Per celebrare nel modo più degno la giornata mondiale del rifugiato, il centro Balducci di Zugliano (UD) insieme alla rete d’accoglienza FVG ha organizzato uno splendido concerto che più non si potrebbe. A rappresentare la voce di tutti quelli che la storia fa naufragare negli oceani dolorosi dell’oblio e della nostra indifferenza c’era Jali Babou Saho, erede di un’antica famiglia di Griot del Gambia, con la sua Kora, lo strumento madre di tutti i cordofoni e memoria arcaica delle civiltà del mondo.
Prima del concerto ha preso la parola Gianfranco Schiavone, presidente di Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) Ufficio rifugiati Onlus di Trieste, grande esperto delle migrazioni internazionali, che si è detto davvero costernato e preoccupato per la regressione cupa e pericolosa della gestione dell’immigrazione in Europa: E’ un arretramento rispetto alla difesa dei diritti umani che riguarda anche la Regione FVG in modo negativo e drammatico, per di più in rapido peggioramento con l’incitazione continua alla violenza da parte di un’amministrazione per la quale ormai non vale più la pena di spendere nemmeno una parola.
E’ necessaria una profonda revisione etica da parte delle istituzioni europee e nazionali in una nuova visione dell’accoglienza e del diritto d’asilo che garantisca finalmente giustizia ai nostri fratelli in cammino e non solo discriminazione, detenzione ed espulsione. Lo stesso Schiavone in una recente audizione alla Commissione parlamentare Schengen sul diritto di asilo ha fatto riferimento ad un documento in dieci punti delle reti di accoglienza che fonda il suo diritto sull’art. 10 comma 3 della nostra Costituzione che citiamo per intero visto che molti non se lo ricordano:
“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Non c’è proprio niente da discutere ma solo organizzarsi per il meglio ed accogliere i nostri fratelli meno fortunati e non è per niente una questione giuridica di diritto internazionale, ne va della nostra umanità e del rispetto dei valori più alti e inalienabili dell’esistenza. Ma veniamo alla musica.
La memoria dei popoli del continente africano è da millenni tradizionalmente affidata all’oralità; di bocca in bocca, dal cuore verso i cuori, di padre in figlio si sono trasmesse le informazioni più importanti. Si sono diffuse così le credenze, gli usi, le lingue ma anche gli odi tribali, le usanze sanguinarie, il pregiudizio, la violenza. Quando guardiamo alla cultura arcaica il nostro senso di colpa di colonialisti spesso ci impedisce di capire in profondità i fenomeni più autentici.
L’oralità ha permesso soprattutto che le culture dell’Africa conservassero nel bene e nel male la propria identità superando gli orrori della schiavitù, delle eterne guerre civili e soprattutto della piaga peggiore di tutte, la miseria e la fame. Il linguaggio dell’oralità ha come tramite e come strumento quello della musica che è in grado di superare le distanze, i tempi e i continenti. Il Blues e il Jazz degli afroamericani sono la prova di questo miracolo della comunicazione umana
Nelle culture dell’Africa occidentale i Griot sono i bardi cui è affidata la conservazione della cultura orale e la memoria degli antenati. Il termine è di derivazione portoghese, poi francesizzato da Criado (servitore) a Griot che corrisponde al nostro “chiacchierone” o musicista perdigiorno. In buona sostanza è un termine coloniale e spregiativo come molti che utilizziamo, anche in buona fede, per indicare quelle che crediamo tradizioni africane e che invece appartengono fino in fondo al nostro cuore di tenebra.
Molto migliore è il termine tradizionale che si usa tra le popolazioni Mandinka e Fula del Gambia presso le quali Djeli indica: “l’eredità trasmessa attraverso il sangue”.
Questo preambolo era necessario per introdurci ai suoni del concerto con un minimo di cognizione di causa; senza capire il significato profondo di un certo modo di fare musica si finisce per soffermarsi solamente sugli aspetti più superficiali e decorativi e non ne vale la fatica.
Finalmente risuonano gli accordi della Kora e della chitarra dell’ottimo Renato Di Pauli che fa da bordone. Saho canta con voce dolcissima e flautata mentre con i pollici quasi percuote le corde del suo strano strumento. La Kora che tende ventuno corde su una tastiera fissata su una zucca calabassa fu donata da un dio ai griot perché ne facessero buon uso. Il suono che noi europei conosciamo utilizza un sistema di accordatura che si definisce “temperato” e che, in sintesi, rende quei suoni più gradevoli al nostro orecchio e allo stesso tempo ne comprime la forza arcaica. Qualche compromesso per l’armonia generale qualche volta è necessario.
Il suono della Kora è antico, colpisce dentro e scava un sentiero fino ai “laghi bianchi del silenzio” nei nostri cuori; è una voce arcaica che sussurra di luoghi remotissimi e vicini alle rive di un fiume o di villaggi con le misere case sotto il sole rovente e di rari, enormi alberi sacri le cui radici parlano solo a chi le sa ascoltare
Saho canta in lingua Mandinka che era di suo padre ma anche in lingua Fula che era di sua madre. Il multilinguismo e l’eredità culturale policentrica in Africa non sono per niente una novità, anzi sono un “affare di famiglia” le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Gli arpeggi e i vocalizzi raccontano dell’inutilità della guerra e della tragedia dei profughi. La Kora sa anche ipnotizzare e cullare con il suo suono ripetitivo e continuo con le sue ipotesi armoniche il cui significato è extralogico e misterioso. E’ necessario lasciarsi andare al flusso dei suoni altrimenti si ottiene solamente di affogare nel mistero dell’inattingibile. Bisogna lasciarsi portare dall’emozione e dall’amore. Proprio di questo parlano alcune canzoni, trasmettendo attraverso le note pizzicate un sentimento dolce e nostalgico che parla di una donna che aspetta un uomo che non sa tornare. E’ la memoria di una distanza e di qualcosa perso nei ricordi lontani, forse una scheggia di persistenza. Saho canta in lingua Mandinka: “Non lasciarmi stare, ti voglio bene amore” Senza alcun dubbio in queste nenie tradizionali si sentono le radici del Blues.
