Doppio concerto per la terza serata della rassegna udinese che ha celebrato i propri trent’anni con una serie di concerti all’altezza della propria fama passata, presente e futura. La manifestazione ha sempre curato in modo particolare la qualità assoluta della propria programmazione, sia per non omologarsi, sia per motivi emozionali, libertari e ideologici.
A molti oggi sembra quasi sconveniente avere una propria idea e perseguirla con dedizione e sacrificio rimanendo fedeli a se stessi. Impera lo pseudo valore della flessibilità che per qualcuno significa essere sempre pronti a svendere le proprie opinioni ad ogni refolo di vento che cambi; inseguire una banderuola, come gli ignavi, era qualcosa di inconcepibile perfino all’inferno nella mentalità del “dolce padre” Dante. Oggi sembra non si possa farne a meno, ci sono persone che come si dice: “pagherebbero per farsi comprare”.
L’utopia, al contrario, non è monetizzabile, non è sul mercato, non si vende a peso. Udin&Jazz ha saputo dimostrare tutto questo con la propria coerenza di proposta culturale e artistica attenta alla solidarietà e ai diritti civili che sfida i decenni e le istituzioni retrograde. Che sia possibile trasformare “il mondo in musica”, nel senso della fratellanza e della giustizia sociale, lo dimostrano anche gli artisti che si sono esibiti in queste serate del festival e quelli che lo faranno nell’ultima, ognuno a proprio modo “Fedele alla Linea”.

Per ora cominciamo con due ottimi amici del festival che erano “ragazzi scimmia” del jazz quando tutto è cominciato e si ritrovano oggi ancora con un “fanciullino” nel cuore.

Blue Question: Claudio Cojaniz, pianoforte / Franco Feruglio, Contrabbasso.
Ci sono tutti i colori del Blue in un dialogo tra due amici di vecchia data che riflettono, rimuginano, s’interrogano su una vexata questio: “To Blues or Not to Blues” come avrebbe detto il Bardo.
Tutta la musica contemporanea viene dal Delta del Mississippi e nasce dai canti di lavoro e dalle preghiere di schiavi che non avevano niente da perdere se non la speranza. Il chitarrista Son House che era uno che se ne intendeva, diceva che il blues parla di quello che succede tra un uomo e la sua donna, nient’altro. Non sappiamo se avesse ragione ma Cojaniz sembra crederci, soprattutto quando si esprime con così tanta dolcezza come in questo progetto con il sodale Feruglio.
Anche senza conoscerlo di persona, quando si pensa a Cojaniz, attraverso i suoi dischi, non è difficile definirlo un amico. La sua arte è da sempre piena di poesia e di confidenza e ogni volta che lo si ascolta ci sembra davvero di capire le ragioni del nostro cuore, poi magari, finita la magia, ci accorgiamo che non è vero per niente, però intanto gli siamo grati e anche parecchio, non è poco.
Dolcissime sono le note del primo brano non appena si abbassano le luci in sala, sono come lacrime di zucchero. Cojaniz sa essere struggente e sospiroso quando vuole e dietro il suo aspetto di omone grande come un albero si cela un cuore musicalmente tenerissimo fatto di burro e di pasta di mandorle. Allo stesso modo, sono molto morbide anche le corde di Feruglio che fanno volar via, leggero e delicato, il primo brano compreso in una recente incisione del duo.
Tra sorrisi, applausi e occhi velati di pianto si continua con il contrabbassista che, inizialmente, impugna l’archetto per poi ritornare alla forza delle sue dita. Il pianoforte si fa più solenne e le sue arie diventano dei cantabili, veri e propri blues della domenica mattina; tutto è luce e rimpianti con qualche “chissenefrega”più o meno sentito per le delusioni della sera prima.
Si prosegue in un incedere notturno e pensoso come di chi passeggia, tornando a casa a tarda ora, senza badar troppo al coprifuoco; stanco e disilluso ma con ancora qualche ultima energia da spendere “e non trova qui nessuno per parlarne un poco” tanto per parafrasare ancora Paolo Conte.
