A dirla tutta, alle Giornate 2020 è mancato il grande capolavoro epocale, il monumento irrinunciabile della storia del cinema, la pietra miliare indimenticabile. Ed è paradossalmente, una cosa positiva. Non avendo l’affanno del botteghino, degli accrediti e del grande pubblico, il festival, pur dovendo rinunciare a gran parte del programma tradizionale, ha potuto concentrarsi su relativamente pochi film, magari poco noti, ognuno dei quali aveva però qualcosa di interessante e meritava di essere visto con grande attenzione.
Può sembrare strano ma, molto spesso, non si guarda una pellicola concepita e realizzata per gli spettatori di cento anni fa solo per divertimento; in molti casi il vero interesse è per l’archeologia dell’immagine e perché quei film ci permettono di aprire un varco temporale che ci fa sbirciare dentro una realtà totalmente altra, sia per quanto riguarda la narrazione delle vicende sia soprattutto per le ambientazioni e per le riprese in esterni.
D’un tratto ci troviamo stupefatti di fronte ad un mondo che non esiste più da decenni, trasformato dagli eventi, cancellato dalla storia. Eppure quei passanti, tutti scomparsi da tempo, che, con stupore e interesse guardano in macchina, sembra che ci scorgano dal secolo passato, ci guardano dritti in faccia.
La macchina da presa, in questo senso, fotografa il presente ma lo fa per il futuro che scorre davanti l’obiettivo. Le immagini sono sempre passate, ma lo sguardo è puntato sempre su ciò che sarà.
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Toodles, Tom and trouble (Thanhouser film Co, Us 1915) di Lloyd Lonergram
Accompagnamento musicale di Philip Carli.
Ops! Mi sono perso la bambina! È questo, in estrema sintesi, il plot narrativo di questo divertente corto. Le donne di casa di una famiglia borghese devono andare a far compere. Affidano la neonata al distratto papà che se ne va al parchetto per trovare un amico e lascia sola la piccola su una panchina. La bambina viene fortuitamente sostituta da una bambola afferrata da un veloce cagnone. Lo sconvolto genitore che crede trattarsi della figlia e non di un pupazzo, rincorre l’animale ovunque senza mai riuscire a prenderlo. Quando, dopo un estenuante inseguimento pieno di salti, capitomboli, discese a precipizio, cadute e pazzie varie, il disperato papà sembra quasi riuscito a salvare quella che crede essere la sua piccola, il cane con la bambola in bocca esplodono letteralmente in mille pezzi a causa di un ordigno da cava, in una sequenza di brutale crudeltà contro gli animali impensabile nel cinema contemporaneo. Sembra che la tragedia si sia compiuta quando allo sgomento genitore viene restituita la bambina sana e salva che un passante aveva creduto abbandonata a bella posta sulla fatidica panchina. Svelato il “busillis” dello scambio, senza che si siano accorte dello scampato pericolo, le “donne di casa” ritornano dallo shopping facendo i complimenti allo sconclusionato papà per la cura con cui si è occupato della bambina. Divertente ma inquietante, tutto azione a rotta di collo. Ricorda vagamente The Adventures of Dollie di David W. Griffith (1908) che però è molto più sensato e intenso.
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Where Lights are low (Il principe T’Su) di Colin Campbell, Us 1921, 68
Accompagnamento musicale di Philip Carli
Sessue Hayakawa, l’attore giapponese più famoso dell’epoca del muto interpreta un giovane principe cinese che si reca negli Stati Uniti per studiare all’Università. In patria non ha potuto avverare il proprio sogno d’amore con una bella popolana per la differenza d’estrazione sociale. Si sono promessi che, dopo gli studi, lui sarebbe tornato e l’avrebbe sposata in ogni caso. Si accorge però che la propria promessa sposa è stata rapita e rivenduta come schiava nella Cinatown di San Francisco proprio dove lui si è trasferito. Non potendo momentaneamente accedere alle proprie ricchezze, per trovare i soldi necessari per riscattare l’amata si vede costretto ad accettare qualunque miserabile occupazione. Dopo una serie di disavventure la coppia si riunisce e tutto si risolve nel migliore dei modi. La sceneggiatura è di certo banale e ricolma di stereotipi piuttosto fastidiosi per un film in costume tutto sommato dimenticabile. Fa un certo effetto però vedere che la rappresentazione cinematografica degli immigrati cinesi e delle loro comunità negli Stati Uniti nel secolo scorso non è troppo lontana negli aspetti più volgari e beceri a quella contemporanea italiana e non c’è proprio da esserne fieri.