Segovia diceva che un chitarrista passa metà della vita ad accordare il suo strumento e l’altra metà a suonarlo scordato. Per un suonatore di Kora è molto peggio di così, deve continuamente rimettersi in risonanza con la chitarra per mantenere un suono armonico almeno per le orecchie europee.
Durante il concerto è capitato spesso di sentire accordare lo strumento e sembrava di sentire un’autentica forza della natura che un po’ alla volta veniva domata e addomesticata ad un volere che non le appartiene, per questo la Kora si vendica “scordandosi” continuamente. Non sopporta le catene e le costrizioni delle scale occidentali così rigide e iperrazionali, i suoi sono suoni imprecisi, difficili da contenere e modulare in uno schema fisso.
La chitarra di Renato Di Pauli chiama ad un dialogo cui la Kora risponde con una sovrabbondanza di richiami e suggestioni. E’ una conversazione impossibile e proprio per questo feconda; i due strumenti meritano di spiegarsi e approfondire la conoscenza. Proprio gli estremi, i diversi, quelli che non si conoscono e non si comprendono hanno bisogno di farlo. Il dialogo tra uguali è spesso esornativo, sterile e di convenienza.
Durante il concerto un maggiolino forse inebriato dalla musica e dalla sua luce ha fatto un largo giro sopra le teste del pubblico per poi andarsi a posare felice proprio sulla cassa armonica della chitarra, ubriaco di suoni e di felicità. In certi momenti il virtuosismo di Saho diventava evidente ed ostentato tanto che le corde pizzicate della Kora rimandavano armonizzazioni ed arpeggi che ricordavano il clavicembalo annullando il tempo e lo spazio in una crasi sonora inaudita. Intelligentemente, il chitarrista Di Paoli che lo accompagna introduce accenni a motivi Bachiani e barocchi che si sposano perfettamente con questo tipo di musica africana per quanto iperbolico possa sembrare.
Alla fine del concerto applauditissimo, Don Pierluigi Di Piazza, fondatore del Centro Balducci, ha preso brevemente la parola per alcune brevi riflessioni che riguardavano il significato della serata.
Questo tipo di musica, ha detto, ci insegna non solo ad ascoltare ma a partecipare dell’emozione lasciando da parte la presunzione intellettuale dell’occidente, la nostra connaturata convinzione di superiorità, fondamento di ogni colonialismo. Le culture sono plurime e bisogna aprirsi alle differenze e all’accoglienza. I musicisti, i poeti con la loro anima vibratile sono l’essenza dell’umanità. Chissà se l’epidemia ci ha insegnato qualcosa. Guai a tornare come prima! Quello che ci lasciamo alle spalle deve essere il mondo dell’ingiustizia e dello sfruttamento che non deve più tornare. Don Di Piazza nella sua visione profetica sa bene che non sarà così, gli esempi degli ultimi tempi dicono esattamente il contrario ma, proprio per questo, non deve morire la speranza e la volontà di cambiare. Racconta di una famiglia di profughi afgani appena arrivata al centro Balducci, la donna è incinta e porta dentro di se un essere prezioso che però è già esule politico ancor prima di nascere. La musica deve farci riflettere sul destino dei nostri fratelli ed esortarci a impegnarci per rendere migliori le loro vite e più giuste le nostre, altrimenti non ha alcun significato.
Prima del saluto finale, ancora un brano tradizionale del West-Africa. A guardarlo nelle ultime luci della sera il suonatore di Kora seduto, sembra quasi cavalcare uno strano animale mitologico cui ha afferrato saldamente le orecchie dopo averne imbrigliato l’unicorno con due ordini di corde. Così doveva forse apparire anche la magnifica lira d’argento a forma di teschio di cavallo grazie alla quale Leonardo da Vinci superò tutti i concorrenti di una gara per “musici” organizzata alla corte di Ludovico il Moro presso il Castello Sforzesco di Milano, simile forse a quella con la testa di toro conservata al museo delle antichità mesopotamiche di Baghdad databile tra il 2800 e il 2300 a.C. Tanto per capire l’ordine delle profondità temporali cui l’ascolto della Kora che è ancora più antica ci rimanda.
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sull’urgente necessità di fare qualcosa per accogliere in modo più degno i nostri fratelli dagli altri paesi del mondo basta aprire un qualsiasi giornale e riflettere sui tanti episodi di cronaca come quello che segue brevemente:
“Bari- Camara Fantamadi è morto di caldo e fatica per sei euro all’ora, dopo aver zappato la terra per mezza giornata senza mai fermarsi. Niente acqua, niente ombra, il termometro che superava i 42 gradi. Camara Fantamadi è morto a Tuturano, Brindisi, Italia. Ed è morto da schiavo. Aveva 27 anni. Era nato in Mali e tre anni fa era arrivato a bordo di un barcone.”
© Flaviano Bosco per instArt