Compreso nel nutrito cartellone del Teatro Verdi di questo travagliato 2021, è andato in scena, con ottimi riscontri di pubblico, il melodramma moderno per definizione: Madama Butterfly di Giacomo Puccini (Replica del 03/10)

La tragica storia di Cio-cio-san è universalmente nota e i tormenti amorosi della piccola Geisha tradotti dal maestro di Torre del Lago in meravigliose arie e romanze, non hanno bisogno di alcun altro commento, tanto sono penetrati in profondità nell’immaginario collettivo a livello planetario. La messa in scena del Verdi, misurata e scabra dal punto di vista della scenografia, con trovate registiche efficaci ma essenziali così come per i costumi, ha potuto contare su una direzione musicale e interpreti assolutamente all’altezza che hanno saputo emozionare e convincere il pubblico senza inutili retoriche, prosopopee e senza voler edulcorare una partitura di per se già a vivide tinte.

Meritevole di segnalazione la performance vocale intensa e drammatica di Eugenia Muraveva, Cio-cio-san coinvolgente e dalla voce cristallina, così come Na’Ama Goldman, ottima Suzuki mai sopra il rigo come purtroppo spesso capita. Perfettamente in parte Elia Fabbian-Sharpless, console americano, che possiede anche una presenza scenica da attore consumato. F.B Pinkerton, interpretato da Francesco Castoro soffre, non tanto dal punto di vista vocale ma da quello scenico drammatico: il costume di scena e alcune scenografie non gli rendono per niente onore, compromettendone la credibilità soprattutto nel fatidico terzo atto. Esempio ne è la scena dei fiori, il cumulo di petali che Cio-Cio-San aveva sparso sul viottolo per accogliere l’amato, fatto di fiori di carta, è quasi inguardabile e decisamente stonato anche se i singoli fiori sono ispirati all’arte dell’origami.

Suzuki: Tutto tutto sia pien di fior, come la notte è di faville. [accenna a Suzuki di andare nel giardino] [a Suzuki] Va pei fior.

[Suzuki si avvia; giunta sul terrazzo si rivolge a Butterfly.]

Suzuki: [dal terrazzo] Tutti i fior?… Butterfly [a Suzuki gaiamente] Tutti i fior, tutti… tutti. Pesco, vïola, gelsomin, quanto di cespo, o d’erba, o d’albero fiorì.

Suzuki [nel giardino ai piedi del terrazzo] Uno squallor d’inverno sarà tutto il giardin. [coglie fiori nel giardino]

Butterfly Tutta la primavera voglio che olezzi qui.

Allo stesso modo, sembra fuori luogo il pupazzo-bambino, anch’esso ispirato, almeno come concetto, all’arte del teatro Bunraku, che con la sproporzione delle sue dimensioni annulla la forza drammatica di quel piccolo protagonista del dramma, innocente e silenzioso.

Altre scelte registico-scenografiche sono invece risultate del tutto a tema e di grande effetto drammatico, come i paraventi che rendono plasticamente la “casa a soffietto” di cui parla anche il libretto di Illica e Giacosa, con le loro ombre e trasparenze; oppure le lanterne giapponesi che fluttuano, la cascata di foglie autunnali, i giochi di ombre cinesi fino al suicidio in rosso della protagonista nel tragico finale.

Butterfly Trema, brilla ogni favilla

Pinkerton Vien, sei mia!… [compaiono le lucciole che brillano attorno agli amanti, tra i fiori e tra il fogliame degli alberi]

Straordinaria l’apparizione dello zio Bonzo al matrimonio, dal palco regio del teatro che proiettava la sua enorme ombra, spaventosa e sinistra sul palcoscenico, mentre alcune comparse mascherate scrutavano cattive la platea, facendo avvertire quasi fisicamente lo spavento tetro della maledizione scagliata sulla povera sposa. “All’anima tua guasta qual supplizio sovrasta…ci hai rinnegato e noi…ti rinneghiamo”.

Per tutto questo possiamo affermare che, a parte qualche piccolo difetto scenografico dovuto forse anche ad alcune ristrettezze di budget, la messa in scena funziona egregiamente.

