“Il libretto di lavoro di mio padre sa di cedro e di castagne / e cacao e brace di vulcano in riva al mare. Il libretto di lavoro di mio padre ha l’inchiostro e la matita / la mano è una farfalla sulla strada”. Comincia con questi splendidi versi l’album di Claudio Sanfilippo “Boxe”, pubblicato nel 2019 da MRM Records. Quattordici tracce di chitarra e voce registrate al Maxine Studio di Milano utilizzando sette diverse chitarre, tra le quali una fabbricata apposta per l’autore nel 2012, la Classica Baritono Fabio Zontini. E’ un album intimo, con melodie che richiamano alla raccolta, alla meditazione, che contiene diverse perle di musica d’autore di alto livello. Musica che ha portato artisti come Mina, Eugenio Finardi, Pierangelo Bertoli e Cristiano De Andrè a interpretare brani del cantautore milanese, che vanta la pubblicazione di undici opere a partire da “Stile libero” del 1996, premiato con la Targa Tenco. Tra le diverse collaborazioni (da non dimenticare quella con Nanni Svampa) va ricordato l’album “Avevamo un appuntamento“ (2015) composto da dieci canzoni che dialogano con le poesie di Filippo Davòli con la lettura di Neri Marcorè.
“Boxe non è un disco: è un corpo a corpo con la vita” commenta Gian Paolo Serino nell’introduzione. “E’ il poeta che ci manca, il cantautore che fotografa la realtà di un mondo dove tutti sopravvivono perchè fanno finta”. Canzoni cantate da Sanfilippo con il suo inconfondibile timbro caldo e profondo, in un mix di stili diversi classificabili, in sintesi, con il genere “buona musica”. Mi azzardo a dire che alcuni arpeggi possono evocare atmosfere di Bruce Cockburn, a me molto care, ma si trova anche il Brasile, il cantautorato americano, italiano, “parentele francesi” (come le definì Gianni Mura) e sonorità originali registrate con grande maestria.
Consigliamo l’acquisto del CD che contiene un libretto molto curato con testi, fotografie di Lorenzo De Simone su progetto grafico di Alessia Casati: i brani sono presenti anche sulle principali piattaforme internet, a partire da YouTube. Paolo Vites, a proposito di “Boxe”, ha scritto:” Sanfilippo descrive immagini, a volte sfuggenti, a volte note solo a lui, come fanno i poeti, suggerendo luoghi, sentimenti e ambientazioni senza un messaggio preciso. E’ quello che fanno i grandi autori di canzoni, che lasciano libero l’ascoltatore di interpretarle e viverle come meglio preferisce. E’ la bellezza della musica, che non si impone, ma accompagna”.
Mi soffermo solo su alcune composizioni, quelle che mi hanno suscitato le emozioni più forti, ma tutte le canzoni del CD sono costruite su radici solide. Melodie e testi che si arrampicano su sentieri tortuosi, non facili da percorrere, evitando comode e ampie autostrade.
Boxe introduce l’album ed è una canzone recitata, con sonorità evocative che si discostano dagli altri brani. “Il libretto di lavoro di mio padre sa di boxe e di spogliatoio / Un sidecar intorno all’idroscalo / Il libretto di lavoro di mio padre sa di mandorla e limone / E’ Sandokan che fischia dalle scale”. Un testo incentrato sull’importanza della memoria, del testimoniare.
In Prigioniero l’autore traccia un ritratto di chi chi ama creare e si chiede: “Giorno per giorno, come un libro sulla pelle / Di questa terra, dimmi un po’, sei sovrano o prigioniero? / Sarà come perdersi ancora un’altra volta / La strada che non ti aspetti e che ti porta / ora e per sempre tra le rovine / il tuo mestiere è fare rime”. E, quasi sottovoce, una sorta di amara e ironica riflessione: “Da queste parti posso battere moneta / ma non si vende niente qui nel mio pianeta / Solo raffiche di vento / E’ il commercio del poeta”.
Memoria è una sorta di classico “giro di Do”, spezzato da pause evocative: “Nei ricordi no, non vive mai la stessa storia / Tu non dire più / lascia parlare la memoria”. E, ancora: “E come fumo passo dal camino / e il fumo è bianco e io sono un bambino”.
L’angelo è una canzone che pare un dipinto. O forse è un dipinto musicato? “E’ un’altra luce dietro te, che ti accompagna / quello che dice dentro te quasi si sogna / E pioggia, all’improvviso, che ci bagna / al di là di me e di te / Al di là di tutta la montagna” E, poi: “L’angelo che ti guarda / L’angelo che ti parla / oltre la chioma bruna della terra adoreremo il vento, il sole, la tempesta fino al respiro / al bacio che ci resta”. Una canzone meravigliosa, un viaggio di tre minuti e mezzo sospeso tra sogni e immagini che ognuno può forgiare a proprio piacere.