Ma è tutto inutile ora, il fiume scorre nell’oscurità, e anche se dal ponte, guardando giù, non vediamo niente sappiamo bene che c’è, ne sentiamo l’odore e la forza. Ci fermiamo giusto in tempo prima di…sarà per un’altra volta.
E’ il contrabbasso che ci chiama alla fermata con la sua voce profonda e ultimativa; il treno di Cojaniz sbuffa e rotola sferragliando sui binari verso i soliti orizzonti. Si va veloci ma quasi nessuno sa verso dove. Scorrono i paesaggi nello Train spotting dei finestrini; i prati, le case, i cortili, i campi coltivati, qualche rara mucca al pascolo che alza la testa, le bici ai passaggi a livello. Corre fischiando verso il blu, lasciamolo andare.
Il brano che segue sembra una danza turchesca dei sette veli da perdere la testa. Cojaniz in un assolo di pianoforte, si lancia in una frenetica giravolta del tutto selvaggia. Sembra quasi di scorgere alcuni rimandi ai lavori di Patrizio Fariselli con gli Area.
E’ la volta di Feruglio con il suo solo di contrabbasso. Raggiunge una grande profondità di suono grazie ad una attenta conoscenza degli spazi e delle attese tra le note. E’ tutto si fa di colori pastello e decisamente melodioso. Sotto le sue dita c’é sempre luce Tra le scintille e le luminescenze che si propagano dal suo strumento sembra impossibile trovare il tempo di scambiarsi un sorriso o anche solo rimpiangerlo.
Infatti, un suo autorevole Preludio ci guida verso una sorgente di acque chiarissime e fresche. Non ci si mette molto a capire che si tratta di un altro standard arioso e mattutino con i panni stesi ad asciugare al sole e i bambini che giocano al pallone. E’ privo di senso il magone che, a questo punto ci assale ma, si sa: al blues non si comanda.
Ancora un’altra composizione algebrica e complessa come le traiettoria del traffico quando tutto sembra essere una corsa contro il tempo e nemmeno i semafori appaiono poi così intelligenti.
Avviandosi a concludere il loro set i due condottieri intonano un brano che potrebbe sembrare una canzone della tradizione napoletana alla Roberto Murolo che subito si rivela, invece, un robusto e sospiroso blues da cantare a squarciagola.
Esiste, in fondo, qualche differenza? La baia di Napoli e il Delta del Mississippi non sono poi così lontani, ci sono solo due mari a separarli e lo spazio di una tastiera di pianoforte: “Cos’è che luccica sul grande mare?/ Ne sono certo/è proprio un pianoforte da concerto/dal suono avuto dal mistero/un pianoforte a coda lunga, nero” ma questo ce lo spiegherà per bene il solito Paolo Conte questa estate a Grado Jazz.
L’ultimo brano in scaletta, “Freedom and Flowers” fa capire al pubblico, ancora una volta, che la vera Libertà sta simbolicamente nella contemplazione dei fiori e nel loro potere, nella setosa ricercatezza delle corolle, nell’eleganza degli steli e nel colore petali. Come api bottinatrici alla fine del concerto ci ritroviamo in piena estasi tra i fiori a rotolare ubriachi con le zampette piene di polline odoroso.

Roberto Gatto “Progressivamente”: Roberto Gatto, Batteria / John De Leo, voce / Marcello Allulli, sax, live electronics / Alessandro Presti, Tromba / Alessandro Gwis / piano e tastiere /Andrea Molinari, Chitarra /Pierpaolo Ranieri, basso elettrico, live electronics.
“Arrivati in cima al mare, dove il mondo diventa mancino / La mela lasciò il suo vecchio vestito e prese l’abito da sposa/ più rosso, più rosso/ La foglia sorrise, era la prima volta di ogni cosa”.
