gli orrori restano ancora, solo che si celano in altre forme e valenze simbolica, cercheremo di spiegarlo in questa recensione che non parla solamente del concerto ma anche del contesto nel quale si è svolto che arricchisse di significato un’esibizione che non possiamo ridurre solamente all’ultraviolenza di un’incredibile aggressività sonora; non renderemmo giustizia a degli autentici artisti e al loro seguito.

Come ammettono gli organizzatori dell’evento, non tutto è andato per il verso giusto nella serata: “E’ successo qualsiasi (sic) imprevisto, anche a causa della macchina ferma da due anni, ma siamo riusciti a portare a casa la serata. Sicuramente un servizio non ai livelli a cui vi avevamo abituati e per questo sono doverose delle scuse”. Scuse accettate, quasi quattro ore di musica poderosa da parte di quattro gruppi hanno ben ripagato dall’inconveniente che nel mezzo dell’esibizione dei Marduk sia saltato l’impianto luci e l’amplificazione e che la stessa band non abbia voluto risalire sul palco per il bis.

Sono sciocchezze di chi non si rende conto di quanto bello sia stato ritrovarsi dopo due anni di mortificazioni da lockdown a fare il pogo sotto il palcoscenico grondante “sangue” di un gruppo di musica estrema, e, anche se qualche mugugno c’è effettivamente stato per l’ultimo set interrotto forse troppo presto, si sono visti soprattutto sorrisi di soddisfazione per aver assistito a qualcosa di veramente unico.

Un breve accenno anche alla scenografia assolutamente essenziale e scarna affidata quasi del tutto solo ad un gioco di luci molto ben studiato che ammantava il palco in fasci di luce lividi, violente e accecanti dai quali emergevano come spettri le figure inquietanti dei musicisti. Osservando nel loro complesso il modo in cui i gruppi si sono esibiti sul palco, Black Violence esclusi, è intuibile anche un’idea comune di coreografia. Alla fine di ogni brano i fasci di luce si spegnevano e tutti i musicisti nella semi oscurità volgevano le spalle al pubblico e si spostavano per qualche momento, chi davanti alla colonna degli amplificatori di palco, chi davanti alla batteria quasi a ricaricarsi per poi riprendere con ancora più energia e cattiveria. Questo andirivieni spezzava l’esecuzione ma permetteva ai musicisti di trovare ad ogni brano la giusta attitudine e ferocia per ogni nuova interpretazione. Le band non si sono presentate, non hanno ringraziato e, a parte Mortuus che rispondeva ad alcuni cori del pubblico non proprio da oratorio parrocchiale, non hanno cercato di interagire o di blandire il pubblico con le solite “moine” da palcoscenico. Come si diceva una volta: “If You want blood, You got it”; certe volte le parole e i rituali dello spettacolo sono davvero superflui. Gli spettatori da due anni aspettavano pesante musica a martello e non chiacchiere e finalmente l’hanno avuta.

Prima di passare alla rassegna delle quattro esibizioni si permetta una breve digressione che però si ritiene molto significativa anche per spiegare ai più scettici che il black metal è una forma d’arte espressiva tanto quanto le altre. I simboli orrorifici, pseudo-satanisti, la violenza sonora ostentata e perseguita con furia ossessiva, l’atteggiamento feroce di chi è stato “a scuola ad imparare a far la faccia dura per fare più paura” circondano il genere di un’aura sinistra che riesce a spaventare ancora qualcuno attirando ingenerose considerazioni e condanne su una forma d’arte più che legittima e molto più complessa e significativa di quello che si crede, soprattutto oggi.

L’unica forma di rock che ha conservato la propria forza espressiva senza cedere ai compromessi dello show business e del consumismo musicale è proprio il Black Metal che sembra essere l’unico ancora in grado di esprimere, senza inutili paternalismi e accademismi, la rabbia e la frustrazioni che la quotidianità del nostro sistema economico e politico disumanizzante ed alienante provoca. Gli unici artisti che ancora sono in grado di bestemmiare l’ingiustizia della realtà che ci circonda senza annoiare con l’ipocrisia di paternalistiche giaculatorie è proprio il metallo nero. Qualche esempio relativo proprio alla zona di San Donà di Piave davvero emblematica e paradigmatica dell’abisso nel quale siamo precipitati senza rendercene conto. Per di più la coincidenza con l’anno di celebrazioni dantesche ci aiuta ancora di più a visualizzare le malebolge d’inferno al quale ci siamo condannati.

