“Saying no but meaning yes/
This is all I ever meant/
That’s the message that I send.”
Un pregevole lavoro d’erudizione arricchisce il non vastissimo orizzonte dei contributi critici italiani alla comprensione e all’analisi dell’opera del più grande artista visuale dell’ultimo secolo: David Bowie.
Damiano Cantone e Tiberio Snaidero con il loro testo scritto a quattro mani per i tipi della prestigiosa Meltemi (Gruppo Mimesis) segnano un deciso salto di qualità interpretativo e scientifico in quel preciso contesto. Sarà possibile d’ora in poi lasciarsi alle spalle la mera apologetica da rotocalco, il fan service e in generale la chiacchiera e il pettegolezzo adolescenziali per cominciare un’autentica esegesi che una complessa opera d’arte lunga un’intera esistenza come quella che ci ha lasciato in eredità Bowie necessita e si merita. Diffusa e disseminata, distesa su cinque decenni a cavallo di due secoli, proteica e arborescente con pochi paragoni, l’attività artistica del Duca Bianco è stata assolutamente multiforme e a stento catalogabile, di certo non musealizzabile nè riassumibile in forme prefissate o troppo rigide anche se una famosa mostra di qualche anno fa fece ogni sforzo possibile per riuscirci (“David Bowie is” in realtà può essere considerata quasi come una sua ennesima performance postrema: The Artist in his absence)
Il testo di Cantone e Snaidero sgombra il campo dalle interpretazioni scandalistiche e superficiali e nel fiore delle sue cinquanta tesi spinge in profondità il pedale della riflessione accostando la creatività del signor David Jones a molte delle sue propaggini. Il libro ci presenta l’arcipelago Bowie accompagnandoci lungo le sue 240 pagine in un periplo, un reale Fantastic Voyage, quasi un folle volo che precipita il lettore, in tutta sicurezza, nella vertigine della lista delle innumerevoli metamorfosi dell’epifenomeno David Bowie sia come oggetto di meraviglia, sia come evento degno di osservazione.
L’alieno che cadde sulla terra Bowie ha saputo diventare aracnide (Heteropoda davidbowie, un ragno malese cui è stato dato il suo nome), asteroide (342843 Davidbowie), perfino costellazione (l’osservatorio astronomico belga Mira ha individuato sette stelle che formano un fulmine), un manichino vestito da astronauta (Major Tom) sta guidando una Tesla Roadster elettrica color ciliegia nello spazio profondo alle volte di Marte sulle note di Space Oddity (Elon Musk, Space X) e poi naturalmente Blackstar, il buco nero che inghiotte lo spazio tempo.
La pretesa casualità e disorganicità delle cinquanta prospettive attraverso le quali gli autori cercano di tracciare i contorni dell’insondabile siderale meraviglia dell’astro Bowie si rivelano immediatamente come una solida equilibrata esegesi che nulla lascia al caso anche quando nell’ottima introduzione metodologica si afferma che la scelta non è stata volontaria ma “fatta attraverso un software di generazione casuale di sequenze numeriche”. La successione delle voci dunque è quello che è, e lo rivendichiamo ma avrebbe potuto essere qualunque altra.” Un programma che sembra parente del Verbasizer, utilizzato da Bowie nel 1995 per comporre uno dei suoi capolavori, e poi alle potenzialità creative dell’internet provider BowieNet.
Sappiamo bene che alla base di tali procedimenti c’è il cut up di Tristan Tzara, rivisto da Byron Gisin e portato alle sue estreme conseguenze da William S. Burroughs. Tagliare e riassemblare testi, immagini, suoni non ci esime per nulla dalla scelta e dalla volontà della forza dell’artista, anzi, al contrario la rende ancora più determinante, nemmeno l’arte dello sparo ha effetti del tutto casuali. Burroughs all’aperto sparava con il suo shotgun contro barattoli di vernice di vari colori, i pallettoni e gli schizzi finivano su vecchi infissi e porte di legno. Opere d’arte di tal fatta certo servono a spezzare, problematizzare, scomporre alcune rigide norme della produzione creativa ma non le annullano proprio per niente, le mettono in bella evidenza facendoci scoprire che il linguaggio è un virus dallo spazio profondo (language is a virus from outher space) proprio come diceva Burroughs e che la bellezza è cosa rara.
Per tutto questo appare evidente che le cinquanta proposizioni escludano a priori alcuni argomenti che ne potrebbero minare alle fondamenta l’impianto e contraddire le premesse: esiste un enigma da decifrare, dietro porte chiuse e noi vi forniamo alcune sicure chiavi per decifrarlo.
Di certo alcuni di questi percorsi sono assolutamente condivisibili, ricchi di suggestioni. Meritevole di ulteriori approfondimenti è quello che inizia da pag 148 alla voce “Transmedialità: Bowie pensava a se stesso come ad un narratore in senso lato, i cui personaggi venissero resi attraverso operazioni di scrittura multimediale comprendenti musica, moda, trucco, performance, fotografia, video. Il suo approccio transmediale alle arti è la cartina al tornasole di una personalità camaleontica il cui obiettivo artistico era trovare, attraverso la sperimentazione (anche tecnologica), punti di mediazione tra cultura di massa e avanguardia.”