Ho incontrato Claudio in una tipica trattoria friulana dopo una sua recente esibizione live a Tarcento, dove ha suonato assieme a Massimo Gatti, Alessandro Turchet e Val Bonetti. E’ bene ricordare che nel 2016, proprio con gli arrangiamenti di Massimo Gatti, è stato pubblicato l’album Ilzendelswing. Dodici canzoni in milanese, otto scritte da Claudio Sanfilippo e quattro omaggi come “Man of constant sorrow”, tradizionale americano che diventa “Mì són vün”, o “Famous blue raincoat” di Leonard Cohen che in milanese diventa “Impermeabil Bleu”.
Ciao Claudio, ascoltando il primo brano “Boxe” ti chiedo subito: quanto è importante per te conservare la memoria?
Scrivo di ciò che ho vissuto, che è parte della mia esperienza, anche quando l’ispirazione è legata al sogno, all’immaginazione. Credo che anche nelle ispirazioni più visionarie la radice sia sempre la memoria. Dai fotogrammi che si sono impressi dentro di noi c’è una miniera d’oro.
Le canzoni che compongono “Boxe” sono state scritte tra il 1981 e il 2017. Come le hai scelte?
Boxe è nato in modo estemporaneo, le canzoni le ho scelte di getto sfogliando il libro dei testi, pescando tra cose che avrei voluto incidere negli altri dischi e che, per ragioni varie, erano rimaste fuori. Alla fine dei due pomeriggi di registrazione ho capito che, inconsciamente, avevo coperto un arco di tempo di quasi quarant’anni, come se avessi voluto ripercorrere la strada a ritroso. È un disco fortemente autobiografico.
Il tuo stile chitarristico è molto eterogeneo, eclettico. Potresti raccontarci il tuo percorso e quali sono i tuoi principali riferimenti artistici?
Quando ho iniziato a mettere i primi accordi sulla chitarra avevo quindici anni, fin da subito mi sono sentito portato per le tecniche arpeggiate, la caratteristica che mi contraddistingue. Quando, un paio d’anni dopo, ho iniziato a girare sullo strumento in modo più sciolto, mi sono ispirato ai cantautori chitarristi che mi affascinavano di più, soprattutto per il modo di comporre che avevo in testa. Sono tanti, stringendo il cerchio direi James Taylor, John Martyn, Paul Simon, Nick Drake, David Crosby, Joni Mitchell, Joao Gilberto. Fino a una ventina d’anni fa alternavo l’uso del plettro, ormai non lo uso più, anche lo “strumming” lo suono a dita.
Parafrasando un tuo splendido brano, in qualità di creatore di testi e di musiche, ti senti più sovrano o prigioniero?
Diciamo che vorrei essere più sovrano e meno prigioniero, soprattutto in questo periodo. Cerco di tenere alta, per quanto possibile, la bandiera della libertà individuale. È una canzone che rappresenta bene il mio modo di scrivere e di stare nel mondo.
Sei legato a uno o più brani in particolare di “Boxe”?
Ogni scarrafone è bello a mamma sua, come dicono a Napoli. Diciamo che le più lontane nel tempo, che iniziavano a rispecchiare seriamente la mia natura, sono quelle che guardo con un affetto particolare. Grandi comici, Riccioli neri, Il capitano, Come una storia vera, quelle che ho scritto quando avevo poco più di vent’anni.
Hai utilizzato diverse chitarre per le sonorità che ricercavi per ogni canzone, ma alla fine l’opera è omogenea e sembra seguire una trama, una serie di storie che compongono un unico insieme. Sei d’accordo?
Boxe è, a suo modo, un concept-album. Scrivo sulla chitarra, l’idea era di realizzare un disco crudo, interpretando le canzoni così come sono nate, restituendo le diverse sonorità delle chitarre che suono abitualmente: la classica, l’acustica, l’elettrica e la chitarra baritono, che è un po’ la protagonista dell’album. Anni fa Valerio Gorla mi aveva costruito una baritona acustica, poi un altro liutaio bravissimo, Fabio Zontini, ha costruito per me una baritona classica, uno strumento di bellezza speciale. Boxe, in fondo, è anche un piccolo viaggio tra le diverse evocazioni sonore di questo strumento meraviglioso.
La tua produzione musicale è molto ricca. Come collocheresti “Boxe” all’interno della tua personale collezione artistica?
Forse è il disco che mi rappresenta meglio, quello che testimonia un’origine. Ho cantato e suonato con quell’intenzione, con l’eccezione del brano che apre e intitola l’album, il più recente, scritto nel 2016; in quel caso Rinaldo Donati, che ha seguito le registrazioni in modo magistrale, mi ha proposto una versione straniante, lontana dalle altre esecuzioni. È il disco più sincero e al tempo stesso più anacronistico, per il tempo in cui viviamo. Suona molto bene, e questo è merito di Rinaldo, che è riuscito a cogliere con attenzione chirurgica l’esecuzione del momento. Un grazie speciale va a Maremmano Records, che ha deciso di pubblicarlo anche in vinile.
