Tutti sanno bene che la terza cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri è dedicata alla luce della beatitudine, al canto e alla danza gioiosa delle anime, ad una vera e propria, testuale “rappresentazione” ad uso del Poeta dello splendore della grazia del Creatore. Tutto in chiaro scuro è stata invece la messa in scena che ha aperto stagione autunnale del Teatro Giovanni da Udine, e non è sembrata una precisa scelta drammaturgica quanto una sua assenza.
Se l’idea era quella di cominciare a celebrare l’anniversario dantesco avvicinando il grande pubblico al testo e alla lettera della Commedia, il risultato è stato ottenuto solo in minima parte e non è certo bastata la lettura di alcuni versi dell’ottima traduzione in friulano delle terzine dedicate alla Vergine per garantire l’obiettivo. Hanno giovato parecchio anche le parti musicali interpretate dallo scenografico Coro Polifonico di Ruda diretto muscolarmente e sempre con sovrabbondante energia dalla capace Maestra Fabiana Noro.
Appena calano le luci in sala sul numeroso pubblico, rigorosamente scannerizzato e controllato secondo i protocolli più rigidi, nella piena oscurità, i cantori fanno il loro ingresso e si dispongono sul palcoscenico come un muro umano nell’ombra; visto che non è prevista scenografia, sono loro il fondale. Sul proscenio due leggii, tra loro e il pubblico una rete finissima trasparente che garantisce un effetto di profondità e di mistero alla scena. Davanti alle loro postazioni prendono posto Giuseppe Bevilacqua e Serena Costalunga che hanno avuto il compito con le loro voci di condurre il pubblico nelle meraviglie estatiche del Paradiso.
Durante “Dire del Paradiso – presentazione Progetto Dante 21”, la lezione spettacolo che era servita come introduzione alla serata, l’illustre dantista Domenico De Martino aveva descritto con rammarico le molte volte che a teatro si sentono declamare i versi della Commedia in modo talmente enfatico e attoriale, con i toni sempre corretti, la dizione perfetta, i tempi giusti (naturalmente secondo il gusto attuale) che il testo dantesco ne risulta svuotato e quasi privo di significato. Diceva Vittorio Sermonti che davanti alla maestà della Commedia anche l’attore più grande deve farsi piccolo e quasi dimenticare se stesso. Non sembra essere stato ascoltato. Non si è persa nemmeno questa volta l’occasione di recitare quei versi con il massimo dell’enfasi e sempre fuori registro forse cercando di aumentare la beatitudine che, però, proprio come ci insegna Piccarda Donati, non ha certo bisogno di rinforzi.
Proprio a questo proposito, sempre De Martino ha citato uno straordinario esempio per spiegare la vexata questio della gerarchia delle beatitudini in Paradiso che, pur esistendo, non sembra turbare minimamente i beati che non vogliono di più di quello che già gli è stato donato. Se da una parte prendiamo una bottiglia e vicino gli mettiamo una damigiana, vuote entrambe, e vi travasiamo il dolce vino della beatitudine fino all’orlo, otterremo dopo un certo tempo due contenitori pieni allo stesso modo di un’essenza eccellente, ma in quantità diversa perché diversa è la capienza. Di più non ce ne sta. De Martino, per essere ancora più chiaro, ha perfino citato il meraviglioso assunto marxiano che la società trasformata dovrebbe scrivere sulle proprie bandiere: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Per essere ancora più lineari e anche per cercare di capire il senso dei versi danteschi, vediamo da dove sia l’economista tedesco sia il poeta fiorentino traevano il loro concetto:
“La moltitudine di quelli che avevano creduto aveva un solo cuore e una sola anima, e nemmeno uno diceva che fosse sua alcuna delle cose che possedeva. Ma avevano ogni cosa in comune. E con grande potenza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del signore Gesù, e immeritata benignità era su tutti loro in grande misura. Infatti non c’era fra loro uno solo nel bisogno, poiché tutti quelli che erano proprietari di campi o case li vendevano e portavano il valore delle cose vendute e lo depositavano ai piedi degli apostoli. Quindi si faceva la distribuzione a ciascuno, secondo che ne aveva bisogno”.