A San Donà di Piave è perfettamente comprensibile quella catastrofe antropologica che interessa quello che ancora rimane della campagna veneta che ha trasformato il proprio paesaggio fatto di campi e vigneti in un’oscena periferia industriale fatta di capannoni, centri commerciali e villette a schiera con un’unica colata di cemento che praticamente comincia nei sobborghi orientali di Pordenone e finisce a ovest di Torino per la gioia luciferina di sconsiderati urbanisti.

Ma a parte l’autentico orrore di questa devastazione, a colpire l’immaginazione sono alcuni segnali sparsi nella periferia cittadina sia nelle zone residenziali che in quelle industriali. Sono quelli del sedicente progetto di Controllo del Vicinato che nasconde dietro i buoni propositi della prevenzione, sicurezza e difesa della legalità una gravissima propensione alla diffidenza verso l’altro fino alla xenofobia e alla sindrome dell’assedio. Citiamo testualmente dal sito ufficiale dell’iniziativa che molti comuni italiani si sono sentiti di condividere:

“Il progetto Controllo del Vicinato non presuppone atti eroici, non ha funzioni repressive, né, tanto meno, invita ad acciuffare il malvivente, è un progetto di prevenzione, per evitare che i reati si consumino. L’isolamento e la privacy sono nemici della sicurezza e quindi dobbiamo cercare di recuperare i rapporti di fiducia coi nostri vicini, sapere di non sentirsi soli è il primo passo per non avere paura. Se ci pensiamo bene, un ladro non vuole farsi vedere, non vuole perdere tempo e, ovviamente, non vuole farsi prendere; per progettare un colpo, i malviventi passeranno davanti alla casa prescelta, non sono fantasmi, basta non girarsi dall’altra parte o far finta di nulla delegando ad altri il problema, e allertare subito le Forze dell’Ordine. In parole povere grazie all’ausilio della tecnologia molti cittadini infatti utilizzando per esempio WhatsApp, quindi si diventa vere e proprie sentinelle dei quartieri, i cittadini operano una vigilanza l’uno sull’altro, sulla propria zona, il proprio condominio o la loro strada, in modo da poter segnalare eventuali anomalie o presenza di persone o auto sospette”.

Quello che si descrive in queste righe è un tipo di socialità che passa attraverso la paura del diverso, l’ossessione per l’intrusione e la difesa ossessiva del proprio spazio; l’unica condivisione che presuppone è quella della paura. In sostanza si intima ai cittadini di starsene ben chiusi in casa e barricati perché il mondo fuori è cattivo e pericoloso, va guardato solo dallo spioncino delle nostre grate sospettando di chiunque stando pronti a difendersi. In estrema sintesi come diceva Sartre in altro contesto: “L’inferno sono gli altri”.

Senza alcun ulteriore commento riportiamo un recente drammatico fatto di cronaca che dimostra come l’esasperazione di certe situazioni finisca molto spesso per risolversi in orribili atti di violenza omicida.

San Vito Ercolano. Spara e uccide due ragazzi in auto “Ho pensato che fossero dei ladri” Gli amici, 26 e 27 anni, chiacchieravano dopo aver giocato a calcetto e aver visto Napoli-Bologna. Il camionista è uscito dalla sua villetta e li ha colpiti in fronte. Aveva subito un furto alcuni mesi fa.”

Se il Revolver club è nel bel mezzo della zona industriale tra capannoni, depositi e silos, luogo ideale per la musica estrema, c’è un’altra zona di San Donà non meno inquietante anche se all’apparenza molto più colorata e laccata.

E’ la grande area dei centri commerciali che sono sorti cementificando e asfaltando centinaia di ettari di terreno fertile che per migliaia di anni era stato coltivato a grano, olio, vino e speranze che oggi si sono trasformate in qualcosa di totalmente alienante e disanimato, un vero e proprio simulacro della vita reale che è concepito come una trappola per i topi dello shopping compulsivo.

Riportiamo integralmente la quarta di copertina di un capitale saggio dell’antropologo Marc Augè, Non Luoghi (Eleuera Milano 2009) che definisce, “il concetto di non-luogo”, termine coniato proprio da Augè in un suo saggio del 1992. I non-luoghi sono quegli spazi contrapposti ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tutti quegli ambiti adibiti alla circolazione, al consumo e alla comunicazione.

Agli occhi dell’autore, questi non-luoghi sono spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si possono decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. I non-luoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”.

I non-luoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta, dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei non-luoghi ma nessuno vi abita. In altre parole, sono tutto il contrario della città storica nella quale le regole di residenza, la divisione in quartieri, delimitavano lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.