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Ceske Hrady a Zamky (Castelli e palazzi boemi) (Cs 1916)
Accompagnamento musicale di Gunter A. Buchwald, Frank Bockius
Idillio a Karlstein. Lui e lei che amoreggiano tranquilli e felici in un amena località montana della boemia tra la foresta e un magnifico castello “arrampicato” su una cima. Su un quotidiano lui, che è un famoso attore, legge la notizia che da lì a poche ore sarebbe andato in scena a Praga e se ne era completamente dimenticato. Molla tutto e parte in una forsennata corsa per coprire i sessanta chilometri che lo separano da Praga. Corre a perdifiato, minaccia un automobilista, salta in macchina, fa un incidente, ruba una bici, riparte e poi ancora un motoscafo, un tram mentre le persone che ha derubato dei mezzi lo inseguono. Arrivato a Praga gli resta pochissimo tempo prima d’entrare in scena, si arrampica sui tetti, sempre con gli inseguitori alla calcagna fino a quando questi cadono nel vuoto mentre lui li guarda beffardo seduto su un alto comignolo. Una sequenza piuttosto inquietante. Dal tetto lo vediamo calarsi direttamente sul palcoscenico. La cosa più interessante di questo breve film sono le immagini spericolate così come il montaggio, ma soprattutto che veniva mostrato davvero in teatro prima dello spettacolo dell’attore protagonista per dare un brivido in più al pubblico.
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La tempesta in un cranio (Kill or cure) di Carlo Campogalliani, It 1921, 70’
Accompagnamento musicale di Gunter A. Buchwald, Frank Bockius.
Avventure paradossali in quattro atti tratti dal romanzo Tempesta in un cranio di Alfredo Ariberti. Romanzo igienico-curativo contro la nevrastenia, C. Campogalliani & C Editori. Così si dice nell’esergo mettendo in bella evidenza anche la copertina del fantomatico libro che in realtà non esiste. E’ un espediente cinematografico meta-narrativo di vaga derivazione psicoanalitica. Il grande pregio del film è quello di riflettere una certa temperie culturale dell’epoca che vedeva il primo graduale diffondersi della nuova psichiatria e della terapia psicoanalitica nella borghesia italiana con il solito cronico ritardo rispetto agli altri paesi europei. Nello stesso anno fu pubblicato il primo romanzo ispirato alle nuove intuizioni del dott. Freud, La coscienza di Zeno che passò quasi del tutto inosservato e ancor meno letto ma che in ogni caso segna l’inizio di una riflessione sul nuovo rapporto tra l’individuo e la propria psiche e il mondo dell’arte e della letteratura. Pochi anni dopo, Luigi Pirandello diede alle stampe Uno, nessuno, centomila (1926) che sul tema della nevrosi e dell’identità costruirà pagine memorabili. Renato De Rubertis, il protagonista del film è un nobile ricchissimo e sfaccendato con una profonda depressione causata dal fatto che tra i suoi avi serpeggiava il seme della follia. Si sente condannato e passa il proprio tempo a compiangersi e a leggere libri “maledetti” come: Max Schiefter, Pazzie ereditarie e Artur Fielding, Atavismo nella Pazzia. Anche questi del tutto fittizzi che però richiamano la trattatistica di stampo lombrosiano che stava per venire spazzata via dalla nuova scienza dell’inconscio. Infatti, medici e amici consigliano a De Rubertis di chiudere i libri e di fare un po’ di attività fisica per distrarsi, nutrirsi con gusto e godersi un po’ la vita. Sembrano consigli semplici e banali ma testimoniano di una nuova sensibilità verso le sofferenze psicologiche. Le “cure” però non hanno effetto così un amico romanziere in cerca d’ispirazione s’inventa un autentico psicodramma per curare il depresso. Si organizza con tutti gli amici per fare in modo che De Rubertis sia ridotto sul lastrico, fino a diventare un vagabondo disperato e perseguitato. Lo coinvolgono in una serie di disavventure alla quale è costretto a reagire e a farsi tornare la voglia di vivere ed amare. Tutto molto rocambolesco e con un montaggio molto ritmato. Nel finale tutto si risolve e si svela e vissero felici e contenti. Quello che sembra un semplice intreccio se guardato secondo la giusta prospettiva, diventa un documento testimonianza di una trasformazione sociale, scientifico e culturale cruciale. In alcune sequenze si vede un inventore con il suo brevetto fantascientifico: un foto-telefono cinematografico che permette di fare delle videochiamate. Non ci siamo inventati nulla.
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Oi Apachides ton Athinon (Gli Apache di Atene) di Dimitrios Gaziades, Gr 1930, 92’
Orchestra Radiofonica Nazionale Ellenica
A dispetto del titolo non è per niente un paleo-western europeo antesignano dei capolavori di Sergio Leone con la frontiera americana reinterpretata nei Balcani o in Tessaglia. Con il termine Apaches s’intendevano gli sfaccendati giovinastri scansafatiche delle metropoli europee che formavano delle bande di selvaggi gaudenti più o meno avvinazzati.