E’ sotto l’insegna del prog più autentico, il progetto che vede impegnati da molti anni Roberto Gatto e i suoi eccezionali musicisti, in una rilettura in jazz dei più grandi successi del rock progressivo che comprende anche brani originali del batterista e la straordinaria partecipazione di John De Leo, erede e personalissimo interprete della tradizione più sperimentale e avant garde della vocalità italiana da Demetrio Stratos a Francesco di Giacomo.
I musicisti dopo un breve cambio-palco prendono posto sulla scena come un’autentica falange schierata. Il palcoscenico del Palamostre è piuttosto limitato e i musicisti, con la loro strumentazione e tutta l’amplificazione lo riempiono quasi del tutto.
Ne risulta uno scenario che corrisponde alle immagine dell’epoca pionieristica del rock sinfonico con gli ingombranti strumenti valvolari ed elettronici quasi accatastati. Quello che, però, negli anni ‘70 era quasi la regola, oggi non è più sostenibile e testimonia solo del fatto che, come sostiene il patron della manifestazione Giancarlo Velliscig, Udine non possiede luoghi dedicati adatti per l’ascolto della musica; mentre abbondano supermercati e centri commerciali, non esiste nemmeno una sala da concerto per una realtà musicalmente davvero viva, dentro e fuori, dal capoluogo friulano. Lasciamo però perdere le polemiche da cortile e concentriamoci sul concerto.
Si parte subito con una versione stellare e Jazz Rock di Watcher of the Skies dei Genesis, una lunga introduzione alle tastiere porta direttamente al drumming ossessivo che è la spina dorsale di uno dei brani più iconici della storia del Rock.
La voce di Peter Gabriel si è trasformata, in questa rilettura, in una meraviglia fatta di flicorno e sax tenore; la magia rimane la medesima, è una stupenda farfalla che si è trasformata in un’altra farfalla, diverse ma altrettanto emozionanti.
A questo punto, “Matte Kudasai” dei King Crimson esplode in tutta la sua romantica aggressività. Sembra una contraddizione in termini, un paradosso ma molte delle composizioni di Robert Fripp, in qualunque arrangiamento, hanno sempre saputo regalare felicità anche tra le lacrime e il contrario. Lo sanno bene gli appassionati di Udin&Jazz che lo hanno visto in azione, qualche anno fa proprio sullo stesso palcoscenico del Palamostre.
A tanta forza segue “Lisergic” un brano originale dal titolo significativo, composto dallo stesso batterista che rielabora molte delle suggestioni sonore che come dice lui hanno costituito la colonna sonora della sua giovinezza. Musica splendida suonata senza improvvisazioni da partitura e cioè “eseguita”.
La band è affiatata ma dipende dalla direzione assoluta di Gatto che è una persona affabile e spiritosa ma che sa anche essere autorevole e, come i grandi Maestri, sa dirigere i propri musicisti solo con un’ occhiata. Non si dimentichi che il batterista è uno degli allievi di Enrico Rava di cui abbiamo già detto in una precedente recensione.
Un cinguettare e uno svolazzo di primavera invadono il palcoscenico e la sala, gli spettatori più attenti, capiscono immediatamente di cosa si tratta. E’ l’introduzione campionata a dovere di un capolavoro assoluto: “Close to the Edge” degli Yes che Gatto rivela di aver visto a Roma in un memorabile concerto nel 1972 quando era poco più che un bambino. Nostalgia ed emozione a volo d’uccello sulle teste del pubblico.
Quando gli spettatori erano già rapiti dai fuochi d’artificio in musica che avevano visto esplodere sulla volta della sala, ha fatto la sua comparsa John De Leo e tutti si sono accorti che il vero stupore doveva ancora venire.
Descrivere la vocalità di Massimo De Leonardis da Lugo di Romagna, in arte John De Leo, è davvero complicato tanto è estrema, raffinata e fuori dal comune; dire “autentica forza della natura” è fuorviante perché il cantante si presenta in modo molto elegante e raffinato da vero gentleman, non lo si crederebbe in contatto attraverso la sua voce con le profonde forze telluriche e ctonie che ci governano e con le essenze iperuraniche dello spirito assoluto che ci abita.
