Il Birrificio Agricolo Primo campo di Aiello del Friuli è un’accogliente oasi di pace della bassa friulana. Dal centro del paese un breve tratto di strada bianca ed è subito campagna tra mais, vigne e prati. Un piacevole ristoro agreste le cui principali caratteristiche sono le meravigliose birre che sanno creare, l’ottimo cibo che esce dalla cucina, i sorrisi e gli asinelli per il trekking emozionale. Ci sono luoghi in cui ci si sente subito a casa, questo è uno di quelli, soprattutto dopo aver gustato il Pulled pork cotto nella birra con pane artigianale e ingollato qualche pinta del nettare ispirato ai simpatici equini che prende il nome di “La Mussa”.

Certo non è casa per le persone che con quel termine intendono un attico nel centro di una grande metropoli, ma quelli se lo possono tenere in cambio noi ci teniamo i prati, i boccali e la libertà dei fossi e dei campi.

E’ una filosofia libertaria anche quella che guida le scelte artistiche ed esistenziali del maestro della luce Luca A. d’Agostino che ha avuto l’idea di Estensioni Jazz club diffuso: portare la formula del club come luogo d’aggregazione e di fucina creativa “lontano dai centri urbani e presso un pubblico che non ha storicamente avuto occasione di vivere queste esperienze nel proprio territorio. Una programmazione che si svolgerà geograficamente lungo terre di confine storico, culturale, etnico ed anche religioso che esplorerà diverse anime e sonorità del jazz, in dialogo con musica elettronica, classica, contemporanea, folk, world music e altro ancora.” (www.slou.it)

Luogo di confine è di certo il Birrificio Agricolo Primo Campo sulla “verde frontiera tra il suonare e l’amare” come dice l’avvocato di Asti. Così è stato facile trovarsi seduti in giardino in un tardo pomeriggio d’agosto, sull’erba e sotto le fronde degli alberi ad ascoltare e a godere delle improvvisazioni di Giovanni Maier (Violoncello), Paolo Pascolo (Flauto traverso e basso) e Mimo Cogliandro (Sax soprano), tre incredibili musicisti che si riferiscono a tre animali (gazza, biscia, leone) per simboleggiare la propria diversità creativa, l’indipendenza e la singolarità di ognuno. La musica che propongono è libera improvvisazione su linee che seguono di volta in volta un baricentro diverso nell’esecuzione di uno strumento. Non sembra esistere gerarchia ma una serie di indicazioni policentriche che ogni musicista è libero di seguire. Se ha ancora senso speculare su generi ed etichette, la musica dei tre va oltre il jazz per approdare nei territori della pura avanguardia contemporanea. Sono musicisti che hanno il raro dono di ascoltarsi davvero tra loro traendo ispirazione uno dall’altro.

Appaiono così davvero liberi nell’improvvisare nel primo brano, astratti, meditativi e pensosi; i loro sono suoni che fermentano, di natura germinativa cui seguono momenti di cupa intensità drammatica che via via si chetano.

Il successivo Masters and Slaves sfrutta dinamiche di azione e reazione; in sintesi il solista del momento (violoncello) propone qualcosa che è possibile chiamare tema e gli altri rispondono reagendo agli stimoli sonori immediati, alle indicazioni, ai suggerimenti. Giovanni Maier pizzica le corde del violoncello, muove l’archetto, smorza il suono delle corde con i fogli dello spartito oppure le batte con il dorso dell’orchetto così come gli altri battono sulle chiavi senza soffiare nello strumento, oppure emettendo fiochi rantolii.

Durante il concerto i tre sembrano quasi interpretare le voci e i pensieri dei grandi noci bianchi (Juglans regia) alle loro spalle. Nelle legnose istanze del violoncello Maier suona con l’archetto oltre il ponticello che tende le corde e sulla cordiera, il flauto traverso di Pascolo è come un sussurro d’erba che si fa aereo mentre il sax di Cogliandro s’impasta di terra e di foglie e intanto alcuni bambini saltano felici su un tappeto elastico fissato su un prato poco distante in un’immagine bucolica di armonia, natura e musica davvero estatica.

E’ il momento di Rondò per flauto, un’improvvisazione a partire dalle iperboli dell’aerofono. Maier trascina e sfrega letteralmente il crine sulle corde quasi a segarlo via per poi accennare a quelli che sembrano echi bachiani mentre di tanto in tanto un cane abbaia perplesso e nervoso, sembra un effetto voluto da Ambient Music nel senso più alto da Terry Riley fino a Brian Eno.

Non possiamo certo parlare di Minimalismo ma le frasi musicali che i tre intonano non sono mai troppo complesse inizialmente ma frammenti composti che si rifrangono e riflettono in mille vibrazioni disseminate e distorte in un linguaggio dalla grammatica quasi impenetrabile ma che appare al contempo usuale e quotidiana.

La musica si ricorda così di essere un elemento naturale, una proiezione dei suoni e dei rumori che ci circondano, intrisi di terra, umidi, caldi oppure gelati, altre volte secchi, duri, minerali.

Grumi sul filo è un altro brano che ha uno spartito che sembra un’opera pittorica di Basquiat, letteralmente poco più che uno scarabocchio, un’opera pittorica sulla quale gli strumenti disegnano i loro percorsi. A guidare l’ensemble questa volta era l’ispirato sax di Mimo Cogliandro mentre in lontananza le campane del paese salutavano la giornata che se ne andava; la musica diventava così una preghiera della sera in un tempio vegetale del tutto laico, nel quale l’acqua, l’orzo, il malto, il luppolo si trasformano in ebrezza dionisiaca che è di per se musica e soffio vitale.

C’è tempo ancora per un bis nel quale accumulazioni, sovrapposizioni, sedimentazioni e stratificazioni di suoni rivelano la profondità di tale prospettiva musicale che è ricerca, meditazione senza pedanteria e liturgia da sala da concerti, magia e talento che si donano su un prato, tra gli alberi, confondendosi con le ombre della sera.

E’ stata una serata davvero unica nella quale una volta tanto la musica d’arte è ritornata a farsi natura, ambiente, gente, rumori scavalcando ogni retorico confine accademico. Un concerto non deve essere sempre e solo uno “spettacolo”; è soprattutto esperienza di esecuzione e di ascolto, libera da ogni formalismo, utile a volte ma non sempre così assolutamente necessario. E’ forse questo il senso più profondo della rassegna Estensioni che scavalca i confini angusti e soffocanti imposti dalla “società dello spettacolo” per ritrovare le forme d’espressione musicale più autentiche.

Flaviano Bosco © instArt