Su Massimo Popolizio penso ci sia poco da dire: da anni ospite ormai fisso delle stagioni del Politeama Rossetti, poliedrico interprete apprezzatissimo sui palchi di tutta Italia, è certamente uno dei volti più intensi e importanti del panorama teatrale nazionale.

Si accoglie quindi sempre con un misto di gioia e trepidazione la notizia di un suo ritorno sul palco dello Stabile del FVG. Anche quando lo spettacolo è ormai ben collaudato (la prima di “Furore” risale al 2019), soprattutto perché propone un Popolizio in una veste in parte inedita: non “semplice” protagonista in una piece condivisa con altri attori ma vero e proprio mattatore, unica voce sulla scena.

L’occasione è un testo che è stato importantissimo nella storia americana, e in senso più ampio per il giornalismo mondiale nel mostrare come un reportage possa diventare un’esperienza non solo giornalistica ma anche politica e umana: “Furore” di John Steinbeck. Nell’estate del 1936 Steinbeck fu inviato dal San Francisco News a indagare le condizioni di vita dell’ondata di braccianti immigrati in California in seguito  alla grande siccità  delle regioni centrali degli USA -Oklahoma e Arkansas su tutte- causata da terribili tempeste di sabbia.

Il risultato fu una serie di articoli da cui tre anni dopo nacque il romanzo “Furore”. Sia gli articoli che il romanzo mostrarono una grandissima attenzione al lato umano della vicenda, oltre a svelare molti dei pregiudizi americani verso quei migranti: mostrando tutta la loro sfortunata storia fu chiaro come quelli che spesso venivano visti come ladruncoli o criminali erano in realtà donne e uomini (e bambini) disperati, portati a certi gesti da una serie di eventi che li aveva visti defraudati delle loro terre, costretti ad abbandonarle, ridotti sul lastrico, portati in una terra che li aveva chiamati con una sorta di canto di sirene ma che all’atto pratico non li voleva.

L’adattamento teatrale di Emanuele Trevi decide di non scegliere le cosiddette “mezze misure” e punta tutto sul trasmettere quella drammaticità, quell’umanità, quella tragica epicità del testo originale. E lo fa evocando sensazioni le più “terrene” possibili, quasi da risvegliare i cinque sensi degli spettatori richiamando odori, rumori, sapori. Non a caso “POLVERE” è la prima parola a comparire sullo schermo in fondo al palco (che per tutto lo spettacolo accompagnerà la narrazione con parole, frasi, foto) a caratteri cubitali, e la prima che -pronunciata da Popolizio- porta con sé quella pastosità mista a fastidio che si potrebbe provare stando all’interno di una tempesta e con la polvere fino in bocca.

Compreso fin dai primi momenti la forte impronta sensuale (nel puro significato di “relativo ai sensi”, quindi scevro da declinazioni attinenti alla sfera del piacere) e terrigna dello spettacolo, non si può pensare a una scelta migliore che quella di Popolizio per il ruolo di spalle su cui questa dolorosa drammaticità dovrà pesare. Pochissimi come lui nel panorama teatrale sanno infatti essere così sanguigni, lirici eppure profondamente reali, “sporchi” nel senso migliore del termine: come qualcuno che ha messo davvero le mani in quella pasta, ci si è lordato e proprio per questo sa trasmettere ciò che significa viverci.

Affidarsi ai sensi, dicevamo. Non fanno eccezione le orecchie, chiamate in causa grazie alla presenza sul palco di Giovanni Lo Cascio, bravissimo percussionista a cui è affidata tutta la colonna sonora dello spettacolo: una presenza continua durante i monologhi di Popolizio, mai invadente ma brava a sottolineare la sorda tragicità delle vicende narrate, che vira sempre più verso la triste rassegnazione dei reietti. Oltre a ciò alcuni momenti di assolo davvero interessanti, che esplodono come le espressioni di rabbia di chi non riesce più a sopportare quelle vessazioni, quei pregiudizi.  E che –ci si conceda questa piccola nota- sarebbero stati degni di applausi sicuramente più forti di quelli comunque concessi dalla platea del Rossetti.

Le percussioni di Lo Cascio non sono l’unico modo in cui le orecchie sono state coinvolte. Lo stesso Popolizio nella sua foga narrativa adotta uno stile molto “musicale”: nell’accentuare l’estremismo spesso tipico del suo stile recitativo (cioè con ogni emozione e sensazione portata sempre verso il picco e mai in una “zona di moderazione”), le cadenze e il ritmo usati sembrano accompagnare l’udito dello spettatore in una lunga ballad ora triste, ora energica. Un uso certamente sapiente della voce e dell’interpretazione ma che a tratti da il fianco a un rischio: come spesso ci accade quando ascoltiamo una canzone che ci rapisce, in alcuni momenti si viene coinvolti così tanto dalla musicalità da essere totalmente irretiti dalla melodia, lasciando sullo sfondo e dimenticando le parole pronunciate.

Suddiviso in capitoli come a voler segnare le varie fasi della caduta in rovina dei contadini segnati dalla siccità, “Furore” -pur prendendo il nome dal titolo del romanzo- decide di voltarsi maggiormente verso lo Steinbeck giornalista e i suoi articoli: tutto viene narrato come (ci si perdoni il termine troppo poco drammatico) un documentario corale, che rinuncia a concentrarsi su dei personaggi singoli per meglio cogliere la dimensione globale del dramma consumatosi in quegli anni, e per poter meglio tracciare il suo significato sociale. Vengono così a galla la cinicità delle banche che antepongono il profitto (dato dall’uso di trattori piuttosto che contadini) alle famiglie; la crudele impietosità della natura che dopo la siccità si prende nuovamente gioco dei migranti, con settimane di alluvioni proprio quando la vita sembrava dare loro una nuova chance; i pregiudizi della gente, che bolla presto i migranti come ladri e criminali senza preoccuparsi di conoscere la loro storia.

Compaiono qui e lì alcuni personaggi senza nome, quando Popolizio passa a interpretarli direttamente, coadiuvato dai ritratti delle foto d’epoca che compaiono sullo schermo dietro di lui. Ma più che i nomi sono importanti i drammi: sono infatti i momenti in cui i “cattivi” passano dall’essere astratte “banche” o “società” a un più concreto guidatore di trattore che ha voltato le spalle al suo vecchio mestiere e alla sua gente per una paga che gli permetta di sopravvivere; o piuttosto un gommista che si approfitta dei migranti per vendere loro gomme lise a prezzi altissimi solo perché non hanno altra scelta se vogliono proseguire.

L’unico momento di rottura si ha nel finale, quando la narrazione si sposta su dei ben specifici personaggi e su una famosa scena del romanzo: se da un lato è comprensibile il voler citare anche la storia scelta da Steinbeck per portare in letteratura la sua indagine -strizzando l’occhio a chi l’ha letta-, così come il voler portarsi su un piano molto più intimo per dare la probabilmente unica nota umana di speranza in un oceano di cattiveria e oblio, dall’altro lascia un po’ di smarrimento il vedersi riaccendere le luci in sala così, senza una “chiusa” che voglia riassumere anche l’aspetto globale delle vicende narrate. Non di certo per cercare una morale (sarebbe stato profondamente disallineato con il mood dello spettacolo) ma almeno per mettere un punto alla fine di una frase -bella, intensa, coinvolgente- durata più di un’ora.

Luca Valenta / ©Instart