Il protagonista della vicenda è Petros Lambetis, un giovane povero di poche belle speranze detto il “principe” per il suo modo di atteggiarsi e di vestirsi da gentiluomo pur avendo le toppe ai pantaloni e non riuscendo a conciliare il pranzo con la cena. Sul muro della cadente camera in affitto nella quale sopravvive senza pagare la pigione, si vede chiaramente, in molte inquadrature, una locandina strappata da chissà dove con l’immagine del santo patrono di ogni poveraccio, vagabondo: Charlie Chaplin nei panni di Charlot.
Petros vive nel quartiere popolare e miserabile di Plaka nel centro di Atene e lì cerca di sbarcare il lunario con i suoi compagni di merende e sbevazzate. Davvero eccezionali le riprese in esterni del film girate in modo assolutamente neorealistico nel vero quartiere, tra la gente, nei vicoli, tra le baracche e la miseria vera sul quale si stagliano le vicende dei personaggi. Il pensiero va immediatamente alle borgate romane di Pasolini e ai suoi accattoni. Una battaglia a colpi di pietra tra bande di ragazzi di strada, sporchi e logori in mezzo alle case dai muri sbrecciati diventa quasi un simbolo di un’epoca e di una condizione. L’intreccio prevede anche un amore impossibile tra il povero “principe” e la giovane “principessa” figlia del riccastro di turno. Un equivoco convince la ricca famiglia della trepida pulzella che Petros sia davvero di sangue blu e milionario. Una serie di gag spesso esilaranti rivela la vera condizione del pretendente che viene cacciato con ignominia. Proprio allora l’accattone riceve una grossa eredità dal proverbiale zio d’America (in realtà canadese), sposa la piccola, povera fioraia che l’ha sempre amato e si trasferisce a fare la vita da nababbo nella grande villa che si compra. Una commedia nazional popolare dal lieto finale consolatorio per far sognare il popolo miserabile sul benessere che gli sarà sempre precluso. La vera bellezza della pellicola sta nello scenario reale della città di cui accennavamo e nella colonna sonora con canzoni popolari che inneggiano al vino e all’amore e spesso vengono suonate diegeticamente da veri musicisti di strada o da orchestrine da osteria. La straordinaria colonna sonora ha ricostruito le vere canzoni d’epoca per un commento sonoro veramente appropriato.
Il direttore delle Giornate Jay Weissenberg ha parlato in una delle sue deliziose introduzioni al festival del libro di Xavier de Maistre, Viaggio intorno alla mia stanza come ispiratore del viaggio ideale attorno al mondo fatto con il cinema durante questa edizione limitata del festival che ognuno ha dovuto vedersi, per forza di cose, in poltrona o nell’agio delle proprie case approfittando dello streaming in mancanza d’altro.
La condizione d’arresti domiciliari che permise all’autore di scrivere il suo celebre testo non fu tanto diversa dalla nostra, segregati in casa a causa del lockdown. De Maistre fu costretto nella propria abitazione di Aosta per 42 giorni a causa di un duello per questioni d’onore.
Chiuso nella propria camera si dedicò ad una delle attività umane più nobili e ingiustamente denigrate: l’ozio. Naturalmente non quello insensato di Oblomov, il personaggio letterario di A. Goncarov, ma piuttosto quell’Otium litteratum dei Latini, spazio ideale per la riflessione e per le occupazioni creative e concettuali:
“Dopo la poltrona, procedendo verso il nord, si scopre il letto, che è disposto in fondo alla stanza, e crea la più gradevole delle prospettive. E’ disposto nel modo più felice: i primi raggi del sole vengono a trastullarsi sulle cortine. Nelle belle giornate d’estate, li vedo avanzare lungo la parete bianca, man mano che si alza il sole: gli olmi che stanno davanti alla mia finestra li rifrangono in mille modi, e li fanno ondeggiare sul letto color di rosa e bianco, che diffonde dappertutto una luce incantevole nata dal loro riverbero. Sento il garrire confuso delle rondini che si sono impossessate del tetto di casa, il cinguettio degli altri uccelli che abitano negli olmi; allora mille idee ridenti colmano il mio spirito; e nell’universo intero, nessuno ha un risveglio altrettanto piacevole e tranquillo del mio”.
Tutto questo è in realtà solo un modo forbito e contorto per dire che, pur rimpiangendo le proiezioni in teatro e l’atmosfera di Pordenone, è stato molto bello starsene comodamente seduti in poltrona a guardarci gli straordinari film delle Giornate sui nostri schermi… (to be continued)
© Flaviano Bosco per instArt