Niente paura non c’è niente da spaventarsi, questa volta dalla Cina con furore arrivano solo tanto divertimento ed emozioni sui grande schermi della città di Udine. Dopo un anno difficilissimo e un’edizione totalmente on line, è tornato in tutto il suo fulgore il Far East Film Festival che senza ombra di dubbio continua ad essere una delle rassegne cinematografiche più interessanti ed amate del nostro paese e a livello internazionale.

Il lockdown, per quanto paradossale possa sembrare questa affermazione, ha lasciato almeno un segno positivo alla manifestazione. Di certo l’avviata collaborazione con mymovies, iniziata giocoforza, proprio quando i grandi schermi del pianeta erano stati oscurati causa virus. L’attuale formula ibrida on line e in presenza è davvero uno sguardo sul futuro che potrà garantire nuova visibilità e una fruizione della scaletta più agevole non solo a distanza ma anche per gli accreditati che hanno la possibilità di gustarsi con calma anche le pellicole che non riescono a vedersi in sala.

La bella novità di quest’anno sono le nuove meravigliose sale del Visionario e il “villaggio del festival” creato nello spazio aperto del cinema. L’Arena del Visionario, con un enorme schermo a cielo aperto, con le bancarelle dello street food all’orientale, il bar e gli ombrelloni, regala un atmosfera balneare che mancava a tutti, ben diversa da quella naturalmente più paludata del Teatro Nuovo Giovanni da Udine; la nuova informalità giova al festival e rasserena gli animi.

L’inaugurazione, con una piccola sfilata di draghi e di figuranti (cosplayers) e un clima strapaesano con il pubblico in bermuda e sandaloni, è stata molto più godibile di quelle tradizionali del passato con tutti “condannati” alla poltroncine del teatro nel buio della platea. Bando alle ciance il vero cuore del festival sono i film e di quello tratteremo.

Cliff Walkers di Zhang Yimou (Cina 2020) Il festival si è aperto con l’attesissimo nuovo film dell’imperatore del cinema cinese Zhang Yimou; certo i tempi di Sorgo Rosso o de La storia di Qui Ju sono passati da un pezzo ma una qualche curiosità ancora permane.

Con tutto il rispetto, l’attesa è andata completamente delusa. La pellicola, pur sontuosa ed elegante nella confezione laccatissima e levigata di grande perfezione tecnica, è più fredda della neve, vera protagonista di ogni singola immagine, a volte nevica perfino nelle riprese in interni. La sceneggiatura si rivela semplicemente un pretesto per un’opera di propaganda politica come nemmeno nell’URSS di Stalin durante la Guerra Fredda.

Facciamo un po’ d’ordine. Prima della proiezione, in un breve video il regista con una polo della nazionale cinese ha salutato il pubblico del Feff con una bandierina della RPC ricamata sul cuore e già da questo piccolo particolare qualcosa si poteva intuire. Ben sappiamo che da decenni il regista, a parte qualche piccolo attrito con la censura, è assolutamente in linea con i dictat del regime e la sua arte è perfettamente funzionale alla propaganda del suo paese; sarebbe inutile negarlo visto che anche quest’ultima pellicola è dedicata agli Eroi della Rivoluzione. Niente di male ma non tenerne conto falserebbe la prospettiva estetica.

Nel 1931 quattro spie cinesi addestrate dai sovietici vengono paracatudate nell’inverno del Manchukuo (Manciuria), il Nord Est della Cina allora invaso e occupato dalle spietate truppe giapponesi. La missione è quella di individuare e far uscire dal paese in sicurezza l’ultimo sopravvissuto di un campo di prigionia che dovrà testimoniare davanti al mondo le atrocità e i crimini contro l’umanità dei giapponesi. Tra inseguimenti, doppio e triplo giochisti, spie infiltrate, torture, sparatorie, sacrificio dei soliti eroi, la vicenda si sviluppa ad un ritmo serratissimo in una scenografia meravigliosa tra gli esterni nella foresta innevata, l’azione sul treno, gli inseguimenti tra i vicoli della città, gli interni borghesi sfavillanti e le baracche dei poveracci, il quartier generale giapponese con la cella delle torture. Tutto assolutamente perfetto con la fotografia in luce chirurgica di Zhao Xiaoding e i costumi raffinatissimi di Chen Minzheng. Molto efficaci, naturalmente, le inquadrature del regista che ha sempre avuto uno stile magniloquente, ridondante e solenne. Appena discutibile anche la scelta del cast con molti attori dalla faccia di legno che recitano con solo due espressioni: con il cappello o senza come si diceva una volta. Menzione speciale per Liu Haocun, bambolina di porcellana completamente fuori parte e registro come al solito. Non si salva nemmeno la colonna sonora di Cho Young Wuk spesso pleonastica, eccessiva e didascalica così come il sound design di Yang Jiang e Zhao Nan.

Cosa salvare di questo film? Poco, molto poco, risultano fastidiose e fuori contesto perfino le esibite e strumentali citazioni da La febbre dell’oro di Charlie Chaplin. La celeberrima sequenza del balletto dei panini e delle forchette è una perla luminosa gettata in un porcile. Patetico e sprecato anche l’omaggio al cinema russo di Dziga Vertov attraverso le locandine che si intravvedono esposte all’esterno di un cinema di alcuni film (Cineocchio, L’uomo con la macchina da presa ecc.). Insopportabile il brindisi delle spie al motto di: Proletari di tutto il mondo unitevi! Con tanto di esplicito riferimento al Manifesto del partito comunista di Marx, non tanto per il contenuto sacrosanto dell’esortazione e dell’ideale ma per la prosopopea e per la pesantissima retorica.