Anche se non c’entra nulla con “Boxe” vorrei che tu ci raccontassi qualcosa sul tuo bellissimo brano “Pane dal cielo”, colonna sonora dell’omonimo film di Giovanni Bedeschi.
Giovanni Bedeschi è un vecchio amico, un regista che inseguiva da tempo il sogno di realizzare un lungometraggio. Mi mandò la sinossi del film chiedendomi di provare a immaginare una canzone che lo rappresentasse, l’idea era molto bella, l’ho scritta di getto. Pane dal cielo è una metafora di grande attualità, il film si è aggiudicato diversi premi. Gli attori sono stati bravissimi, in particolare i due protagonisti, Donatella Bartoli e Sergio Leone, senza dimenticare Paola Pitagora. Penso di essere adatto a comporre per il cinema, mi auguro che prima o poi accada ancora.
“Boxe” ha preceduto un periodo difficile per tutti, in tutto il mondo. La pandemia ha messo a dura prova anche il mondo della musica. Come hai vissuto personalmente questa fase particolare?
La fortuna di vivere in campagna mi ha aiutato molto, ma è stato difficile per quelli come noi, abituati a salire su un palco. Grandi difficoltà che in gran parte permangono, purtroppo. L’Italia si sta distinguendo per una serie di misure aberranti che lasceranno scorie tossiche, di cui vedremo gli effetti disastrosi nel tempo, il danno psicologico non viene considerato e non esistono vaccini per affrontare quel tipo di problema, nel lungo termine la pandemia cerebrale può essere più devastante. Certamente quest’ultimo anno e mezzo mi ha fatto recuperare una certa lucidità, vedo più chiaro ciò che prima avvertivo in modo meno preciso. Diciamo che dopo tanto tempo so da che parte stare.
La tua passione per il calcio ti ha portato anche a scrivere canzoni e, assieme a Michele Ansani, Gino Cervi e Gianni Sacco il libro “1899. A.C. Milan – Le storie”, pubblicato da Hoepli. Come è nata questa collaborazione?
È un sogno che condividevo con Gino Cervi da anni, quando con Hoepli si è aperta la possibilità di realizzarlo abbiamo capito che l’impresa era gigantesca, così abbiamo coinvolto altri due amici, rossoneri docg dalla penna fiorita. Ci siamo divertiti, avere scritto insieme quasi cinquecento pagine di storia dedicata al nostro Milan è un orgoglio speciale per tutti e quattro. Il libro è una cavalcata di 120 anni che racconta le gesta della nostra squadra del cuore attraversando la storia di Milano, con le illustrazioni di Osvaldo Casanova, un fuoriclasse.
Scusami, ma vorrei conoscere il tuo parere su un argomento a dir poco “spinoso”…. Cosa pensi della scena musicale attuale italiana? C’è qualcosa che si sta muovendo nel campo della cosiddetta “musica d’autore”?
Non mi sono mai sentito legato a un genere in particolare, non vado ad ascoltare tutto quello che c’è di nuovo, quando mi capita noto che l’aspetto vocale e musicale viene spesso sacrificato sull’altare dei testi e dell’immagine. Ci sono un sacco di video girati in modo ultraprofessionale, sovente molto superiori alla qualità delle canzoni che accompagnano, noto qualche testo interessante e molto poco dal punto di vista interpretativo, melodico e armonico. Poi ci sono un sacco di bravi artisti che stimo e che, solitamente, vengono emarginati e ignorati. Con le solite eccezioni che non bastano a valorizzare come si deve l’espressione che, da Modugno in poi, ha prodotto le cose migliori degli ultimi sessant’anni di musica nostrana. Guardo alla Francia e ai paesi di lingua spagnola, dove c’è un rispetto e un’attenzione molto più alta. La canzone d’autore italiana è un patrimonio culturale valorizzato poco e male. Senza contare la moda dei tributi, ci stiamo trasformando in un cronicario culturale con venature necrofile. Per fortuna in questi ultimi anni c’è il recupero delle lingue locali, molte cose interessanti vengono da lì.
Claudio, assieme agli amici di InstArt, ti ringrazio per la chiacchierata e prima di salutarti ti chiedo se è in programma la pubblicazione di una nuova produzione.
Stiamo finendo di mixare un album doppio con Ilzendelswing, la band acustica che ho fondato una quindicina d’anni fa con Massimo Gatti. Si intitolerà Americana e dovrebbe uscire all’inizio del 2022. Nel cassetto ci sono altri due album pronti a cui tengo molto e che mi auguro di poter realizzare subito dopo, preferisco toccare ferro e lasciare il tema in sospeso…
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