Come si distingue il sesso dei pulcini? Qual è la sorte dei maschi in un allevamento avicolo intensivo? Qual è l’insalatone preferito dei coreani? Che sapore ha un bicchiere di “rugiada” di bambino? Ha ancora un senso la rabdomanzia? A queste ed altre esistenziali, metafisiche questioni risponde con dovizia di particolari Minari, il nuovo dolciastro lavoro dell’americano Lee Isaac Chung sul grande schermo (anche in V.O. con sottotitoli) della sala Eden del Visionario riaperto in queste settimane dopo il flagello epidemico.
La trama racconta delle difficoltà nel settore zootecnico e agricolo di una famigliola coreana che, immigrata precedentemente in California, finisce per spostarsi in Arkansas (Usa) in epoca reaganiana. Insomma, il solito sogno americano di speranza, redenzione e riscatto questa volta in infuocata salsa Kimchi.
Tra gli attori protagonisti, tutti pessimi in varie gradazioni, l’uomo a una dimensione, Seun Young, il Glenn di ben sette stagioni dell’apocalittica serie tv “The Walking Dead”. Paradossalmente, per qualità fotografica, ambientazione e recitazione questo sottoprodotto della cultura cinematografica hollywoodiana potrebbe essere considerato una sorta di spin off della famigerata serie Western Zombie Holocaust.
Ecco la trama nel dettaglio:
“Negan uccide brutalmente Abraham con la sua mazza e Daryl scatta in piedi colpendolo con un pugno prima di essere bloccato a terra. Negan, non potendo perdonare un tale affronto, uccide a colpi di mazza anche Glenn (Seun Young) mentre il gruppo assiste inorridito e impotente. Rick, dopo quanto accaduto, minaccia Negan promettendogli che un giorno lo ucciderà e questi, per sottometterlo al suo potere, gli ordina di mozzare il braccio a suo figlio, altrimenti ucciderà tutti. Disperato, Rick sta per eseguire l’ordine, ma Negan lo ferma, facendogli capire che sono quelle le sensazioni che vuole vedere: terrore e sottomissione nei suoi confronti. Negan si allontana con il suo gruppo e Daryl, che terrà come ostaggio, affermando che torneranno dopo una settimana per il primo tributo. I superstiti, distrutti dal dolore, recuperano i corpi di Abraham e Glenn (Seun Young) e si allontanano.”
Opps! Ci deve essere stato un errore di trascrizione, questa è la trama dell’episodio d’apertura della settima stagione della già citata serie horror.
Ricominciamo da capo.
Stevie:You little slanty eyed, me-no.speaky-American, own-every-fruit-and-vegetable-stand-in- NewYork, bullshit, Reverend Sun Myung Moon, Summer Olympic ‘88, Korean Kickboxing son-of-a-bitch! |
Stevie: Occhi a mandorla del cazzo, me non palale amelicano, tutti i negozi di frutta e verdura di New York, merdoso reverendo Sun Myung Moon, Olimpiadi di merda del 1988, boxe coreana di merda, figlio di puttana. |
Sonny: It’s cheap! I got a good price for you Mayor Koch, “How I’m doing?”, chocolate egg cream drinking, bagel and lox, B’nai B’rith, Jeew asshole |
Sonny: Costale poco, io fale buon plezzo a voi Mayor Koch, Allora come me la cavo? Bevi frappè flutta cioccolata, pane e salmone, ebrei di merda. |
Opps! Ancora un altro errore. Questi sono i dialoghi di Do the Right Thing di Spike Lee (1989) dove si snocciolano tutti gli stereotipi razzisti contro i coreani in America. Abbiamo di nuovo sbagliato film.
Kowalski (con il fucile in mano): Fuori dal mio terreno
Bullo coreano: Senti nonno non ti conviene farmi incazzare.
Kowalski: Avete capito? Ho detto fuori dal mio terreno!
Bullo coreano: Sei rincoglionito? Vattene in casa!
Kowalski: Si, prima però ti faccio un buco in faccia, poi rientro in casa e dormo come un pupo. Puoi starne certo. Con le caccole come te ci facevamo i muretti in Corea, i sacchetti di sabbia.