Ha la capacità di manifestare attraverso indefinibili suoni gutturali le paure e l’oscurità più ancestrali e allo stesso tempo soavissime sensazioni con le sue voci d’angelo,è proprio il caso di parlare al plurale, è evidente che dentro di lui coesistono una moltitudine di voci. Attraverso le emissioni sonore di testa, di gola, diaframmatiche e quant’altro, chi si esprime attraverso di lui si chiama Legione, nel migliore dei significati possibili ma anche nel peggiore che però ci piace tanto: Diabolus in Musica.
Sono stati eseguiti due brani dal suo repertorio, Le chien e le flacon e Zahra. Con l’aiuto di un magnetofono da bambini e con la propria voce “aliena”, De Leo ha interpretato qualcosa a cui solo chi l’ha sentito può crederci; assistere ad una sua esibizione non è un ascolto ma un’esperienza sonora che sulla pagina non ha significato, perciò non la descriveremo per niente, invitando i lettori a farsi un regalo, appena possibile, assistendo ad una delle performance future dell’artista.
Il primo brano era tratto da un poemetto di Charles Baudelaire che merita di essere ricordato perché nella sua ironia ci parla di noi e del nostro mondo che, molto spesso, non ha un buon “odore”.
“Mio bel cane, buon cane, caro Tutù, avvicinati!, vieni a respirare questo profumo stupendo, comprato dal miglior profumiere di questa città.”
E il cane scodinzolando – che in questi poveri esseri è, credo, il segno che corrisponde al riso e al sorriso – si accostò col suo naso umido e fremente al flacone stappato; poi, rinculando di colpo, spaventato, mi abbaiò contro, come a rimproverarmi.
“Ah! Miserabile cane! Ti avessi offerto un pacchetto di merde, l’avresti annusato deliziato, forse lo avresti divorato. E così anche tu, compagno indegno di questa mia vita triste, sei come il pubblico – a cui non bisogna mai offrire aromi delicati che lo esasperino, ma immondizie ben scelte.” (VIII poemetto in prosa da Lo spleen di Parigi)

La stessa ironia guascona traspare anche dalle parole che Roberto Gatto rivolge al pubblico raccontando un aneddoto, davvero gustoso, che possiamo solo riassumere, su tre destini che si sono compiuti grazie a Udin&Jazz.
John De Leo è stato il primo cantante dei Quintorigo sostituito poi da Moris Pradella; con lo stesso gruppo ha collaborato anche Roberto Gatto per un progetto sulle musiche di Jimi Hendrix. Qualche anno fa, a poche ore dall’esibizione di quella formazione a Udin&Jazz, Pradella si rese irreperibile senza fornire alcuna spiegazione. A sostituirlo ci pensò il giovane Alessio Velliscig, figlio del patron del festival, reclutato fortunosamente, che tutt’ora presta il suo grande talento vocale al gruppo. Un altro miracolo di Udin&Jazz, frutto non del caso ma di anni di dedizione, sacrifici e abnegazione.

L’esibizione di Gatto e dei suoi si è conclusa con una reprise di un’improvvisazione con De Leo ma anche con uno straordinario omaggio ad uno dei più grandi ensemble della musica italiana di sempre: Area International Popular Group di Stratos, Capiozzo, Tofani, Fariselli, Tavolazzi, che i palcoscenici del Friuli e di Udin&Jazz conoscono bene in varie formazioni.
E’ stata eseguita una fantastica versione de La mela di Odessa che ha scaldato i cuori e le memorie di tutti i presenti in un meraviglioso “girotondo”…
E la mela salì, salì, salì, salì, salì
La foglia invece salutò, salutò, salutò
Rientrò nel mare e nessuno la vide più.
Noi invece ci vediamo all’ultima serata di Udin&Jazz Winter.

© Flaviano Bosco per instArt