Nelle nuove sale iper-tecnologiche del Visionario di Udine appena inaugurate in pompa magna con tanto di autorità e signore ingioiellate che, naturalmente, frequentano i cinema solo nelle occasioni ufficiali, è ripresa un’intensa programmazione di film di grande qualità com’è sempre stata tradizione del Centro Espressioni Cinematografiche che la cura.
Di una certa rilevanza la proposta di alcuni film selezionati per la Settimana della Critica della recente 77 Mostra d’arte cinematografica di Venezia e del Festival di Berlino, poco appetibili per la distribuzione a solo scopo commerciale e altrimenti destinati all’oblio o ad un circuito di stretti appassionati.
Per queste righe si sono voluti scegliere tre film che hanno in comune un filo rosso che lega molta cinematografia che è quello dello sguardo al femminile sulla contemporaneità. Al cinema si sente finalmente la necessità di rappresentare il nostro tempo attraverso le vicende di donne fuori dai soliti stereotipi della narrazione convenzionale maschilisti, falsi e manichei, polarizzati da sempre sulle figure della dolce vittima da salvare piena di gratitudine o della donna perduta, Vampira e mangia-uomini. Banalmente le vicende di tutte quelle figure intermedie e fasulle dell’immaginario maschile che occupano lo spazio che divide l’angelo dalla prostituta o la mamma dall’amante.
Per nostra fortuna, seppur con molta fatica, negli ultimi anni sta emergendo una cinematografia al femminile che fa piazza pulita di tutte queste pericolose fanfaluche e che vuole, non solo dar voce davvero alle donne, che non hanno certo bisogno che gli sia concesso questo diritto inalienabile della persona, ma anche trovare un’inedita, feconda prospettiva attraverso la quale rappresentare la nostra realtà.
Raccontare la storia di donne come fossero città e il contrario può sembrare altrettanto una forzatura e una semplificazione eccessiva ma non si può negare che sia efficace. Nella nostra tradizione culturale il corpo della donna, simbolicamente, è correlato alla casa, all’accoglienza, all’affettività, alla famiglia.
Per estensione il corpo della città diventa il luogo della socialità, della comunità e dell’identità. Sappiamo bene come sono stati e vengono ancora straziati i corpi delle città e delle donne al contempo, quali abusi e sofferenze siano la posta in gioco quotidiana del nostro vivere sociale. Città sventrate per interesse, per volontà di potere, per rapacità, cupidigia e via di seguito. Se a queste sostituiamo idealmente il corpo femminile ci accorgiamo che le violenze sono in qualche modo paragonabili e che, non sembri un’enormità, il tessuto urbano non è poi così diverso idealmente dalla carne viva. Lo stupro delle nostre periferie, del paesaggio, della nostra vita relazionale e associativa corrisponde, in qualche modo, allo strazio dei nostri corpi. Di questo universo simbolico si occupano i tre film che analizzeremo brevemente.
Topside di Celine Held e Logan George (Usa 2020)
Nikki è una giovane tossicodipendente di New York che la vita ha costretto a scendere tutti i gradini della scala dell’abiezione fino all’Abisso. E’ lì che vive, nell’inferno della Grande Mela, in un luogo che si chiama, tragica ironia della sorte, Freedom Tunnel, una vecchia galleria ferroviaria abbandonata al di sotto della metropolitana, lunga quattro chilometri.
Laggiù al di sotto perfino della metropolitana, senza i servizi minimi, senza luce, gas assistenza, speranza ha davvero abitato per anni la corte dei miracoli di New York, gli homeless, i miserabili invisibili abbandonati da tutto e da tutti.
In quelle Malebolge la protagonista della pellicola, ispirata a tante storie vere d’abbandono e miseria, ha cresciuto una figlia. Nei suoi cinque anni di vita, la piccola, che per l’appunto si chiama Little, non è mai salita in superficie. “Solo la mamma può farlo” dice “perché ha le ali che a me devono ancora crescere”. Little è vissuta nell’abisso, in condizioni subumane e non sembra farci nemmeno caso; come ogni bambina del mondo gioca, ride e sogna in quel ventre scuro, nelle profondità della città indifferente.
Mentre la mamma sale per i suoi sordidi, degradanti affari che le procacciano a stento da vivere e da drogarsi, la piccola scende nei propri pensieri fatti di cantilene infantili, luci artificiali, immondizia e una strana, irrazionale, inconsapevole letizia tipica degli angeli anche quelli degli abissi.
Quando ai piani alti si decide di risolvere il problema dei senza tetto che vivono in condizioni disperate occupando abusivamente spazi abbandonati, lo si fa nello stesso modo in ogni paese a tutte le latitudini: si sgombera e chi s’è visto s’è visto. Succede continuamente anche in Italia senza preoccuparsi per niente del triste destino delle persone cacciate. Little e la mamma sono costrette a scappare perdendo quel pochissimo che avevano. La piccola per la prima volta deve lasciare la propria tana e ne resta sconvolta; non capisce niente della nuova realtà che la circonda, non meno orribile di quella che avevano lasciato tra indifferenza, drogati, fame, freddo e tanta luce che ferisce gli occhi.