Qualcuno si lascia spaventare dagli atteggiamenti truci di alcuni marcantoni con il giubbotto di pelle nera che magari urlano a pieni polmoni tutta la propria rabbia e “bestemmiano Dio e lor parenti/l’umana spezie e’l loco e ‘l tempo e ‘l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti” (inf III 103-105) senza accorgersi che il vero orrore sono le fabbriche dove ogni anno muoiono stritolate dagli ingranaggi, schiacciate dalle presse, smembrate dagli argani, avvelenate dagli acidi migliaia di persone. La medesima disarticolazione dell’umano avviene in quei luoghi dove la merce e il suo consumo sembrano essere l’essenza dell’esistere di tanti animali al macello al motto di “produci, consuma, crepa”. Altro che Black Metal, quello è il vero Horror Vacui.

Black Violence: alla band torinese è toccato il difficile compito di aprire una serie di esibizioni che comprensibilmente non erano per niente pensate per loro. Da veri professionisti quali sono se la sono cavata benissimo indurendo i loro suoni dal classico Hard’n’Heavy verso qualcosa che poteva ricordare il Death Metal se non fosse per l’ottima voce baritonale del bassista cantante davvero dotato ma più adatto alle sonorità del metal anni ‘80 che al growl di oggi. Solo qualche brano per scaldare l’atmosfera con il pubblico che stava appena entrando nel locale è bastato a far intuire le ottime potenzialità del trio che si è davvero meritato gli applausi di chi inizialmente sembrava piuttosto distratto ma che alla fine si è convinto della validità della proposta.

Doodswens: il duo olandese si è trasformato per l’occasione in un ultra-power trio con due chitarristi sostenuti dallo straordinario blasting della scatenata Inge Van Der Zon. La cantante titolare Fraukje Van Bug ha dato forfait ritenendo il tour troppo impegnativo per le sue fragilità psicologiche e per il suo precario equilibrio mentale. Il sound notturno e disturbante di cui le due avevano dato prova su demo si è trasformato in un incisivo ma più canonico Black metal la cui maggiore qualità è stata proprio la prestazione della batterista, una vera e propria prova di forza di una furia selvaggia. Nel complesso niente di così inaspettato ma nemmeno deludente; certo sarebbe stato più interessante vedere il duo in formazione originale con tutta la loro “voglia di morire”, in musica naturalmente

Valkyrja. Un act poderoso, compatto, violento senza nessuna tregua. E’ stata davvero una bella sorpresa per il pubblico del Revolver che conosceva le loro incisioni ma che non aveva mai potuto vedere i quattro in azione. Blast beats, suoni distorti e violenti e un atteggiamento beffardo e di sfida sul palcoscenico hanno reso il loro act davvero piacevole e di grandissimo impatto. Anche se il nome farebbe pensare il contrario, non si ispirano per niente alle saghe norrene nei loro testi e la loro musica non può essere considerata Viking. Il loro è un Black Metal primordiale e aggressivo che dal vivo è ancora più ruvido e immediato.

Marduk: sono davvero poche le band del metallo nero che possono vantare una continuità e una costanza nel livello stilistico come i satanassi svedesi. E’ vero che la line up è stata spesso stravolta e che, in buona sostanza, si tratta di un progetto musicale del chitarrista Morgan Steinmeyer Hakansson; sarà anche vero che Legion, il primo vocalist, non è paragonabile all’attuale Daniel Mortuus Rostén ma è anche vero che ascoltarli dal vivo rimane una delle esperienze più coinvolgenti e intense che si possano fare.

Non sono più dei ragazzi ma continuano ad essere assolutamente selvaggi e brutali come sono sempre stati. L’esibizione, pur funestata dal breve black-out dell’impianto e da un finale fin troppo brusco, è stata stupenda sia per le devastanti rasoiate della chitarra di Morgan che per l’attitudine rabbiosa e cattiva di Mortuus che sa trasmettere una gelida malvagità e un’energia scura e malata. I brani in scaletta hanno fatto la gioia dei fan, sia quelli di lungo corso che li ascoltano fin da Dark Endless (1992) o dall’iconico Those of the Unlight (1993) sia i giovanissimi che allora non erano nemmeno nati e che li hanno scoperti con Frontschwein (2015) oppure con Viktoria (2018). Proprio sotto il palco si erano posizionati fin dall’inizio serata due ragazzi, appassionatissimi e adoranti, con regolari t-shirts sataniste, che non avevano più di sedici anni e che sono stati recuperati dalle relative mamme a fine concerto. E’ un gran bel segno di vitalità della band avere dei fan sfegatati di quell’età.

Come dice il testo di “Frontschwein: Into pandemonium – stench of scorched flesh, broiled skin, burnt hair. All heaven exult as destruction spreads its wing. Death – decay – ruin – Yet the only victory belongs unto the flies”.

Morte, decadimento, rovina – Eppure l’unica vittoria appartiene alle mosche.

Flaviano Bosco © instArt