NOTA: nello spettacolo è presente un piccolo colpo di scena. Per quanto si cercherà di mantenere il più possibile questa recensione “spoiler free”, nella parte finale sarà necessario rivelarlo per poter affrontare alcune considerazioni. Ci sarà un avviso poco prima dell’inizio della “parte spoiler”, per permettere a chi non voglia rovinarsi la sorpresa di potersi fermare nella lettura.

“Tu dov’eri?” chiede Francesco Godina alla platea a inizio spettacolo. Una domanda che probabilmente tutti, parlando dell’11 Settembre 2001, ci siamo sentiti rivolgere almeno una volta nella vita. Tanto quel giorno è stato importante non solo per New York ma per la civiltà occidentale tutta, da aver segnato profondamente i nostri usi e costumi per vent’anni e aver congelato nella nostra memoria ciò che stavamo facendo nei momenti in cui quella notizia ci ha raggiunti.

“Tu dov’eri?” ci chiede Francesco Godina, nel ventennale preciso di quell’attentato. Preciso perché la “prima” mondiale del nuovo spettacolo scritto da Godina con Fabio Vagnarelli e prodotto da SUOMI Produzioni è andata in scena alle 14.46, ora italiana dello schianto del primo aereo sulla Torre Nord del World Trade Center.

“Tu dov’eri?”, ci chiede. A noi però verrebbe in mente un’altra domanda da porgli, e cioè: “tu dove vuoi andare?”. Non da intendere in senso materiale, cioè come una destinazione geografica o fisica. Quanto piuttosto per cercare di capire meglio dove voglia orientarsi con quanto proposto sul palco.

Per tutta la prima metà dello spettacolo, infatti, la sensazione principale è quella di spaesamento di fronte a tre linee narrative che affrontano temi diversi, con atmosfere e toni diversi. Certo, c’è il trait d’union del girare sempre attorno all’11 Settembre per esplorarne differenti declinazioni; ma la messa in scena è talmente variegata e i filoni talmente slegati da portare confusione nella mente dello spettatore, che inizia a chiedersi se stia vedendo una sorta di documentario che vuole esplorare solo molto alla larga l’”evento” 11/9 (ci si perdoni il termine “evento”, che nulla vuole togliere alla drammaticità di quel giorno ma cerca solo di indicarlo in senso lato, cioè con tutte le ramificate implicazioni che ha avuto negli infiniti ambiti della vita).

Per capire meglio, diremo intanto che sul palco un bravo Godina si divide in tre ruoli, che d’ora in poi chiameremo il Professore, il Comico e -unico ad avere un nome di battesimo- Jack. In linea con la scelta di una rappresentazione minimalista, i tre ruoli saranno contraddistinti da pochi oggetti caratteristici: gli occhiali per il Professore, il microfono per il Comico, una canotta lisa e sporca per Jack. Molto diverso sarà invece il tono dei loro interventi: il Professore mostrerà l’aplomb di una lecture universitaria sulla neurologia e in particolare sul concetto di memoria; il Comico la verve dissacrante di uno standing comedian all’americana; mentre Jack un’angoscia e un turbamento interiori che fanno subito intuire quale sia il suo legame con l’11 Settembre.

Nonostante Francesco Godina si dimostri molto bravo nei continui cambi di ruolo e la regia abbia deciso per soluzioni (di luci e di uso della spazialità) assai efficaci nel sottolineare i cambi di personaggio, lo spaesamento sottolineato prima rimane. Ed è dato dagli argomenti trattati e dai toni usati.

Partiamo da Jack: la sua è apparentemente l’unica esperienza diretta del giorno dell’attentato, il solo che dall’inizio ne parla come di qualcosa che lo abbia toccato in prima persona. Molto incisive le parti a lui dedicate, con la scelta di non farlo parlare al pubblico in sala ma a degli ipotetici followers in rete, con Godina a filmarsi con il cellulare e il video proiettato sullo sfondo, scelta che accresce il senso di isolamento del personaggio. L’unica osservazione che si potrebbe fare (si usa il condizionale in quanto forse è un effetto voluto) è che l’esito del suo racconto appare abbastanza prevedibile sin dall’inizio: non tanto per le sue dinamiche precise ma per i ruoli che avranno i personaggi menzionati da Jack già durante le sue confidenze al cellulare.

Se quindi Jack affronta direttamente l’11 Settembre 2001, gli altri due personaggi paiono solo sfiorarlo, perdendosi quasi in elucubrazioni mentali non tanto sull’attentato in sé quanto su aspetti laterali e “di costume”, ossia come quel giorno abbia impattato sul nostro modo di vivere.