Scrivere qualcosa di originale su di un’opera così universalmente conosciuta è un’impresa quasi disperata e anche al di là delle forze, delle competenze e delle intenzioni dello scrivente. Per scrivere criticamente di Madama Butterfly del resto ci vuole anche una buona dose di spregiudicatezza e forse d’arroganza e “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”, come diceva quel prete di campagna.

Possiamo però provare a mettere in risalto alcuni elementi testuali del libretto molto spesso trascurati in linea generale. Possono sembrare semplici curiosità oppure sottolineature pedanti e parascolastiche ma, invece, anche il solo elencarle può essere di stimolo a futuri approfondimenti che possono far scaturire nuove interpretazioni prospettiche.

Nel libretto e fin nel titolo “Mia Butterfly! come t’han ben nomata tenue farfalla” sono presenti moltissimi riferimenti naturalistici che, in qualche momento, sembrano perfino estemporanei ma che, se ben considerati, possono rivelarci moltissimo del significato della vicenda in se e anche della sensibilità del compositore.

I primi riferimenti naturalistici sono già nei nomi della servitù di casa:

Goro: Questa è la cameriera che della vostra sposa fu già serva amorosa. Il cuoco…il servitor…

Pinkerton: I nomi?

Goro: Miss Nuvola leggera, Raggio di sol nascente, Esala aromi.

Puccini affascinato dalla cultura giapponese si fece tradurre i nomi più comuni tra quel popoli
E poi ancora la sposa viene descritta come: “Una ghirlanda di fiori freschi, Una stella dai raggi d’oro.”

Pinkerton si riferisce al suo desiderio per lei dicendo: “qual farfalletta svolazza e posa con tal grazietta silenzïosa, che di rincorrerla furor m’assale se pure infrangerne dovessi l’ale.”

Riferimenti all’ostrica che schiude il guscio per mostrare la propria perla sono contenute nelle prime parole della serva Suzuki
Del corteo della sposa si dice: Già del femmineo sciame | qual di vento in fogliame | s’ode il brusìo.
Per descrivere le avversità della propria famiglia d’origine, Butterfly dice: “Ma il turbine rovescia le querce più robuste…”
Pinkerton esprime tutta la propria ipocrita intenzione in un paio di occasioni: “Pinkerton…Con quel fare di bambola quando parla m’infiamma…

Con moti di scojattolo | i nodi allenta e scioglie!… | Pensar che quel giocattolo | è mia moglie. Mia moglie! | [sorridendo] Ma tal \ grazia dispiega, / ch’io | mi struggo per la febbre | d’un subito desìo

“Gracchiar di ranocchi” vengono definite le terribili maledizioni del Bonzo.

L’ingenua tenerezza della fanciulla è tutta nella frase: “Vogliatemi bene, un bene piccolino, un bene da bambino quale a me si conviene, vogliatemi bene. Noi siamo gente avvezza alle piccole cose umili e silenziose, ad una tenerezza sfiorante e pur profonda come il ciel, come l’onda del mare.”

Ma già quasi presaga della tragedia che finirà per ghermirla:

Butterfly: Dicon ch’oltre mare se cade in man dell’uom, [con paurosa espressione] ogni farfalla da uno spillo è trafitta [con strazio] ed in tavola infitta!..

Pinkerton: [riprendendo dolcemente le mani a Butterfly e sorridendo] Un po’ di vero c’è. E tu lo sai perchè? Perchè non fugga più. [con entusiasmo e affettuosamente abbracciandola] Io t’ho ghermita… Ti serro palpitante. Sei mia.

Butterfly: [abbandonandosi] Sì, per la vita

Butterfly: Potrei farvi una domanda?

Sharpless: Certo.

Butterfly: [torna a sedere] Quando fanno il lor nido in America i pettirossi?

Sharpless: [stupito] Come dite?

Butterfly: Sì,… prima o dopo di qui?

