Come da programma è stato presentato nello spazio Gabelli di Pordenonelegge 2020 l’interessante n° 387 della rivista di filosofia aut aut, dal 1951 laboratorio e crogiolo della riflessione filosofica e autenticamente multidisciplinare nel nostro paese. Il titolo dell’incontro era; “Crocevia Lacan” e il tendone che ha ospitato il numeroso pubblico, ironia della sorte era stato realizzato proprio a due passi da un incrocio nel pieno centro della città.
Alberto Garlini, curatore del festival, nell’introdurre l’incontro e parlando dell’andamento generale del festival che volgeva al termine ha dichiarato: fin qui tutto bene, anche se non suona come uno splendido augurio almeno a chi ricordi il finale del film L’odio di Mathieu Kassovitz (1994). Naturalmente, nonostante alcuni sfavorevoli vaticini, è andato tutto bene grazie alla grandissima professionalità dell’organizzazione, le proposte sempre d’alto livello e la grande disponibilità, fino alla mansuetudine, del pubblico.
Alla presentazione dell’ultimo numero della prestigiosa e autorevole rivista doveva esserci anche il suo deus ex machina, Pier Aldo Rovatti che, proprio quel mattino si era però svegliato con la febbre e che logicamente non aveva potuto essere presente. Qualcuno ha mormorato che con quella temperatura corporea secondo le norme anticovid non avrebbe nemmeno potuto assistere tra il pubblico, ma ci mancherebbe altro e non serve l’epidemia per capirlo, una persona indisposta sta molto meglio a letto.
Rovatti è una persona di grande presenza, dicono dal palco, e di sicuro la sua assenza si fa notare. Naturalmente non c’è quasi una questione più lacaniana della presenza-assenza trattata nel Seminario IV (La relazione oggettuale 1956-1957), ma archiviamo questa informazione per il momento, registrando un aneddoto. Massimo Recalcati cinque anni fa avrebbe dovuto trattare questo tema presentando il proprio libro, Le mani della madre, al meeting di Cl, concentrandosi sulla “mancanza” correlato dell’assenza in Lacan:
“Scrive Recalcati – Donare la propria mancanza, la propria insufficienza e la propria vulnerabilità – ha lo stesso valore inestimabile dell’offrire le proprie mani e il proprio volto. Si tratta per Lacan della definizione più alta dell’amore: amare è dare all’Altro quello che non si ha”. La mancanza è il tema del prossimo Meeting di Rimini, a cui Recalcati, pur desiderandolo, non potrà partecipare a causa di impegni pregressi”. (it.clonline.org)
Non manca però un saggio di Recalcati in questo numero di aut aut (Soggetto e soggettivazione in Sartre e Lacan)
I relatori erano dunque Mario Colucci, psichiatra presso il dipartimento di Salute Mentale di Trieste, docente, membro del Forum Lacaniano, socio fondatore del Laboratorio di Filosofia contemporanea di Trieste e redattore di aut aut, autore di numerose pubblicazioni tra le quali quella dedicata a Franco Basaglia (Bruno Mondadori, 2001);
Francesco Stoppa, analista membro della Scuola di Psicoanalisi del Forum lacaniano. Ha lavorato per 38 anni al Dipartimento di salute mentale di Pordenone, molti sono i suoi lavori pubblicati su riviste e in volume.
Vista l’assenza di Rovatti si è voluto dare un taglio più istituzionale e meno filosofico alla conversazione quasi ci fosse una contraddizione tra le due cose. Si è sostenuto che per chi è di formazione psicoanalitica le parole sono importanti e oggetto di attente riflessioni anche qui non accorgendosi di cominciare con il piede sbagliato.
Meno male che subito dopo si è iniziato a dire che l’eredità di Lacan è soprattutto quella di aprire il confronto tra diversi saperi al fine di intendere criticamente la difficile dinamica tra sapere e potere. Lacan diceva agli psichiatri di stare attenti al loro sapere che è molto “segregante”; a questo proposito si è voluto alludere all’interessante ultimo lavoro di Colucci su Basaglia, (Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Alpha & Beta, 2020) Tematizzando un confronto tra i due grandi rivoluzionari della psichiatria.