Nessuno le aiuta, sono ancora più abbandonate a se stesse. La madre, che sa bene di essere costretta all’unica dimensione del proprio disperato inferno, dopo aver perso e ritrovato la propria piccola, capisce tragicamente, che l’unico modo per darle una possibilità di sopravvivenza è quella di perderla definitivamente, abbandonandola sul serio e facendola ritrovare da qualcuno in grado di accudirla davvero. Il film ritrae una New York molto diversa da quella verticalizzata dallo stereotipo dei grattaceli luccicanti cui ci ha abituato il cinema, tutta schiacciata verso il basso, nella quale l’orizzonte e il punto più alto sembrano corrispondere con i marciapiedi della miseria e dell’abbandono.
E’ una città nella quale sembra che non si possa fare altro che scendere sempre più in basso. Magistrali, claustrofobiche, inquietanti e angosciose le sequenze in metropolitana. Ottima prova attoriale della stessa regista che incarna la protagonista e davvero splendida la piccola Little impersonata da Zhaila Farmer che sembra interpretare se stessa.
Undine: un amore per sempre di Christian Petzold (Germania-Francia 2020)
Undine è una storica della città di Berlino; no Undine è una divinità maligna delle profondità lacustri; anzi è una donna dolcissima e fragile con le proprie passioni e amare disillusioni oppure, ancora è un’opportunista spietata, vendicativa e rancorosa. Undine è viva, Undine è morta. Undine è un pesce, ma anche la testa di un cane ma anche la città di Berlino. Insomma, tutte queste cose e nessuna.
Il regista tedesco Petzold riconosce nei suoi film la pervasività e cogenza del mito nell’età contemporanea. Come diceva Henrich Heine che imputava la scomparsa del mito e degli antichi dei al cristianesimo: “I poveri Dei pagani dovettero riprendere la fuga e cercare rifugio in reconditi nascondigli sotto ogni sorta di travestimenti. Quando il vero signore del mondo issò il suo stendardo crociato sulla roccia celeste e gli zeloti iconoclasti, la nera banda dei monaci, infransero tutti i templi e perseguitarono gli dei scacciati con fuoco e anatemi. Molti di questi poveri emigranti, del tutto privi di asilo e di ambrosia, furono costretti a ricorrere ad un mestiere borghese, per guadagnarsi almeno il pane quotidiano. In queste circostanze più d’uno i cui boschi sacri erano stati confiscati, dovette fare il bracciante da noi in Germania come taglialegna, e bere birra come nettare”. (Gli dei in esilio)
Tra questi Undine che da spirito delle acque è diventata studiosa della città di Berlino.
In tutte le aree di cultura tedesca sono presenti a nord e anche a sud delle Alpi fino al mar Baltico e in Russia. Esistono miti che riguardano particolari creature femminili delle sorgenti, dei fiumi e delle acque stagnanti. Agane, Krivapete, Rusalke e per l’appunto Undine sono spesso alla base dei miti fondativi delle antiche città europee, i cui abitanti s’insediarono a scopi difensivi e di sopravvivenza nelle anse dei fiumi, nelle isolette fluviali o negli spazi conquistati a terreni paludosi appositamente bonificati. L’Isola tiberina a Roma, L’Île de la Cité di Parigi e per l’appunto quella che ora è l’isola dei musei di Berlino città nata tra le anse del fiume Spree, in una zona paludosa bonificata.
Proprio Heine scrisse Il canto di Loreley (Das Lied der Lorelei) una meravigliosa ninfa del fiume Reno che con il suo canto e pettinandosi i lunghi capelli d’oro attira e fa annegare i poveri barcaioli. A questo e ad altri miti si ispirò Richard Wagner per il suo L’Oro del Reno, prima giornata della sua tetralogia con le ninfe del fiume e l’anello dei Nibelunghi.
Nel film tutto questo non c’è esplicitamente, vi sono solo nascoste allusioni, riferimenti, interpolazioni. Il regista ci vuole raccontare una storia d’amore, tra una ninfa delle acque e un moderno palombaro, che in se riassume le vicende di un’antichissima città sulla quale la storia, anche recente, ha più volte infierito straziandola, dividendola, soffocandola per poi farla rinascere ricucendone i pezzi, abbattendo un muro ma forse costruendone molti altri, fagocitando quartieri, facendoli sparire, riapparire al motto di “Form follow function” (la forma deriva dalla funzione), spesso senza tener conto degli abitanti e delle conseguenze che subivano e continuano a patire per la cosiddetta riunificazione che, in realtà, è stata altrettanto traumatica della separazione.
