Un concerto per flauto, clavicembalo e violoncello dedicato alla musica a Venezia nei primi decenni del Settecento è una cosa preziosa, dai colori vivaci, traslucidi come quelli di un raggio di sole che attraversa un vetro di Murano. La tradizione musicale veneziana è quanto di più strabiliante ci abbia lasciato quella città unica sospesa tra cielo e laguna. Anche il Friuli, al centro dell’antico Patriarcato di Aquileia, ne è stato partecipe ed è un vero viaggio nel tempo sentire quei suoni.

A rinsaldare quel legame ci hanno pensato un trio di valenti musicisti, Manuel Staropoli, Gioele Gusberti e Manuel Tomadin nella rassegna Musica in Villa 2020.

Il luogo non poteva essere più adatto: l’antica pieve matrice dedicata a Santa Maria a Pieve di Rosa di Camino al Tagliamento è una dei più antichi luoghi di culto del medio Friuli e si trova sulle rive del Tagliamento che l’ha nutrita ma anche ingiuriata nel corso dei secoli. La chiesa e l’abitato sono ancora nei pressi della strada romana che, guadando il fiume alle sue spalle, conduceva da Concordia Sagittaria al nord, più tardi detta strada d’Alemagna. Un territorio carico di storia, di fatiche e di miracoli come quello dell’icona della Beata Vergine e del bambino scampata alle alluvioni e poi ai bombardamenti della II Guerra Mondiale.

Dentro la chiesa scolpito nel marmo è stato scritto:

La millenaria Pieve di Rosa baluardo di fede e civiltà continua la sua missione di pace, unione e fraternità tra le genti friulane di cà e di là da l’aghe nel custodire la pia memoria di tutte le vittime travolte delle acque del Tagliamento”.

Era questo il secondo appuntamento della breve, significativa rassegna dedicata da Musica in Villa, all’interno del suo programma 2020, alla cultura e alla musiche del Patriarcato d’Aquileia. Niente più di un flauto è in grado di richiamare la nostra attenzione allo scivolare all’indietro degli anni su quelle acque che uniscono da sempre la “Terraferma” alla Serenissima.

Purtroppo qualcuno ancora oggi considera Venezia come la nemesi del Patriarcato non senza qualche ragione.

Si è voluto, però, celebrare il centenario della caduta del Patriarcato di Aquileia nel 1420 nel segno della catastrofe, come la fine di un sogno di carattere nazionalistico spezzato dall’invasore veneziano che avrebbe troncato una storia millenaria sottomettendo alle proprie brame i prodi friulani.

Pensare gli eventi storici in questo modo non è solo anacronistico e infantile ma, dopo quanto successo durante le guerre balcaniche degli anni ‘90, è persino criminale. Le rivendicazioni sul Kossovo nella mente distorta di alcuni nazionalisti ancora oggi fanno riferimento alla battaglia della Piana dei Merli (Kosovo Polje) dove si contrapposero turchi ottomani e una coalizione cristiana formata dagli eserciti del regno di Serbia, Bosnia, Albania, Cavalieri di Malta. Tutti questi si sacrificarono per fermare l’avanzata degli infedeli mussulmani nel 1389.

L’insistenza morbosa e distorta su certe ferite e cicatrici della storia, oltre che essere scientificamente infeconda perché ci impedisce di vedere gli accadimenti come fenomeni facenti parte di un processo che ha dinamiche proprie, porta inevitabilmente degli scompensi nelle menti più fragili che vengono indotte a pensare che per sconfiggere Satana sia necessario imbrattare le opere d’arte del museo di Pergamo a Berlino o che per difendere la santità intangibile del Profeta sia onorevole tagliare la testa ad un maestro di scuola; com’è successo proprio in questi giorni.