Bullo coreano: Ok, ma guardati le spalle!
Uffa! Nemmeno questo è il film giusto! Sono i dialoghi di Gran Torino di Clint Eastwood (2008) durante i quali il reduce della guerra di Corea, Walt Kowalski, insulta pesantemente un giovane teppistello coreano.
Dopo aver giocato su queste false partenze, la prima considerazione che viene da fare è che il film in se stesso giri a vuoto dalla prima all’ultima sequenza.
La pellicola è concepita come un raccontino edificante e bucolico, tutta glassa, caramello e zucchero filato, roba da crisi iperglicemica fino al coma diabetico. La sceneggiatura appare del tutto insignificante, inconsistente e del tutto inverosimile. Sequenze intere dello sgangherato film non hanno altro scopo se non quello di provocare, negli spettatori più sprovveduti, qualche calda lacrimuccia del tutto innocua, basta poi una bella soffiata di naso e passa tutto, con mascherina chirurgica o meno.
Si va oltre la decenza soprattutto nella caratterizzazione del piccolino dell’agricola famigliola di una melensaggine senza alcun senso. Per caricare ancora di più la figuretta dell’eroico bambino gli viene associato anche un problema cardiaco con tanto di spiegone del primario luminare e guarigione miracolosa.
Il sospetto è che il film prodotto da Brad Pitt sia un pappone predigerito hollywoodiano che sfrutta la recente notorietà del cinema coreano (Hallyu la nuova onda) dovuta alle celebrazioni del suo centenario e alla performance dello scorso anno del pluripremiato Parasite di Bong Jon Ho. Il risultato è stata la candidatura a ben sei premi Oscar di cui solo uno è andato a buon fine, il più immeritato della storia del cinema americano.
Si conferma così del tutto fasulla la nuova tanto decantata ondata del politicaly correct degli USA che, in teoria, vogliono mettere in scena il rispetto per tutte le culture, dimostrando in modo ottuso e imperialista che tutti vogliono assomigliare agli americani. Il colore della pelle può anche essere diverso ma l’American Way of life deve essere l’unico modello d’ispirazione. Niente di nuovo sotto il sole, la solita protervia a stelle e strisce, la solita fuffa sul sogno americano, questa volta condito da una sapida salsa coreana.
Qualcuno ha scritto che Minari è un film lieve e leggero e perfino soave per il modo in cui tratta argomenti a volte molto delicati e dolorosi. In realtà, si tratta, più precisamente, di una pellicola dal fiato corto con uno sguardo sulla realtà superficiale e reticente, non distratto o ingenuo, ma volutamente poco approfondito e perfino omertoso quasi si rifiutasse di guardare fino in fondo l’autentica cloaca che scoperchia.
Basta vedere come viene trattato il lavoro massacrante di sessatori di pulcini con il quale gli adulti della famiglia sono riusciti a sbarcare il lunario e dopo anni di sacrifici a comprarsi venti ettari della miglior terra da coltivare d’America.
E’ piuttosto insopportabile la rappresentazione nella pellicola di tanti poveri operai come se si trovassero ad un ricevimento per il the, tra chiacchiere e sorrisi, invece che in un luogo di sfruttamento terribile e abietto:
“Il procedimento di sessaggio, messo a punto da due esperti giapponesi nel 1933, consiste nel prendere i pulcini uno per uno. e con grande attenzione. premere certe parti dell’addome fino a che non hanno defecato. Solo in questo modo potremo essere sicuri che la loro cloaca sia pienamente visibile. Osservando la cavità si va in cerca di un piccolo bozzolo che indica che il pulcino è di sesso maschile. Viceversa sarà femmina.”
Negli allevamenti intensivi si lasciano in vita solo le femmine che hanno un ritmo d’accrescimento ponderale più rapido, i pulcini maschi finiscono direttamente nell’inceneritore spesso ancora vivi. Su YouTube non è difficile trovare eloquenti video sulle mostruose condizioni di vita di quegli esseri negli allevamenti intensivi e non serve essere animalisti per condannarli. Nel film tutto viene risolto attraverso un dimenticabile dialogo tra padre e figlio piccolo: “Papà che cos’è quel fumo che esce dalla ciminiera? – Sono i pulcini inceneriti, i maschietti qui servono a poco, quindi noi due dobbiamo comportarci bene!”