“Spesso le undine cambiano le forme antropomorfiche che le contraddistinguono; altre volte la natura di questi spiriti non si allinea nello stesso luminoso orizzonte, preferendo ad esso il seducente crepuscolo del proprio inconscio, ma c’è in tutte le loro storie un determinatore comune: la solitudine, quella disperata voce, in fondo ad uno spaventoso etere, che vuole emergere, che vuole essere udita, accettata, che combatte per una redenzione anche sporcandosi di sangue. E, infine, ritiratasi negli abissi senza il loro lieto fine, l’aspetto più inquietante di tutti: la prigionia del tempo. Prive di un’anima, costrette a sopportare impotenti centinaia e centinaia di anni come vedove di un amore infedele, vigliacco, fragile, schiave della propria rabbia mista ad una tenerezza rifiutata e congelata dal nulla, condannate ad esistere senza riuscire a vivere”i come di tanto in tanto succede a noi tutti.
Insostituibile, stravagante, efficace e significativa la colonna sonora composta quasi esclusivamente dall’Adagio in re minore BWV974 dal celeberrimo concerto per oboe di Alessandro Marcello, trascritto per pianoforte da J.S. Bach e Stayn’ Alive dei Bee Gees. Il passato continua a “stare vivo” dentro il presente anche se ben nascosto.
Hayaletler (Ghosts) di Azra Deniz Okyay (Turchia/Francia/Quatar 2020)
“Gentrificazione (in inglese Gentrification) è un concetto sociologico che indica il progressivo cambiamento socioculturale di un’area urbana da proletaria a borghese a seguito dell’acquisto di immobili, e loro conseguente rivalutazione sul mercato, da parte di soggetti abbienti. Sinteticamente, può essere definita come processo di imborghesimento di aree urbane un tempo appannaggio della classe lavoratrice, la quale è progressivamente rimpiazzata non potendo più economicamente sostenere i nuovi standard qualitativi del luogo di residenza.” (fonte Wikipedia).
Il film della giovane regista turca Azra Deniz Okyay, classe 1983, affronta la drammatica trasformazione della metropoli per eccellenza, Istanbul, che è stata Bisanzio e che era Costantinopoli, in mostruosa megalopoli del terzo millennio, dal punto di vista degli invisibili fantasmi (Ghosts) che ne abitano uno dei vecchi quartieri storici destinato all’abbattimento e alla cosiddetta riqualificazione; in realtà, la solita becera speculazione immobiliare che dai centri storici, lasciati andare in rovina a bella posta, deporta i poveracci verso i campi di concentramento delle periferie. Proprio niente di nuovo, ne parlava già Victor Hugo riferendosi allo stravolgimento del quartiere di Les Halles o dei vialoni di Haussmann che permettevano alla cavalleria di caricare in scioltezza gli eventuali manifestanti e ai cannoni di spazzare via dalle strade le improbabili barricate molto semplici da erigere e quasi inespugnabili nel dedalo di viuzze della città medievale.
Niente di nuovo nemmeno al cinema, per farla breve, basti citare due estremi opposti: Le mani sulla città di Francesco Rosi (Italia 1963), Robocop 3 di Frank Dekker (Usa 1993). Non sembri una bestemmia aver accostato due film così diversi ma entrambi rendono molto più facile comprendere di cosa vuole parlarci la regista turca.
“La regista ha dichiarato:” Sono cresciuta in una famiglia di urbanisti e architetti. Ho viaggiato molto quando ero bambina. La rigenerazione urbana è stata uno dei temi principali non solo della mia famiglia, ma anche dei cambiamenti del clima politico turco…C’era sempre la distruzione del patrimonio culturale e della natura da un lato e l’idea di “creare una nuova Turchia” dall’altra. Ma per me, questa creazione finisce per essere solo un deserto di cemento e argomenti senza senso. Sono cresciuta anche in una cultura ibrida, dove i genitori dei miei genitori erano immigrati. Questa distruzione che il film menziona è anche delle altre culture e del modo in cui vengono respinte”.(www.hotcorn.com)
Il cuore della città vecchia ha un’identità culturale stratificata fatta di miserie umane ma anche di tanta solidarietà, condivisione, accettazione, libertà anche sessuali che il potere di Ankara non può digerire, soprattutto perché a resistere e a “combattere” per i propri diritti inalienabili sono le donne di tutte le età. Il governo proto fascista e repressivo di Erdogan, per stroncare sul nascere ogni possibile opposizione o dissidenza, colpisce durissimo gli oppositori e sono sempre le donne a pagarne le più drammatiche conseguenze ma è nei loro cuori che vive la speranza di un futuro migliore, che questa pellicola ci indica.
Per associazione di idee, pensando ai vecchi disastrati quartieri di Istanbul, vengono in mente i versi che Ungaretti in altro contesto dedicò al ricordo di un altro paese devastato da un’altra guerra orrenda:
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
di tanti che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
ma nel cuore
nessuna croce manca
è il mio cuore
il paese più straziato
Da Undine, il mito dietro la leggenda di Denise Sarrecchia (www.diacritica.it)
© Flaviano Bosco per instArt