Sharpless: Ma… perchè?… [Goro che si aggira nel giardino, si avvicina alla terrazza e ascolta, non visto, quanto dice Butterfly]

Butterfly: Mio marito m’ha promesso di ritornar nella stagion beata che il pettirosso rifà la nidiata. Qui l’ha rifatta per ben tre volte, ma può darsi che di là usi nidiar men spesso.

Sharpless: [imbarazzato] Mi rincresce, ma ignoro… Non ho studiato ornitologia.

Butterfly: orni…

Sharpless: …tologia.

Butterfly: Non lo sapete insomma.

Sharpless: No

Tutta la sequenza del “Seminiamo aprile” sul finale della prima parte del secondo atto parte prima.

Queste similitudini pseudo-naturalistiche dipendono dalla prospettiva degli autori che considera la vicenda da un punto di vista che potremmo definire: entomologico e che osserva il dramma della piccola giapponese con un certo distacco. Il destino di Cio-Cio-San è segnato dall’inizio, tutti sanno precisamente come finirà la storia d’amore sbagliata tra il vile farfallone amoroso Pinkerton e l’illusa ragazzina che è nell’età dei giochi.

Non c’è dubbio alcuno fin dalle prime scene, quello cui si assiste è semplicemente un’esecuzione dilazionata fino all’inevitabile finale. La piccola Butterfly crede contro ogni evidenza al suo ideale romantico e sentimentale, pur presagendo anch’essa la catastrofe. Lo capiamo proprio dai versi riferiti alla natura di cui dicevamo: quelli riferiti al pettirosso, che, oltre a cambiare nido più volte, per tradizione si trafigge il petto con le spine dei rovi per meglio cantare il suo amore, e quelli della farfalla trapassata dallo spillone. Ci fanno intuire che anche lei è consapevole del proprio destino e non vi si vuole sottrarre. Infatti, tra i suoi beni più cari c’è soprattutto la spada sacra che l’imperatore inviò al padre perché si suicidasse.

Quella pucciniana è una visione tutta occidentale e “orientalista” (Edward Said) del suicidio giapponese che in realtà è tutt’altra cosa. Sappiamo bene che l’ispirazione per l’opera venne a Puccini durante un suo soggiorno a Londra. Allora, in un teatro si rappresentava il dramma Madama Butterfly dell’americano David Belasco (1900), tratto da un romanzo di John Luther Long (1898) a propria volta ispirato dalla novella Madame Chrisanthème di Pierre Loti (1887) portata all’Opéra-comique da André Messanger (1893).

Il riferimento sottotraccia era però molto più antico e apparteneva al mito di Medea, la straniera per definizione che rinuncia al proprio mondo, cultura e famiglia per amore di Giasone che per convenienza, le preferisce Kreusa.

La tragedia di Butterfly ha però anche un corrispettivo giapponese, l’antica storia di Hanjo una geisha che impazzisce nell’attesa del ritorno del suo uomo con il quale aveva scambiato una promessa di matrimonio, classico del teatro Noh e riscritta da Yukio Mishima nei suoi Cinque Noh moderni (1955) che ha ispirato l’opera lirica di Marcello Panni (1994)

Un’ultima nota di colore sul Teatro Verdi e sulla gentilezza ed eleganza del direttore artistico Paolo Rodda e del direttore degli allestimenti scenici Paolo Vitale, disponibili e affabili con il pubblico in coda prima di uno spettacolo pomeridiano. Hanno personalmente fornito preziose informazioni e rassicurato sugli orari ascoltando poi a lungo i ricordi di un’abbonata “giovane in spirito” accanita melomane prestandole la massima attenzione.

Può sembrare un’inezia ma, al contrario, questa vicinanza delle alte cariche al pubblico più semplice è una manifestazione evidente di quella che è sempre stata la vera grande cultura triestina che sa essere altissima e informale nello stesso tempo, nella quale l’alto e il basso si fondono come nei meravigliosi versi di Saba: “Qui degli umili sento in compagnia/ il mio pensiero farsi/ più puro dove più turpe è la via.” Nel loggione del teatro trovavano posto Svevo e Joyce accanto ai semplici appassionati, nessuno può credersi più grande e più nobile della città stessa e della cultura che la innerva.

Flaviano Bosco © instArt