Spoiler compresi analizziamo ora alcuni degli svarioni della famigerata pellicola. Nella prima sequenza si vede un grosso camion dei traslochi seguito da una mamma con due figli al seguito. La carovana termina nei pressi di una sgangherata casa mobile su ruote nel mezzo della solitaria campagna americana. La famiglia di origine coreana si trasferisce dalla caotica California alla ridente e desolata campagna dell’Arkansas per coltivare ortaggi asiatici.
La moglie del Pater familias è piuttosto contrariata perché è stata costretta a lasciare repentinamente quella “normalità” che aveva appena guadagnato dopo essere immigrata dalla Corea qualche anno prima; ad uno sradicamento ne è dunque seguito subito un altro. Da un successivo dialogo apprendiamo quasi sgomenti che è il 1983 in piena Guerra fredda e sotto la diabolica amministrazione Ronald Reagan “ che vuole la felicità degli agricoltori americani”
La donna non si lascia illudere dalle facili promesse e lusinghe e dice piuttosto acida al marito: “Se questo è il nuovo inizio che volevi, non c’è futuro per noi”.Gli eventi la costringeranno ad adattarsi. Il marito, per costringerla a restare, le permette di far arrivare la propria madre direttamente dalla Corea così che possa aiutarla nelle faccende di casa che trascura a causa dell’impegno nell’allevamento. Della famiglia fa parte anche una ragazzina adolescente, talmente trascurata in sceneggiatura da non meritare quasi citazione.
Minari, visto dalla giusta prospettiva, è un film profondamente maschilista, nel quale lo sforzo eroico del Padre padrone con gli occhi a mandorla finisce per prevalere e vanificare quello degli altri. Alla sua ambizione di imprenditore agroalimentare la moglie è costretta a sacrificare ogni suo desiderio. Dalla California dove la coppia ha lavorato per anni in semi-schiavitù negli allevamenti avicoli, alla desolata profonda campagna della Bible Belt, tra contadini rozzi, solitari e superstiziosi.
Fa specie il fatto che la famiglia si sia trasferita in uno stato segregazionista degli Usa, tra le cui tristi vicende si ricorda quella dei Little Rock Nine, nove studenti universitari afroamericani al centro di uno scandalo razzista del tutto discriminatorio ai loro danni nel 1957. Ancora più indietro nel tempo la strage di Elaine del 1919 durante la quale vennero linciati 237 braccianti neri dagli agricoltori bianchi. Oggi in quelle “ridenti e soleggiate” campagne furoreggia il suprematismo del White Power, la setta Quanon, il Trumpismo più becero e un “cordiale” cripto-neo-nazismo.
Al contrario, nel film gli abitanti del profondo Arkansas rurale degli anni ‘80 vengono rappresentati come tolleranti, accoglienti, inclusivi e bonari con gli asiatici. In tutta la pellicola non vi è il minimo accenno di xenofobia o di razzismo. La famigliola coreana viene accolta ovunque a braccia aperta dai paciosi Rednecks, in sequenze talmente inverosimili, cui nemmeno il regista sembra credere fino in fondo. Tra questi ultimi, il più finto e irreale è di certo Paul (Will Patton) un reduce della guerra di Corea con il cervello a pezzi, superstizioso e maldestro come un gatto nero napoletano. In una riprovevole sequenza, lo si vede trascinare lungo una strada polverosa come un penitente fanatico una grande croce di legno massiccio.
