Bisogna pure ammetterlo, fa un certo effetto starsene seduti all’aperto davanti al grande schermo in un giardino nel pieno centro di Udine, in piazza I° Maggio (Giardin Grande) nel punto esatto dove anticamente esisteva un profondo lago ricoperto nel XIV sec. provvisto del suo drago regolamentare ucciso da un santo cavaliere come da contratto. Ti guardi intorno e oltre agli alberi vedi, tra le fronde, le luci della città. A tutto questo si aggiungono le seduzioni della sera e le tante interessanti proposte di una lunga rassegna cinematografica estiva che si concluderà il 30 agosto.

Tra le tante delizie ammannite dai ragazzi del Visionario che curano le proiezioni, l’altra sera è stata la volta de I Vitelloni di Federico Fellini (1953). Il capolavoro fa parte di una serie di opere del maestro riminese restaurate da Il cinema ritrovato di Bologna per le celebrazioni del centenario dalla nascita, che cade proprio in questo disastrato anno del Signore 2020. Di queste ultime abbiamo già potuto vedere sugli schermi udinesi La Dolce vita e 8 e ½, regolarmente recensiti in questo sito e potremo vedere anche Lo sceicco Bianco (1952).

I Vitelloni racconta le giornate vuote e goliardiche di un gruppo di scapestrati giovanotti nullafacenti nella profonda provincia padana del dopoguerra. Ognuno dei ragazzoni di cui si parla ha le proprie illusioni, i propri vizi, la propria pusillanimità. Non sanno decidersi a crescere, tergiversano, esitano, procrastinano e intanto si fanno una partita a biliardo, si perdono in avventurette con le ballerine o con le signore procaci del cinemino che frequentano con le fidanzate, si divertono e ubriacano alle feste. Ma la vita sta per presentare il conto ad ognuno di loro che dovrà imparare, volente o nolente, a gestire l’amarezza e la disillusione. La vita di provincia e la piccola borghesia bottegaia cui appartengono saprà piegarli e vincere la loro inedia costringendoli a ridimensionare i loro sogni. Solo uno di loro per non farsi inghiottire dalla squallida banalità di una vita senza altra prospettiva che la routine quotidiana di lavoro, famiglia, bar, cimitero finirà per lasciare tutto partendo per: “Non so dove, non so a far cosa”.

Il pretesto per raccontare le vicende dell’eterogeneo gruppo d’amici sta nel fatto che il più scellerato di loro, Fausto, mette incinta Sandra, ragazza di buona famiglia e sorella del suo amico Moraldo. Dopo un iniziale tentativo di fuga viene convinto a sposarla, a lavorare a bottega, a farsi una “posizione”. Lui continua a correre dietro alle sottane provocando guai a non finire e coinvolgendo i compagni di merende”. Sandra lo ama e lo giustifica in ogni modo fino a non farcela più e inscena una fuga dal tetto coniugale che mette tutto a soqquadro. Dopo averla ritrovata, Fausto viene picchiato a sangue dal proprio padre e rimesso in riga.

Un quadretto della tipica famigliola della provincia italiana profonda. Il marito scapestrato e infedele, la mogliettina succube e illusa ed infine l’intervento dell’autorità paterna che riporta l’equilibrio nella vita quotidiana della coppia, a forza di cinghiate e sganassoni.

Tutti elementi che illustrano sapidamente ciò che Fellini si figurava essere la vita della famiglia tipo. Credo che queste sequenze, al pari di quelle riguardanti il negozio di arredi sacri, costituiscano per il cinema italiano del dopoguerra una sorta di archetipo delle relazioni inter-familiari. Infinite sono state le imitazioni, le caricature, le deformazioni. Almeno un decennio della cultura cinematografica italiana ne è stato condizionato.

Questo film, alla sua uscita, provocò un certo scandalo tra le schiere dei bigotti, non tanto perché ne criticasse a fondo i costumi e le ipocrisie, ma perché ne indicava la debolezza, l’inedia e la fondamentale passività con una bonarietà e un’indulgenza che fanno venire in mente le esortazioni al bene di San Filippo Neri: State buoni se potete. Non si tratta di satira, dunque, o di sberleffo, tutt’altro, è una farsa innocua che ricorda le recite parrocchiali. Non quelle degli anni cinquanta, ben inteso, quelle della chiesa post-conciliare fintamente ecumenica e accomodante. I conservatori vedevano Fellini sostanzialmente come un loro fratello, solo un po’ birichino, un figliolo che sarebbe stato prodigo.