La musica ha la capacità di ricucire le ferite e lenire i dolori dimostrando con la sua universalità il nostro comune sentire. Proprio la tradizione del Patriarcato di Aquileia è espressione di una cultura plurale nella quale si incontravano i Latini, gli Slavi e i Germani e molti altri. Proprio la contaminazione, il plurilinguismo e la multi-culturalità sono sempre stati la forza e il fascino sia del Patriarcato, sia della Serenissima che lo fagocitò.

I musicisti della serata, introducendo i brani del programma di sala, hanno piacevolmente parlato dei loro strumenti, copie di quelli d’epoca per cui erano state scritte le pagine di musica che andavano eseguendo. Per quanto riguarda il flauto di Manuel Staropoli è facilmente intuibile la sua antichità che si perde nella notte dei tempi e nel mito. Per semplificare al massimo basti dire che in Europa a partire dal XIV sec. si imposero due principali modelli: il flauto dritto o dolce e il traverso (traversiere). Naturalmente ne esistevano di diverse grandezze e tonalità, tra quelli più noti e particolari, il flauto sopranino, flautino (flautin) o ancora flauto dolce piccolo ebbe il suo periodo di splendore a Venezia tra la fine del ‘600 e i primi trent’anni del ‘700 anche se la loro storia è di molto precedente. Silvestro Ganassi del Fontego (1492-1565) nel 1535 nella città della laguna diede alle stampe un “Opera intitulata Fontegara la quale insegna a sonare di flauto chon tutta l’arte opportuna ad esso instrumento massime il diminuire il quale sarà utile ad ogni instrumento di fiato et chorde: et anchora a chi si dileta di canto”.

Flauto traversiere, nonno del flauto traverso in metallo attuale. Ha un suono caldo e sognante che fa respirare i secoli; difficile immaginarlo in un’altra dimensione che quella Serenissima. Non c’è da stupirsi se tutta l’Europa di allora guardava a Venezia come ad un riferimento culturale imprescindibile. Per quanto riguarda la musica, per esempio, tutta la famiglia Bach attinse a piene mani alla sua tradizione. Manuel Staropoli tiene i suoi flauti al caldo sotto la giacca come una chioccia i suoi pulcini sotto l’ala.

-Sonata VIII in la minore per flautino e basso continuo di Benedetto Giacomo Marcello (1686-1739)

Bastano le prime note perché subito si crei quell’atmosfera di levigata, luminosa bellezza che quell’anima gaia di Benedetto Marcello sapeva trasmettere nelle sue composizioni. Scrisse più di trecento cantate e centinaia di altre opere molto spesso del tutto ignorate. La sua verve non si esaurì solo con la musica ma compose anche un divertente pamphlet satirico (Il teatro alla moda) sui vizi di produttori, impresari di spettacolo, compositori e leggiadre cantanti del suo tempo. Il risultato è a volte grottesco ma ancora piacevolmente attuale. Tra le ironiche raccomandazioni agli impresari di spettacolo dice:”Non dovrà l’impresario moderno possedere notizia veruna delle cose appartenenti al teatro, non intendendosi punto di Musica, di Poesia, di Pittura, etc”

È la volta di Manuel Tomadin di presentare il suo strumento. Il clavicembalo su cui suona è una copia di Giovan Battista Giusti del 1679 costruito dalla ditta Bizzi di Varese tra le migliori del mondo per ricreare gli strumenti storici a tastiera. Nella parte interna del coperchio della cassa armonica c’è una scena arcadica di Trastevere con tanto di porto fluviale e rovine. Il clavicembalo appare per la prima volta in Borgogna nel XIV sec.; il suo particolare suono è prodotto da un calamo (beccuccio) originariamente ricavato da una penna di corvo che, inserito in un particolare meccanismo (salterello), pizzica una o più corde per produrre una nota. La corda non viene quindi percossa da un martelletto ma fatta vibrare da una specie di plettro.