Un altro passaggio particolarmente lacrimevole, sdolcinato e melenso, è quello nel quale si vede la nonnina, di cui dicevamo più sopra, disfare i bagagli poco dopo il suo arrivo direttamente dalla Corea nella precaria casa della famigliola. Si è portata in valigia molti preziosi prodotti alimentari dalla patria avita come fanno tutti gli immigrati da che mondo è mondo, come Totò e Peppino a Milano con gli spaghetti come bagaglio. La figlia giubila e piange sapide lacrime davanti a sua maestà il peperoncino piccante, essenziale per la preparazione della verza fermentata Kimchi, quintessenza dello spirito coreano, vera ossessione alimentare per quel popolo che ne consuma in media annualmente 1,85 milioni di tonnellate (circa 38 chilogrammi per abitante).
Altro preparato medicinale che la vecchia megera ha portato in valigia è quello ricavato da fagioli mung e corna di cervo tritate in soluzione, tradizionale panacea di tutti i mali. L’orrendo bibitone viene fatto sorbire al piccolo della famiglia per i suoi problemi di enuresi notturna che si vendica nel modo più crudele e consono.
Sapendo che la nonnina è diventata subito ghiotta dell’americanissima bibita frizzante Mountain Dew (Rugiada di montagna) dal classico colore paglierino, lo spiritoso infante senza farsi vedere riempie il bicchiere della nonna della propria “rugiada giallina” direttamente dalla “spina”. Qualche tiepida risata in sala ha sottolineato la scena degna del più becero cinepanettone alla Boldi-DeSica. Nel prosieguo sarà la nonna stessa a bagnare il letto a causa di un ictus che malauguratamente la colpisce e non ci sarà proprio più niente da ridere,
In mezzo a tutta la grazia di dio che la vecchia si è portata dall’Asia, nella valigia hanno trovato posto anche i semi del Minari, l’onnipresente prezzemolo utilizzato nella cucina coreana dal particolarissimo sapore che per il palato degli occidentali è del tutto insostenibile. La nonna e il nipotino li piantano sulle sponde di un vicino ruscello. Nei dialoghi del film si dice: “E’ un’erbaccia come tutte le altre, cresce ovunque” con una tormentata metafora che allude al destino di ogni immigrato. Un serpente tra le fresche frasche preannuncia in una sequenza del tutto “telefonata” future disgrazie.
Proprio il ruscello è alla base di un vistoso buco di sceneggiatura che pochi sembrano aver notato.
Per tutto il film, il cruccio più grande del Novello orticoltore coreano, padre di famiglia, è l’irrigazione delle proprie coltivazioni. Dopo aver rifiutato i servigi di un rabdomante, scava un profondo pozzo che però subito si secca minacciando di mandare in malora tutto il raccolto.
La pensata geniale dell’improvvisato zappatore è di collegare abusivamente l’impianto d’irrigazione all’acquedotto pubblico. Forse sarebbe stato più intelligente e molto più semplice utilizzare l’acqua del ruscello, di certo più a buon mercato. E’ uno di quei particolari che insinua il sospetto che chi ha scritto la sceneggiatura creda che gli ortaggi nascano direttamente nelle cassette al banco del supermercato.
Dopo mille traversie il protagonista trova in città un compratore per il suo raccolto di verze e melanzane, ma sfortuna vuole che tutto vada a fuoco per colpa della maldestra perfida vecchietta che l’aneurisma ha, purtroppo, trasformato in zombi malamente deambulante (The Walking Dead).
Il sottofinale pastorale del film suggerisce che i coreani salveranno “capra e cavoli”, vendendo l’erbaccia Minari che nel frattempo è cresciuta rigogliosa sulle sponde del ruscello. E vissero felici e contenti per il resto della vita a coltivare le melanzane oblunghe e verze coreane.
Il risultato complessivo è quello di una pellicola fasulla dal primo all’ultimo fotogramma, mal concepita e congeniata, recitata peggio. Un velo pietoso va steso anche sull’inconsistente colonna sonora del giovane compositore, belloccio e molto indie-rock, Emile Mosseri. E’ proprio il caso di dire: “Braccia strappate all’agricoltura” Le autentiche sofferenze, lo sradicamento e gli altri gravi traumi psicologici delle famiglie di migranti, in ogni parte del mondo, purtroppo, restano tutt’altra cosa. Pessimismo e fastidio.
© Flaviano Bosco per instArt