Gustosa, bisogna riconoscerlo, la citazione nei dialoghi della breve favola di Esopo, La iena e la volpe, preziosa chiave interpretativa di tutto il film, che riportiamo per intero anche per non ammettere con noi stessi di aver buttato, ancora una volta, 120 minuti della nostra vita davanti allo schermo.

La Iena e la volpe: “Dicono che le iene, poiché la loro natura cambia ogni anno, diventino una volta maschi, un’altra femmine. Or dunque una iena vedendo una volpe prese a rimproverarla perché non voleva avvicinarsi a lei che desiderava diventarle amica. Ma quella rispondendo le disse: “Ebbene non rimproverare me ma la tua natura a causa della quale io non so se avrò a che fare con un’amica o con un amico. La favola è adatta per l’uomo ambiguo.”

Qualunque cosa possa voler dire.

Shock Wave 2 di Herman Yau (Hong Kong 2020). Un ordigno nucleare di nome David Crocket sviluppato dagli americani durante la guerra fredda esplode all’aeroporto internazionale di Hong Kong, con fungo atomico compreso, provocando una distruzione immane e, presumibilmente, milioni di morti. Ma non è vero! Sarebbe successo se il nostro eroe, interpretato dalla superstar Andy Lau, non si fosse immolato per salvare la patria. Evviva!

La sceneggiatura del film di Herman Yau è tutta qui, non c’è altro di rilevante, solo inseguimenti, mazzate, sganassoni e ordigni esplosivi disinnescati all’ultimo secondo che poi esplodono a tradimento quando meno ce lo si aspetta.

Sembrerebbe un buon viatico per una pellicola che promette tutta action serratissima e divertimento a mille e invece basta aver seguito anche distrattamente le notizie delle ultime settimane per capire che a Hong Kong sta succedendo qualcosa di veramente inquietante e che il film sottende argomenti molto dolorosi che forse ad un primo sguardo non si colgono. Prima di vedere il film bisognerebbe capire cosa sta succedendo attualmente nell’ex concessione-colonia inglese.

Leggiamo brevemente dai quotidiani on-line le notizie più recenti: “Con uno spiegamento di forze sufficiente a fronteggiare un attacco terroristico su larga scala, stamattina le forze speciali della polizia di Hong Kong hanno effettuato un blitz senza precedenti nella sede del quotidiano Apple Diary, portando via in manette direttori, capo redattori e giornalisti, sequestrando apparecchiature, compresi lap top privati, disattivando i server.”

I cinquecento agenti agivano in base alla nuova Legge sulla sicurezza nazionale. I giornalisti sono stati accusati di attività terroristica in collusione con un paese straniero o “con elementi esterni” per mettere in pericolo la sicurezza nazionale. La Cina sta schiacciando l’indipendenza e le libertà democratiche del protettorato che gli è stato restituito vent’anni fa, con le buone ma soprattutto con le cattive. Le proteste civili e democratiche della popolazione della città sono considerate atti terroristici sobillati da “potenze straniere” (UK e USA).

Nel film un’organizzazione chiamata Vendetta, di matrice internazionale, vuole colpire duramente la città di Hong Kong perché la ritiene corrotta e solo un epocale olocausto nucleare permetterà agli uomini di rigenerarsi nel fuoco nucleare: Le idee che il gruppo terrorista esprime sono all’incirca queste: “La vita attuale è inquinata alle radici: l’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinato l’aria, ha impedito il libero spazio…Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute…Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.” Naturalmente, nel film non si cita Italo Svevo ma un grande classico della cultura cinese.

Viene più volte ricordato “I Briganti” di Shi Nai’an del XV sec ma ambientato nel XII sec. L’opera colossale consta di 25 volumi nei quali si raccontano le avventurose gesta di 108 scalcagnati eroi che girano il continente asiatico, soli contro tutti, tra scorribande, soprusi, avventure e uno spirito ideale che li spinge a battersi per le ingiustizie e la libertà.

Nel film sono trasformati in pericolosi anarco-insurrezionalisti senza un briciolo di pietà. Nel gruppo si infiltra il nostro eroe con un plot molto simile a quello del capolavoro che ha segnato tutta la carriera di Andy Lau “Infernal Affairs” che giustamente sarà omaggiato con una proiezione tra gli eventi conclusivi del Feff 23. L’opera del grande attore di Hong Kong è uno dei fili conduttori delle proposte del festival, ancora un altro film lo vede protagonista (Endgame di Rao Xiaozhi, 2021), ma è anche uno dei suoi simboli visto la sua presenza immancabile ad ogni edizione.

Qualcuno ha associato l’attore cinese a Tom Cruise e, con tutto il rispetto per quest’ultimo, il paragone è del tutto irriverente. Lau è un artista molto più eclettico e versatile in grado di passare dall’action, alla Comedy, al Drama con estrema naturalezza ed efficacia. La vera “onda d’urto” nei film che interpreta è proprio lui che da decenni sceglie i soggetti, fa elaborare le sceneggiature, impone alle major i registi e mantiene il pieno controllo sul risultato finale e, a volte, perfino quello sul cut up finale e sulla distribuzione.

In sintesi, Shock Wave 2 eccessivo e fracassone fin dal titolo che rimanda teoricamente ad un primo capitolo che in realtà è completamente diverso per azione e personaggi; promette e mantiene una girandola di fuochi d’artificio e mortaretti di varie dimensioni e tipologie. Il film è un giocattolone colorato e, per alcuni gusti, probabilmente divertente. Le sequenze in computer animation e gli effetti speciali, soprattutto nella prima parte, sono del tutto inverosimili ed eccessivi, da videogioco di seconda scelta. Sul resto è meglio far finta di non aver visto.

© Flaviano Bosco per instArt