Il Professore, ad esempio, tiene una sorta di lezione sulla memoria, su come funzioni il nostro ricordare o meno eventi della nostra vita, e di come oltre alla memoria individuale ne esista certamente una collettiva. È ovvio che ci sia l’intento di riferirsi a come l’attentato al WTC abbia da un lato portato a ricordarci perfettamente cosa facessimo quando ne siamo venuti a conoscenza e dall’altro a darci immagini entrate nella memoria collettiva mondiale; ma la trattazione risulta quanto mai generica, non riferita solo a quel giorno. Ci sono anche delle belle trovate, come quella della pistola puntata d’improvviso verso uno spettatore (con tanto di scoppio della lattina mirata alla fine, a dimostrare che il colpo non fosse a salve), ma finiscono per perdersi nella sensazione che quel tono universitario poco c’entri con il resto.

Uguale impressione si ha per la parte del Comico: Godina si presenta infatti sul palco come un classico standing comedian, con un approccio un po’ trasandato e un po’ provocatorio, lanciando battute che vogliono prendere di mira principalmente il complottismo e tutte le sue teorie sull’11 Settembre voluto dagli ebrei o dagli USA stessi. Se l’obiettivo era rappresentare quanto graffiante, dissacrante e politicamente scorretta sappia essere la comedy all’americana allora l’obiettivo è stato pienamente raggiunto (in particolare con una serie di gag sui tedeschi che potrebbero far storcere il naso). Ma ancora una volta, l’idea che quanto visto in questa parte sia slegato dal resto e strida con il senso delle altre due parti rimane molto forte.

È tutto quindi davvero così caotico e senza un legame? Ovviamente no, alla fine tutto acquista un senso ma il problema è che a dare finalmente una chiave di lettura è solo un certo evento messo in scena nella seconda metà dello spettacolo, una frase in realtà quasi buttata lì ma che fa finalmente capire perché tutto sembrava così confuso.

 

NOTA: qui termina la parte “no spoiler”. Nel prossimo paragrafo verrà rivelato il colpo di scena nominato in precedenza, necessario per poter ragionare sul senso ultimo dello spettacolo.

In realtà tale evento viene suggerito già da alcuni particolari nei passaggi di Godina da un personaggio all’altro, in cui pian piano i tratti caratteristici di ognuno (occhiali, microfono, canotta) vengono usati anche per gli altri: il Comico che avvia una registrazione come Jack con addosso la sua maglia invece che la canotta, o il Professore che nel mettersi occhiali e giacca continua a tenere in mano il microfono. Sono indizi, certo, ma che danno adito a diverse interpretazioni, anche solo il fatto che più il racconto di Jack si avvicina al momento dell’attentato e più si voglia mettere in scena la fretta, l’ansia. Di conseguenza si rimane comunque sorpresi quando viene rivelato che i tre personaggi non sono nient’altro che personalità diverse dello stesso uomo, quel Jack che ha reagito al trauma rimanendo ancorato per sempre all’evento, mostrando la sua ossessione verso di esso dissezionandolo e affrontandolo in maniera diversa con ognuna di tali personalità.

Soluzione certamente interessante ma che lascia qualche perplessità: memori dello spaesamento provato fino a quel momento, può balenare per un attimo nella mente che sia più che altro un modo per tentare di legare in qualche modo discorsi diversi che si volevano fare pur essendo molto distanti l’uno dall’altro.

Al netto di ciò, dopo questa rivelazione lo spettacolo si avvia finalmente verso una coerenza di fondo e una narrazione più compatta e convincente: si capisce alfine che la chiave di lettura non è quella della -distante e asettica- conversazione sui riverberi sociali quanto piuttosto una tragedia personale, il racconto in prima persona di una vita che è stata per sempre segnata da quel giorno. A torto o ragione: Jack è un uomo che certamente non ha saputo reagire al lutto subito e che ha continuato a portarsi dentro un senso di colpa che l’ha fatto isolare dal mondo. Ma è proprio questo il punto: una reazione non da lecture o da comedy quanto piuttosto umana, dettata dalle emozioni del singolo. E su questo va a innestarsi nel finale una condanna verso il modo in cui tutti parlano di quell’11 Settembre, ricordano dov’erano e cosa facevano, rievocandolo come una tragedia personale quando in realtà di personale hanno perso poco (lo stesso Jack si accusa di ciò: di non esserci stato, proprio lì dove sua mamma ha deciso di buttarsi dalla finestra piuttosto che morire tra le macerie e dove lui solo per ribellione verso la figura materna non era andato quella mattina).

La chiave di lettura -una volta rivelata- è assolutamente soddisfacente, e gli ultimi venti minuti sono ottimi in termini di tensione, intensità, partecipazione. Peccato solo che si abbia voluto confondere le acque per così tanto tempo, forzando una narrazione “a tre vie” così diverse e stridenti tra loro.

Luca Valenta / ©Instart