Una cosa sulla quale si insiste sempre in occasioni come queste è l’estrema difficoltà dei testi di Lacan che sono difficili da leggere e da studiare e che ai più inesperti risultano incomprensibili e perfino esoterici, Lacan è ostico ma è anche aperto a molti saperi.
E’ di Francesco Stoppa il saggio che apre la rivista e ne traccia il percorso: “Quel vago movimento che è la ricerca della verità” Lacan e Freud. Aut aut si era già occupata di Lacan in passato nel 1980 con il fascicolo dal titolo: Partire da Lacan e poi nel 2009 con Leggere Lacan. E’ dunque un percorso ben preciso di confronto continuo con una delle voci che continuano a generare eco potenti nella nostra contemporaneità, nonostante i muri della nostra indifferenza.
Stoppa sostiene che ogni riflessione sul dopo covid deve partire dal trauma e dalla sua elaborazione ed è un discorso che vale per ogni attività umana che si struttura a partire da un trauma iniziale e ha la possibilità di proseguire solamente se lo assimila in qualche modo. Anche leggere Lacan è una sorta di trauma, per le presunte astrusità di cui dicevamo più sopra, ma ci spinge già da subito a ragionare sulla trasmissione traumatica del sapere.
I testi di Lacan sono ottimi compagni di strada, buoni maestri di vita che come tutti i grandi maestri ad un certo punto hanno la capacità di abbandonare, lasciare soli i propri allievi dopo avergli fornito gli strumenti e le conoscenze adeguati per cavarsela da soli. E’ proprio questo atteggiamento che lega Lacan a Freud, entrambi sono stati in grado di allevare generazioni di allievi cui hanno insegnato ben presto a camminare da soli, così come, in questo senso, è comprensibile il pluridecennale magistero di Pier Aldo Rovatti che ha allevato o quanto meno ispirato le migliori giovani menti dell’attuale filosofia italiana e aut aut ne è da sempre il caleidoscopio.
Quando gli allievi dello psicanalista francese gli chiesero se potevano dirsi lacaniani, lui rispose: “Fate ciò che volete io rimango freudiano” pagando il proprio tributo al maestro che lo aveva ispirato e con il quale continuava a confrontarsi.
Ha continuato Stoppa dicendo che il trauma non è un accidente della nostra esistenza, qualcosa di assolutamente imprevedibile; al contrario è un momento fondamentale della crescita. Tutta la fasulla retorica del virus che ci migliora deve essere valutata con equilibrio; se non accettiamo di lavorare su noi stessi migliorandoci non serve a niente. Dobbiamo tornare al significato autentico di krisis in senso greco e concentrarci sulla trasformazione soggettiva che il trauma ha prodotto in noi. Cosa significa questa cosa del virus nella nostra società? Proprio su questo dobbiamo cominciare ad interrogarci e sarebbe meglio fare presto. Un aiuto sostanziale viene di certo da questo numero di aut aut ma anche da uno speciale uscito qualche settimana fa a firma Rovatti dal titolo: In virus veritas, scaricabile gratuitamente on line, che raccoglie i testi del filosofo pubblicati sul quotidiano Il Piccolo di Trieste tra febbraio e maggio 2020. Non meno efficace nemmeno l’esortazione di Ilaria Papandrea, Un’opportunità per ripartire tra le pagine più interessanti, almeno quanto tutte le altre, del nuovo numero della rivista.
Lacan e Basaglia ci “costringono ad entrare nel rischio” quello di metterci in gioco e di trasformare noi stessi per imparare ad essere critici rispetto ai nostri pregiudizi, imparando ad ascoltare l’Altro tentando di non sovrapporre le nostre opinioni.
Fondamentale per capire questa idea del lavorio su se stessi è il riferimento di Lacan nel suo seminario Libro II al sogno di Irma di Freud (in L’interpretazione dei sogni) che mise lo psicoanalista viennese di fronte ad una sua paziente isterica e alla questione della verità. Freud si sente rimproverato perché la sua paziente va dicendo che, dopo la sua terapia “Sta bene ma non del tutto meglio”.
