Come sua naturale vocazione e come trend a cui siamo ormai felicemente abituati, anche per l’ultimo appuntamento del suo cartellone musicale il Teatro (in)stabile Miela porta a Trieste un live di grande impatto. E’ stato possibile ammirare infatti Emel Mathlouthi, nome forse poco conosciuto al grande pubblico dello Stivale ma che -un pò a sorpresa, certamente con soddisfazione- ha trovato un enorme riscontro a Trieste, con una platea ricolma e molto attenta e ricettiva.

Cantautrice tunisina, esule a Parigi dal 2008, da sempre attivista contro la dittatura e il regime nel suo paese, Emel è inizialmente salita alla ribalta delle cronache per un video -diventato subito virale- in cui mescolata ad una folla riunita per una veglia in ricordo delle vittime del regime canta “Kelmti Horra” (My word is free, La mia parola è libera). Una canzone di protesta che è diventata subito un inno della rivoluzione tunisina, ben prima di entrare a far parte del suo primo album, nel 2012. Negli anni ha consolidato il suo ruolo di artista impegnata contro le violenze, tanto da essere invitata a cantare alla cerimonia ufficiale di consegna del Nobel per la pace, nel 2015.

E’ del 2017 il suo ultimo album, che oltre a confermare il suo impegno su temi forti ha saputo spiazzare per gli arrangiamenti dei brani, che avvicinano e fondono con talento le sonorità tipiche della tradizione araba con le ultime tendenze della musica elettronica e più in generale occidentale.

Da più parti viene definita “la voce della rivoluzione tunisina”, capace di rappresentare nell’immaginario collettivo “la rabbia della rivolta e la dolcezza del gelsomino”. Un dualismo/contrasto, quello tra rabbia e dolcezza, che ben rappresenta ciò che Emel ha saputo trasmettere durante le due ore del concerto al Miela. In lei sembrano infatti incontrarsi, sfiorarsi e compenetrarsi tutta una serie di opposti. E in ogni caso il risultato è qualcosa di estremamente naturale e seducente.

D’altronde lei stessa ha dichiarato che “compito dell’artista è sottolineare quello che ci unisce in un momento in cui tutti sembrano voler parlare di quello che ci divide”. La sua figura diventa quindi quella di un catalizzatore, dell’elemento che unisce questi frammenti apparentemente così distanti.

Partiamo proprio dalla rabbia e dalla dolcezza. La rabbia sta in tutti i testi dei suoi brani, che trattano sempre argomenti politici e sociali, eppure riescono a farlo con un tratto personale ed emozionale. Emotività che traspare in ogni momento della sua interpretazione grazie ad una voce unica che -anche qui- unisce potenza e grazia come pochi sanno fare, passando con disinvoltura dall’una all’altra. Ben descrive le sue capacità vocali il titolo di un brano del suo ultimo album: “Princess Melancholy” (principessa malinconia). La grazia e la leggerezza della sua figura sono infatti quelle di una principessa, ed è una sensazione di profonda malinconia quella che la sua voce sa trasmettere e che conquista il pubblico. Eppure, come detto, sa passare con facilità a toni vocali più decisi, quasi a sottolineare come servano entrambi questi lati dell’animo umano per contrastare e soverchiare i soprusi a cui l’umanità va da sempre incontro nella sua storia.

Un altro punto d’incontro è quello più prettamente musicale e compositivo: pur non abbandonando le sonorità tipiche delle tradizioni arabe -sia strumentali che nel modo di utilizzare la propria voce- Emel (che ha vissuto per anni in esilio a Parigi e che ora vive e lavora a New York) ha negli anni assorbito e metabolizzato le tendenze della musica occidentale. Il risultato è un sapiente mix molto equilibrato, che trasposta gli spettatori contemporaneamente in un fumoso e minuscolo seminterrato tunisino in cui si sogna la libertà e in un club underground newyorkese, stretti nella morsa di una folla che danza quasi all’unisono.

Ciò è stato particolarmente sottolineato da Emel in questo suo tour invernale (di cui la serata a Trieste era la conclusione), in cui oltre a presentare quasi per intero il suo ultimo lavoro “Ensen” ha proposto anche alcuni brani precedenti, riarrangiati però in quest’ottica di “doppia fusione” antico/moderno e arabo/occidentale. Il tutto grazie anche all’aiuto di due preparatissimi musicisti (Pier Luigi Salami alle tastiere e Shawn Crowder alla batteria) che hanno saputo offire un ottimo tappeto musicale pur lasciando sempre a Emel e alla sua straordinaria voce il centro della scena.

Rabbia che si è trasformata in dolcezza anche nel rapporto con la platea, con una Emel inizialmente un pò distante che nel corso delle due ore di live si è presto “sciolta”, iniziando dapprima a descrivere il significato dei suoi brani e poi anche a scherzare col pubblico, anche in un italiano solo a tratti incerto (certamente hanno aiutato le origini italiche del tastierista). E che alla fine del concerto, davanti alle -meritate- acclamazioni del pubblico ha regalato dei sorrisi davvero pieni di gratitudine.

Sorrisi che -uniti alla fantastica performace vocale- lasciano nello spettatore una piacevole sensazione di pace e di speranza. La speranza che finché ci saranno persone che come Emel lottano con i propri strumenti per tentare di cambiare le cose, il mondo non sia irrimediabilmente finito.

Luca Valenta © instArt