Dopo il successo del film che si meritò anche un leone d’argento alla mostra d’arte cinematografica di Venezia, uno spregiudicato produttore diede a Fellini un ingente somma e carta bianca per girarne il seguito che avrebbe dovuto intitolarsi e avere per tema: Le Vitelline, tanto per capire qual era stata la ricezione del film presso il grande pubblico.

I Vitelloni di quegli anni, dalla gioventù così scapestrata e vana, riportati nei ranghi dalle responsabilità della vita di adulti, sarebbero diventati, per contrappasso, i borghesi tromboni e moralisti del decennio successivo. Molti di loro sarebbero diventati i padri repressivi, gli uomini di potere contro i quali si scagliarono i giovani della contestazione. Non è difficile immaginare il figlio di Fausto e Sandra, il grasso Moraldino che dice solo buh, una volta cresciuto, militare nelle fila di qualche organizzazione studentesca d’ispirazione extra-parlamentare.

Naturalmente Fellini nel 1953 non poteva assolutamente prevedere le dinamiche future della società italiana, ma la sua mancanza di prospettiva è dovuta anche al modo nel quale descrive i propri personaggi e le loro vicende. Quello che gli interessa raccontare, in questo caso, (lo fa in modo sublime) non è tanto il loro incamminarsi verso il futuro, che gli sembra evidentemente inessenziale, ma cogliere quel momento di sospensione che, in loro, precede ogni decisione e ogni obbligo. In questo senso vanno intese le sequenze del vagabondare notturno del gruppo di amici per le strade deserte o la domenica grigia d’inverno, in riva al mare.

Ad essere sinceri però qualcosa riusciva a prevedere, intuiva che qualcosa stava e doveva cambiare radicalmente ma gli appariva solo come un misterioso orizzonte di eventi. Forse proprio per questo, il film si apre con un fortunale che si abbatte sullo stabilimento balneare alla fine di una gremita serata danzante di fine estate durante la quale viene eletta Miss Sirena 1953, che è Sandra, la sposina, una delle protagoniste del film, come si è detto.

Moraldo il fratello e alter ego di Fellini vede da lontano i lampi del temporale che si avvicina: “E’ finita la festa! Guardate là un fulmine” dice. Qualcun altro minimizza “E’ solo una breve nuvola” ma poi quando vento, tuoni e rovesci fanno rifugiare tutti all’interno dello stabilimento, stretti stretti, sempre Moraldo: “E’ bellissimo la fuori, sembra la fine del mondo!” Quello che il regista sembra voler dire è che con quell’estate ha termine anche la gioventù dei protagonisti sfaccendati della vicenda. La vita vera comincia a precipitarli nelle gole strette delle responsabilità che hanno sempre scansato. Non c’è solo Fausto che ha messo incinta la fidanzata e viene costretto al matrimonio riparatore, ma anche Leopoldo che aspira a fare lo scrittore e si appresta a veder fallire e rifiutare l’ennesima commedia, Riccardo che continua a mettere su peso e non diventerà mai il cantante che sperava, e ancora Alberto che vede turbata l’apparente tranquillità della famiglia dalla relazione della sorella con un uomo sposato e ancora altro.

Ma non c’è solo questa interpretazione personalistica e unidimensionale dell’episodio. Il temporale preannuncia anche qualcosa di misterioso, indecifrabile e inquietante che si preannuncia per il futuro. Col senno di poi dobbiamo ammettere che non si sbagliava proprio per niente. La civiltà dei consumi, l’industrializzazione, il boom economico, gli sconvolgimenti politici internazionali porteranno, nel decennio successivo alla realizzazione del film, ad una radicale trasformazione del tessuto sociale italiano. Cambierà anche il cinema di Fellini, lo sappiamo bene, testimone privilegiato della temperie culturale di quell’epoca tanto da averne plasmato profondamente gli stilemi, i ritmi e l’immaginario proprio nel momento della sua mutazione.

Ne I Vitelloni sono già presenti alcune tematiche sulle quali il regista continuerà a lavorare tutta la vita approfondendo, deformando, riscrivendo e quasi seguendo i propri personaggi nella loro crescita e disavventure. E’ possibile anche considerare, com’è stato fatto, una parte della cinematografia del maestro riminese come un flusso continuo di memoria pseudo-autobiografico, anzi Mitobiografico secondo le indicazioni dello psicoanalista Ernst Bernhard.