Leggiamolo allora il sogno che Freud fece la notte tra il 23 e il 24 luglio 1895:
“Un grande salone, molti ospiti che stiamo ricevendo. Tra questi Irma che prendo subito in disparte come per rispondere alla sua lettera e di non accettare ancora la “soluzione”. Le dico: “Se hai ancora dolori è veramente soltanto per colpa tua”. Lei risponde: “Sapessi che dolori ho ora alla gola, allo stomaco, al ventre, mi sento tutta stretta”. Mi spavento e la guardo; è pallida e gonfia. Penso: dopotutto forse non tengo conto di qualche cosa di organico. La porto alla finestra e le guardo la gola. Irma mostra una certa riluttanza, come le donne che portano la dentiera. Penso che non ne ha ancora bisogno. La bocca poi si apre bene vedo a destra una grande macchia bianca e in un altro punto, accanto a strane forme increspate, che imitano evidentemente le conche nasali, estese croste grigiastre. Chiamo subito il dottor M che ripete la visita e conferma…”
Il sogno continua e l’infezione, infine, sembra causata da un’iniezione di trimetilammina. La cosa fondamentale è che Freud analizzando questo suo sogno si mette in gioco, fino a comprendere il proprio coinvolgimento emotivo e aprendosi a molte considerazioni sul come parlare della cura e nella cura.
Lacan risogna questo sogno per noi, lo precisa e lo adatta.
Il rischio è quello di scoprire la verità, ossia che la vita umana non ha senso e subire una totale paralisi della propria volontà, un horror vacui che ci impedisce di darci delle regole e delle prospettive.
Ci dobbiamo svegliare da un incubo per tornare a sognare, non superare quel trauma, non avrebbe senso, ma imparare da esso.
Nel sogno di Irma potente è la sottolineatura tra sessualità e morte. Dobbiamo riuscire ad affrontare la nostra fragilità e caducità al di là del senso di castrazione che ci incutono queste debolezze.
Colucci ritorna a portare l’attenzione sui contenuti della rivista sottolineando come, in questa uscita, siano presenti i punti di vista di tutte le più diverse scuole e “parrocchie” lacaniane. Il pensiero di Lacan viene confrontato con quello di molti filosofi e intellettuali per scoprire influenze e contiguità feconde. Inutile dire che, per i saperi della contemporaneità, la figura di Lacan è assolutamente cruciale. Risultano quindi particolarmente interessanti gli accostamenti con Deleuze, Sartre, Foucault, Benjamin, Barthes, Laclau e perfino con Cartesio e Pascal. Non mancano di attirare l’attenzione del lettore le riflessioni su Antigone, sul rapporto sessuale e il confronto con il pensiero debole sempre dalla prospettiva delle suggestioni lacaniane.
Colucci nel suo articolo, Quel muro tra Lacan e Basaglia, analizza con un certo dettaglio il rapporto tra i due che non è mai stato esplicito ma che è utilissimo per comprendere l’opera di entrambi.
Fondamentale, analizzare il muro che li divideva a partire da una raccolta di sei interventi pronunciati nell’ambito di alcuni centri ospedalieri specializzati in psichiatria. Lacan illustrava aspetti nodali del suo insegnamento sulla teoria analitica, ricorrendo ad uno stile semplice, divertito, accattivanti, certo sempre se confrontato con la difficoltà estrema degli altri suoi testi. In Il mio insegnamento e Io parlo ai muri (Astrolabio Ubaldini, 2014).
Di particolare importanza gli ultimi tre nei quali sono riportate le parole che Lacan pronunciò da docente agli specializzandi in psichiatria all’università di Sant’Anna (Strasburgo) dove molti anni prima si era formato. Il corso dal titolo “Il sapere dello psicoanalista” si tenne nella cappella dell’Ospedale, che risale all’epoca di Napoleone III, un luogo solenne e sonoro nel quale i muri risuonano.