Quella a cui ci esorta Dante Alighieri in tutta la sua Commedia ma a maggior ragione nella terza cantica è una conversione totale dei nostri cuori, un cambiamento radicale nel solco evangelico e con i modi della povertà francescana che molti confondono ancora oggi con la miseria dei beni di consumo, degli abiti o dell’atteggiamento, mentre il senso è tutt’altro. Bisogna avere il coraggio e la determinazione di ficcare lo sguardo nell’Etterno consiglio e ritrovarvi la nostra medesima effige, proprio come dice Dante negli stessi versi che sono stati declamati durante la serata senza però farne tesoro.
Il viaggio non si conclude nel XXXIII canto del Paradiso ma deve continuare nelle nostre coscienze che devono essere esortate verso il cambiamento dalla lettura della Commedia. Come dice ancora De Martino, la Commedia non va solo celebrata ma letta con attenzione e cuore di cristallo, una volta per tutte e sempre. I versi del Sommo Poeta non hanno bisogno di nient’altro che di se stessi, soprattutto non necessitano della solita prosopopea e di quell’enfasi declamatoria che ne svuotano ogni significato rendendo le terzine di una monotonia avvilente. Dante cerca sempre di essere presente a se stesso anche nei momenti emotivamente più intensi e se il personaggio protagonista della Commedia che corrisponde solo in parte al narratore e al poeta, a volte è sovra eccitato o vinto d’amore, ci pensano ben i personaggi che lo accompagnano nel pellegrinaggio a riportarlo alla realtà e alla ragionevolezza. Quando si lascia andare, il poeta viator viene immediatamente redarguito e richiamato all’ordine da Virgilio e perfino rimproverato aspramente da Beatrice che tanto ama; lamentazioni, giaculatorie e sospiri di troppo lì sono proprio negati, se li aggiungiamo noi con la nostra interpretazione e lettura sopra le righe e fuori registro, facciamo un cattivo servizio a noi stessi e al poema che vorremmo onorare.
Un’altra cosa che è mancata del tutto durante la serata del Giovanni da Udine è l’ironia dantesca che è un elemento fondamentale per la comprensione della sua opera. Dante non se ne dimentica mai, il suo poema è pervaso dello spirito di Francesco che è ilare e lieto e che sa rifulgere di letizia anche nella situazione più tetra.
Tutti i grandi dantisti, ivi compreso naturalmente De Martino, conoscono bene e praticano quell’arte sottile che sa sempre coniugare la facezia anche più greve con la beatitudine più assoluta che è proprio tipica della poetica dantesca. La seriosità meditabonda e dolente che lo stereotipo attribuisce all’Alighieri proprio non gli apparteneva. Il Paradiso tutto ride, Beatrice stessa, i beati, le sfere celesti, gli angeli, non c’è alcun dramma in quel luogo e l’intensità delle terzine deve essere intesa come stupore di fronte al manifestarsi della Grazia del Signore.
Per tutto questo la forma del piagnisteo o dell’esaltazione parossistica è la più fuorviante possibile. Medesimo discorso per la scelta della parte musicale tutta sotto il segno dell’enfasi e della pesantezza da penitenti, più adatta ad un coro di anime peccatrici che a quelle dei beati.
Per questo la sensazione che dava questa messa in scena era quella di un ambiente purgatoriale più che della luminosità paradisiaca, anzi con il buio che calava in sala poteva essere benissimo anche una rappresentazione di una qualche bolgia infernale.
Solo pochi mesi fa al teatro Verdi di Pordenone è andata in scena una Lectura Dantis degna di questo nome che, utilizzando in modo creativo mezzi scenici relativamente modesti, ha colto l’obiettivo di coinvolgere gli spettatori in un’autentica riscoperta teatrale della Commedia. In “Fedeli d’Amore Polittico in sette quadri per Dante Alighieri”, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari ne hanno dato una lettura innovativa, sperimentale, coinvolgente, profonda, l’esatto contrario, duole dirlo, di quella del Giovanni da Udine. E non si può nemmeno parlare di incidente di percorso perché lo spettacolo è il risultato non casuale di una certa interpretazione del testo e di una caparbietà e acribia nel rappresentarlo che se da un lato sono comprensibili, dall’altro risultano dannose e fuorvianti per la comprensione del Poema Sacro e del tutto inefficaci per la sua divulgazione presso il grande pubblico, ammesso che questo fosse l’intento della celebrazione.
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