Non è difficile individuare soprattutto nei primi film due film e mezzo (il primo è una co-regia) una comunanza tematica e prospettica piuttosto evidente.

Luci del varietà di Lattuada e Fellini (1951) racconta di una scalcagnata compagnia di varietà che si arrabatta proponendo lo spettacolo “Faville d’Amor” negli squallidi teatri di provincia tra lazzi di improbabili guitti e lo sgambettare delle soubrettine. Una di queste fa perdere la testa al capocomico che lascia moglie e compagnia per tentar fortuna con la bellona. Naturalmente fallisce e ritorna a casa con la coda tra le gambe mentre la femme fatale finisce con un ricco impresario.

Ne Lo Sceicco Bianco (1952) una coppia di giovani sposi è a Roma per il viaggio di nozze e conseguente visita parenti. Lei infatuata di un divo dei fotoromanzi (lo Sceicco Bianco) scappa dall’albergo per incontrarlo ma ne resterà delusa. Lui la cerca ovunque e disperato una notte finisce con due simpatiche prostitute borgatare senza riuscire a combinare niente anche per i sensi di colpa. La vita di una delle belle di notte sarà raccontata da Fellini ne Le notti di Cabiria (1957). Dopo tutta una serie di peripezie la coppia, giocoforza, si riunisce anche per salvare le apparenze davanti ai familiari. A lui resterà per sempre il dubbio dei tradimenti di lei e viceversa.

Ne I Vitelloni (1953) Fausto e Sandra i due sposini se ne vanno in viaggio di nozze proprio a Roma, dove vedono un varietà famoso con Wanda Osiris, la star con la quale nei giorni delle riprese Alberto Sordi, che interpreta uno dei Vitelloni, davvero lavorava. Il ritorno dalla capitale sarà l’inizio dei loro problemi con i tradimenti di lui e l’ingenuità violata di lei. Nel paese di provincia dove vivono i nostri eroi ad un certo punto arriva un’altra scalcagnata compagnia di varietà che mette in scena nel solito, cadente teatro comunale proprio quel Faville d’amor di cui abbiamo detto più sopra.

La generazione che Fellini vuole descrivere è quella (la sua) che ha vissuto la propria gioventù sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ne è uscita disillusa e piegata, senza più voglia di credere nel futuro. E’ un mondo sconfitto e prostrato che intrattiene le proprie miserie con lazzi e scherzi. Mi fate tutti schifo dice Albertone, ubriaco, nella celeberrima scena del gran ballo di carnevale.

Qualcuno ha considerato la pellicola come una commedia atipica. In realtà è un’amara tragedia che si consuma tra mura domestiche, nei nostri paesi e nelle nostre piazze. Lo sguardo del regista è quasi sempre amaro e cattivo sui casi umani, degli autentici “mostri” d’egoismo che descrive in modo caricaturale e spesso maligno. Non c’è proprio niente di bonario e consolatorio nella messa in scena di Fellini.

Italo Moscati ha intelligentemente paragonato i personaggi di questo film proprio a quelli de I Mostri di Dino Risi (1963) dei quali sarebbero gli antecedenti cinematografici.

Scrive Mario Verdone, padre del regista Carlo a suo modo Vitellone, nella sua monografia su Fellini:

Vitellone” è una parola inventata, o accettata, dal regista per designare il giovane perdigiorno, già abbastanza stagionato, che ha qualcuno che bene o male lo mantiene- spiega Federico- una sorella, una zia, una famiglia insomma, e in famiglia si mangia, si dorme, si è vestiti e si riesce anche a scroccare un po’ di soldi per le sigarette e il cinematografo. Nessuno di loro sa bene cosa vorrebbe fare. I piccoli lavori, le piccole occupazioni che la cittadina di provincia potrebbe offrire alla loro scarsa preparazione, li disdegnano…aspettando sono giunti, chi più chi meno, verso i trent’anni, passano la giornata a fare discorsi e scherzetti da ragazzini del ginnasio; brillano nei tre mesi della stagione balneare la cui attesa e i cui ricordi occupano tutto il resto dell’anno. Sono i disoccupati della borghesia, i figli di mamma, i “vitelloni”.

© Flaviano Bosco per instArt