Leggiamo dove immaginava che le sue parole vibrassero:
“Supponete che la caverna di Platone sia questi muri in cui faccio sentire la mia voce. E’ manifesto che i muri mi fanno godere. E così godete voi tutti per partecipazione. Vedermi parlare ai muri è qualcosa che non può lasciarvi indifferenti. E, riflettere, supponete che Platone sia stato strutturalista, si sarebbe allora reso conto in che cosa consiste in realtà la caverna, ossia che è indubbiamente lì che è nato il linguaggio. Bisogna rigirare la faccenda. E’ da un sacco di tempo che l’uomo vagisce come un qualunque animaletto che strilla per avere il latte materno, ma gli occorre un po’ di tempo per rendersi conto che è capace di fare qualcosa che, beninteso, sente da tanto tempo poiché tutto si produce nella lallazione, nel farfugliare. Per scegliere, deve essersi accorto che le kappa risuonano meglio sul fondo, sul fondo della caverna, dell’ultimo muro, e che le bi e le pi sporgono meglio all’entrata: è così che ha inteso la risonanza. Questa sera mi lascio andare dato che parlo ai muri”.i
Il sapere psicoanalitico non è detto che ci prepari davvero all’incontro con il paziente. Lacan partiva da una formazione fenomenologica che poi cominciò a criticare in modo radicale, fino a mettere in crisi la ricerca del senso così come fece Basaglia.
Il problema era sicuramente la deriva del dopo Freud soprattutto nell’interpretazione anglo-americana. Gli psichiatri purtroppo non sapevano che farsene di Foucault e perfino i lacaniani più ortodossi erano molto critici con il filosofo.
L’istituzione manicomiale prima e la casa di cura poi che nascono per affrontare una situazione, quando s’irrigidiscono nella loro istituzionalizzazione, diventano parte del problema, escludendo, internando, medicalizzando, schedando e nei casi peggiori incarcerando i pazienti. In questo senso, gli stessi muri del manicomio contengono una segregazione.
Qualcosa in Francia cominciò a muoversi con la Psicoterapia istituzionale. In Francia la rivoluzionò un catalano, Francisco Tosquelles, esule dalla Guerra di Spagna (il Basaglia francese) che finì in un piccolo manicomio Saint’Alban dove sperimentò le prime forme di deistituzionalizzazione rivoluzionando la psichiatria. Anche se un’autentica riforma di quell’istituzione in Francia deve ancora vedere la luce, quell’esperienza fu un pionieristico laboratorio, da lì passò anche Franz Fanon, autore del fondamentale I dannati della Terra.
Nonostante alcuni tentativi anche recenti, per esempio del governo Macron ispirati da Basaglia, per il quale lo stesso Colucci era stato contattato, in Francia l’istituzione manicomiale non è mai stata mai messa in crisi nel vero senso della parola.
La roccaforte dell’ospedale psichiatrico garantisce posti di lavoro per gli operatori, vendita di farmaci e un indotto difficile da convertire.
A questo proposito Colucci ricorda un neologismo che Lacan utilizza nella conferenza, per definire l’istituzione psichiatrica che tiene insieme Specchio (Miroir), muro (Mur) e che ha assonanza con la morte (Mort). Vi è anche una specularità tra Lacan e Basaglia e tra Francia e Italia.
In Francia non si critica l’istituzione, in generale, perché dopo la Rivoluzione la si considera come una conquista della libertà dei cittadini, in caso si critica l’istituto.
In Italia, al contrario, si vive l’istituzione sempre con un certo sospetto, come qualcosa che viene calata dall’alto, subita, temuta e mai davvero amata. La riforma Basaglia è stata possibile anche per l’identificazione nell’immaginario italiano del manicomio come luogo di torture che riassumono le angherie che il cittadino è costretto a subire dalla scuola alla fabbrica, dai campi e nelle officine oggi come quarant’anni fa; anche perché, nel frattempo, è stata azzerata la consapevolezza personale e politica che allora si chiamava coscienza di classe. E se a qualcuno venisse un dubbio gli basterebbe rivedersi “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri (1971) attuale oggi più che mai, ma non divaghiamo.
Il punto di segregazione in Italia, nonostante Basaglia, è che le pratiche sono prive di teoria, sono pratiche biomediche. La parcellizzazione del sistema che ha fatto emergere delle eccellenze come in Friuli Venezia Giulia è, in realtà, una psichiatria medicalizzata diffusa sul territorio e del tutto inefficace. Basta guardare all’autentica epidemia di disturbi psichiatrici, soprattutto tra gli adolescenti, del dopo covid che nessuna struttura si preoccupa minimamente di trattare se non a forza di psicofarmaci.
Il termine Salute mentale diventa quasi sinonimo pericoloso di controllo biomedico della popolazione che non tiene conto della soggettività. Il covid prova ampiamente questa situazione che prima era solo un sospetto.