Affermazioni del tutto indiscutibili, peccato che fino ad ora non siano state mai stati approfonditi alcuni aspetti di questo suo approccio multiculturale che vengono ritenuti inessenziali o semplicemente errori giovanili o ancora side effects of the cocaine. I suoi anni di formazione giovanile nella Londra psichedelica vengono sempre del tutto evitati quando non tematizzati, l’influsso delle sperimentazioni di Daevid Allen, Soft Machine, Pink Floyd, vengono spesso considerate solamente come fascinazioni giovanili come molto del suo interesse per l’America del Flower Power. Paradossalmente si riconosce, senza approfondirlo, il suo debito nei confronti degli autori della Beat Generation ma poi tutto si dissolve nella psichedelia nera dei Velvet Underground, fondamentali di certo ma solo come tappa di un processo di involuzione di un genere.
Tutta la fascinazione per l’occultismo e per i testi del nazionalsocialismo magico ed esoterico a partire da quelli di Otto Rahn, esorcismi e manie conseguenti, vengono liquidati pazzie dovute ad una mente obnubilata dalla droga; errori di percorso. Così certi temi che già si prestano alle considerazioni da rotocalco vengono espunte dall’interpretazione del Codice Bowie da un provvidenziale software che fa in modo che tali questioni continuino a rimanere nel solito eterno limbo dell’approssimazione e dell’accenno più o meno velato. Così come i chiari riferimenti al pensiero della Gnosi, antica e cristiana, non fanno considerare adeguatamente percorsi iniziatici come quelli della dissimulazione e del “nascondimento” di ciò che si nega per affermarsi e che si manifesta celandosi nella propria tenebra di luce (Hans Jonas, Lo Gnosticismo, 1973).
Scritto a quattro mani, il volume alterna dotte dissertazioni filosofiche a preziosi, maniacali approfondimenti di carattere musicologico e, naturalmente, si rivolge ad appassionati con un’ottima ferratura nell’ambito dello Psycho Circus Bowiano. Gli approfondimenti sono davvero ottimi ma tra le sue pagine sarebbe inutile cercare una benché minima critica di qualunque tipo rivolta all’artista.
La figura che ne scaturisce è quella di un artista titanico, profeta della modernità, in grado di plasmare la direzione del proprio tempo “pro domo sua”. Mai un appunto, una macchia, nemmeno le famigerate White Stains. Niente sulla sofferenza di un uomo che per alcuni anni ha conservato la propria urina e che nell’ultimo tour finiva le proprie estenuanti performances vomitando in un secchio a bordo palco, a causa delle proprie condizioni di salute, dopo aver incantato per ore il pubblico.
Dalla piacevolissima lettura si esce indenni, soddisfatti, pasciuti, giocondi, senza il minimo dubbio sul genio assoluto di Bowie, un dato di fatto che di certo non si vuole minimamente intaccare, convinti però che le interpretazioni eccessivamente ologrammatiche non gli rendano, in fondo, nè giustizia, nè merito.
Bowie sapeva anche fallire nel modo più catastrofico e spettacolare possibile, trasformando le proprie miserie di uomo e di artista in autentiche nostalgie di naufragio. L’abuso di sostanze stupefacenti, i disturbi alimentari, gli stati nevrotici ossessivi, i disordini affettivi, la cupidigia sessuale, l’ingordigia finanziaria e via di seguito appaiono invece solo come vezzi oppure fiuto per gli affari.
Non è certo possibile, almeno in questo caso, tracciare un confine netto tra l’artista e l’uomo, tra i personaggi che interpretava e quello che era quando si toglieva anche l’ultima maschera e sappiamo bene che non è nemmeno pensabile. Poco fecondo è anche pensare che Bowie abbia sempre avuto, fin dall’inizio, una visione chiara e netta della propria carriera; il tragitto e le tappe del suo percorso di crescita e auto-realizzazione artistica, se abbiamo a volte un’impressione di linearità è perché Bowie fu abilissimo promoter di se stesso facendo in modo di nascondere, appianare, esaltare, cancellare, volta a volta, anche a posteriori, gli episodi incongrui o eccentrici rispetto all’ossatura della propria Mitobiografia proprio nel senso che lo psicologo Ernst Bernhard dava a questo processo.
Visto che in fondo Bowie era un musicista, si è scelto di concludere questa breve recensione con il testo di una sua canzone giovanile riemersa lo scorso anno fra le cosiddette The Mercury Demos registrate nell’appartamento del cantante nel 1969 che stava per diventare universalmente famoso con Space Oddity. Il brano è Love song ed è una cover di Lesley Duncan una cantautrice inglese con la quale Bowie ebbe modo di collaborare e di stringere “amicizia”, misconosciuta ai non addetti ai lavori ma di un certo rilievo nella musica rock, tra l’altro fu collaboratrice di Elton John e cantò come corista in Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. Eccone un estratto:
Le parole che ho da dire
possono essere semplici ma sono vere
…
L’amore è la porta di apertura
amore è quello per cui siamo venuti qui
Nessuno può offrire di più
Lo sai cosa voglio dire?
Hanno davvero visto i tuoi occhi?
…
Amore è la chiave che dobbiamo girare
La verità è la fiamma che dobbiamo imparare (bruciare)
La libertà è la lezione che dobbiamo imparare
Lo sai cosa voglio dire?
Dall’altro capo del proprio percorso artistico e umano Bowie ormai profeta cieco di una “stella spenta” ci dice:
In the villa of Ormen stands a solitary candle
At the centre of it all, your eyes, your eyes.
© Flaviano Bosco per instArt