Concerto VI delle Stravaganze in re minore di Antonio Vivaldi dal manoscritto “Anne Dawson’s Book (1720) riesce ad esprimere tutta la forza gentile e l’ispirata grazia di cui è capace il clavicembalo che sa essere irruento ma che conserva sempre un suono alato e leggero

Il clavicembalo è uno strumento che sembra parlarci da un altro tempo ed avere poco a che fare con noi, basta però un minimo d’attenzione per ritrovarsi proiettati, in questo caso, in un dipinto di Pietro Longhi e assaporare le nuvole barocche fuori e dentro di noi.

Gioele Gusberti, presentando il proprio strumento di antica foggia copia di un violoncello di Giovanni Battista Guadagnini (1711-1786), si è soffermato su un particolare molto singolare che spesso si dimentica quando si parla di esecuzioni filologiche, di musica antica o barocca. Infatti, allora non esistevano corde di metallo e tanto meno di materiali sintetici. Quelle che venivano fatte vibrare negli strumenti a corda, in genere, erano in minugia, ossia budellini d’animale, di solito ovini per le accordature più raffinate e interiora di bovini per quelle più comuni; tagliate o integre venivano ritorte e tese; verso il XVII sec. a Bologna si cominciarono a produrre corde in minugia, rivestite di una sottilissima lamina d’argento che le rendeva più resistenti e sottili. (www.cordedrago.it).

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Per le Etimologie di Isidoro di Siviglia le corde hanno a che fare con la natura ritmica della musica. Il riferimento generale è la cetra latina (Citharae) strumento archetipico che riproduce il petto dell’uomo. Le corde (chordae) derivano da cuore (corde) “perché il colpo sulla corda della cetra è come il battito del cuore nel petto”. Il violoncello è uno degli strumenti simbolo della musica veneziana ma viene da lontano e possiamo considerarlo uno degli eredi più raffinati dell’antica cetra.

Tra i grandi virtuosi violoncellisti d’epoca barocca si ricorda Antonio Vandini (1690-1778) amico del violinista e compositore Giuseppe Tartini, che suonò anche per Antonio Vivaldi che scrisse 27 concerti per violoncello forse anche ispirandosi a lui.

Sonata duodecima in re minore per flauto e basso continuo è di Paolo Benedetto Bellinzani (1690-1757) Maestro di cappella della cattedrale del Duomo di Udine che ci ha lasciato un patrimonio cospicuo di splendide composizioni che solo raramente vengono eseguite, spesso più per pigrizia dei “direttori artistici e degli addetti alla cultura” che per scarso interesse del pubblico o degli stessi musicisti. Si pensa che solo i grandi nomi attirino la gente agli spettacoli mentre nella maggior parte dei casi quello che guida verso un concerto o un altro è la volontà di scoprire nuovi universi musicali.

Il brano di Bellinzani, accostato a quelli ben più noti che lo avevano preceduto nella scaletta del concerto di Pieve di Rosa, non ha di certo sfigurato e si è dimostrato al contrario vivace, cristallino, divertente. Scoprire che a Udine e in Friuli si suonava e commissionava allora tali meraviglie regala splendide emozioni. Forse l’amministrazione della cosa pubblica invece di perdersi nel vuoto di tanti revanchismi patriarchini potrebbe occuparsi di valorizzare il genio di un grande autentico “friulano”.

Durante il concerto sono stati eseguiti anche la Sonata prima in re maggiore per flauto traverso e basso continuo di Giovanni Benedetto Platti (1690-1763) e il Concerto in re min accomodato per flauto e Cembalo obbligato di Antonio Vivaldi (1678-1741).

Il bis è una ciaccona dalle 12 sonate di Benedetto Marcello che fa parte di un Cd inciso dal trio; è un antico ballo particolarmente vivace che sa essere perfino irruento e vigoroso nel suo incedere, come una barca a vela che fila liscia sull’acqua spinta dalla brezza.

Ultime note sullo scampanio della torre.

© Flaviano Bosco per instArt