Francesco Stoppa si chiede allora se è possibile un sapere diverso? Sono possibili nuove buone pratiche?
Portando la propria esperienza di formatore in campo psichiatrico cerca di tenere sempre ben presente se c’è qualcosa di salutare nel trauma che può servire agli operatori nella pratica quotidiana?
La risposta che si da è del tutto freudiana e quindi anche di Lacan. Senza dubbio, principalmente imparare a stare zitti di fronte al paziente, non parlargli sopra e agire per lui ma imparare ad ascoltare.
Pier Aldo Rovatti nel 1994 nel suo saggio Abitare la distanza, per un’etica del linguaggio, ragionando, in altro contesto, sul seminario III (La psicosi 1955-1956) nel quale Lacan ripensava il caso freudiano del presidente Schreber, scriveva:
“ Allora c’è un ascolto – ed è di questo che Lacan si interessa soprattutto (e noi con lui) – che è dell’ordine della chiusura: un ascolto che è la sovversione dell’ovvio porgere l’orecchio, più un distanziarsi che un avvicinarsi intenzionale: che tanto più si raggiunge quanto più sappiamo allontanarci dalla pretesa del nostro io. Ed è questo ascoltato, paradossale, ad essere richiesto dalla parola, perché e purché essa ci dica qualcosa di se stessa. La questione dell’inconscio sta in piedi, ha senso, solo se la affrontiamo da questo lato. Chiusura, estraneità – dice Lacan: per quanto possiamo riuscirvi, nella misura in cui possiamo guadagnarla mediante una passività, forse, ma che è un “agire”, un esercizio di noi su noi stessi attraverso l’altro”.ii
I nostri, aggiunge in conclusione Stoppa, sono protocolli neocapitalistici che tendono a riparare le persone come se fossero meccanismi di un organismo di produzione. Ed è proprio questo il motore di molta psicologia e psichiatria anglo-americana che oggi purtroppo va per la maggiore, in cui i piani dei sistemi di produzione si confondono con quelli del marketing e dell’affettività in un abbraccio mortale, autentica spirale nevrotizzante. La nuova segregazione è il sistema inclusivo che tiene tutti dentro senza alcuna differenza, medicalizzando senza alcun discernimento e che si sostituisce al sistema, ugualmente violento, che esclude com’era il manicomio, in una “Medicalizzazione della società” che fa funzionare le cure uccidendo i pazienti.
Dice sempre Stoppa che agli operatori insegna che il nostro io, in queste condizioni, rischia sempre il funzionamento paranoico verso l’Altro. Una soluzione è quella provare piacere in quello che si fa, riportare il piacere e la soddisfazione personale al centro del proprio lavoro di operatore di salute mentale. Senza gratificazione non si può sperare di ascoltare gli altri nel modo corretto ed efficace. Se non si scava dentro noi stessi non possiamo cavarcela.
A questo proposito Colucci accenna brevemente ad uno dei punti di contatto più importanti tra Lacan che Basaglia che si trovano nell’angoscia, come spinta verso il miglioramento di se stessi. Ancora un altro aneddoto racconta di uno specializzando che disse a Lacan che, nonostante tutti gli studi, la preparazione e il tirocinio, ancora provava una profonda angoscia di fronte ai pazienti psicotici. Lo psicanalista gli rispose semplicemente: “Meno male” intendendo che davanti all’Altro dobbiamo continuare a farci sempre delle domande e non essere mai sicuri dell’efficacia dei nostri metodi che altrimenti da buone pratiche diventano solo abitudini e pregiudizi, modelli statici e rigidi attraverso i quali costringere, aggiogare, segregare.
Mentre con queste parole si concludeva la coinvolgente presentazione, nel silenzio interessato degli spettatori, fuori dal tendone, un bambino emetteva, ripetutamente, un sonoro, inquietante, agghiacciante verso gutturale mentre la madre lo trascinava via, da gelare il sangue nelle vene. A molti è sembrato un incontro con il reale del trauma in piena sintonia con tutto quello che fino ad allora era stato suggerito dai relatori.
iiPier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Feltrinelli, Milano 1994, pag. 103.
© Flaviano Bosco per instArt