L’elegante, ispirata, attenta direzione del Maestro Direttore d’orchestra Paolo Paroni ha reso possibile un autentico miracolo in musica, qualche sera fa, nella Basilica di Aquileia, sorgente e matrice della millenaria tradizione culturale e religiosa della Patrie dal Friûl e di tutti i popoli che si riconoscono nei valori autentici dell’antico Patriarcato.

L’occasione che qualcuno ha definito “triste” era il ricordo della fine del Patriarcato d’Aquileia il 19 luglio 1420 dovuto all’occupazione veneziana. Si è giustamente voluto un concerto per la rinascita dimenticandosi però che il Friuli e le sue antiche genti così come i fratelli slavi e tedeschi rinascono già da soli da seicento anni nonostante contrasti politici, guerre, incomprensioni e maneggi geopolitici che hanno spesso costretto le sue frontiere a diventare confini fisici e psicologici.

La nostra storia fatta di una teoria di secoli tutti in doppia cifra non si è certo fermata con l’arrivo del primo capitano veneziano e dei suoi armati a Udine. Per quanto riguarda la cosiddetta caduta del Patriarcato agli inizi del XV sec. il Principato ecclesiastico, voluto dall’imperatore tedesco nel 1077, già languiva da decenni soffocato dall’avidità delle lotte intestine e delle faide, dalla rissosità dei propri abitanti, dall’indolenza di chi lo guidava e schiacciato dalle sfavorevoli condizioni geopolitiche che l’avevano trasformato in facile preda per chiunque lo volesse ghermire.

Ai veneziani che da almeno un secolo cercavano, quasi indisturbati, di accaparrarsi la “terraferma”, molte nobili famiglie patriarchine furono felici di consegnare “spontaneamente” le misere spoglie di tanta gloria passata.

A noi semplici e modesti amanti della musica spetta solo di provare a restituire, come possiamo, le meravigliose emozioni che il coro e l’orchestra del Friuli Venezia Giulia hanno saputo donarci l’altra sera in Basilica. È ai cuori generosi e alla magia di quegli artisti che è affidata davvero la nostra rinascita non certo alla retorica parolaia delle celebrazioni e alla prosopopea degli uffici di promozione turistica. Per tutto il resto, come si canta solennemente nel Requiem di Mozart:

Stupefatte saranno morte e natura/ quando ogni creatura risorgerà/ per rispondere a colui che ci giudica/ sarà portato un libro/ in cui tutto è annotato/ per giudicare il mondo/ quando il giudice sarà assiso/ tutto ciò che era nascosto apparirà/ e nulla resterà impunito!

Il programma di sala faceva da solo tremare di gioia qualunque appassionato anche il più distratto. I brani sapientemente scelti con gran gusto e accuratezza filologica per significato e importanza, costituivano da soli un preciso itinerario e per il loro semplice accostamento possono essere considerati uno dei precisi canoni di ciò che definiamo “musica classica” che si riassume ed esprime per l’appunto nel rapporto dinamico tra due autentici demiurghi come Haydn e Mozart.

Più nel particolare, esattamente in quella simbolica linea che lega Il “Grande Te Deum” in Do maggiore per coro e orchestra di F.J. Haydn alla Sinfonia n°40 in sol minore e al Requiem in Re minore di W.A. Mozart. In buona sostanza una ricapitolazione di tutta la storia della musica fino allora concepita e una sonora ipoteca su tutta quella che lo è stata da quel tempo a noi e molto oltre.

Perfino la scelta del bis dopo il finale trionfale dimostra l’arguta e lungimirante prospettiva di chi ha pensato di concludere con il coro dell’Hallelujah dal Messiah di G.W. Haendel che si innalza verso il re dei re il quale assumerà il vero potere su ogni regno, ogni re e ogni tempo.

Le opere esegetiche di Haendel, in un certo senso, preludono e anticipano la seconda spirituale navigazione negli oceani musicali dei due immensi compositori di fine secolo XVIII.

Per nulla secondario, lo accennavamo più sopra, nemmeno il luogo nel quale si è svolto il concerto. La basilica dedicata a Santa Maria Assunta, edificata nel cuore di una delle città romane più antiche e cariche di storia (la seconda Roma per un certo periodo) a sua volta collocata in un luogo geografico strategico di fecondi incontri tra mondi e culture diverse (slavo, latino, tedesco). Una città che ha una tale stratificazione di simboli, significati e memorie storiche da abbracciare l’intera storia tra Oriente e Occidente. Letteralmente dalle primissime tracce paleolitiche fino alle Guerre mondiali dello scorso secolo, fino alla Cortina di ferro, la caduta del Muro, le guerre balcaniche e oltre.

Che le nostre radici culturali siano aggrappate tutt’ora a quelle pietre lo racconta una straordinaria scoperta archeologica di solo qualche anno fa.

Nei pressi e precisamente nella campagna di Terzo d’Aquileia, è stato scavato un sito dai quali sono emersi inequivocabili e significativi elementi e tracce che hanno permesso di retrodatare la coltivazione e il consumo dei frutti della vite almeno all’età minoica. In parole povere, quando Ulisse convinceva a proprio modo il ciclope che il vino era meglio del latte del suo gregge, le antiche genti che abitavano nei dintorni della futura Aquileia già brindavano felici alla loro salute.

Sappiamo bene quale sia l’immensa importanza culturale, simbolica, storica e sociale della vinificazione per il nostro territorio, il nettare che sgorga copioso dall’Albero della vita è il medesimo sangue della divinità.

Per tutti questi motivi per nulla estemporanei, eseguire nella Basilica uno dei più celebri brani della storia della musica come il Requiem che riflette sugli ultimi giorni dell’umanità, sul giudizio finale e sulla speranza della luce eterna significa mettere in risonanza tutte quelle tracce, evocare la relazione tra il tempo dell’uomo e quello dell’Eterno in questo frammento della Creazione.

Alcuni luoghi, particolarmente antichi e sacri, hanno la forza di custodire la memoria e l’energia della passione, del fervore, del furore e della fede che in essi si sono espressi durante i millenni; vibrano ancora delle preghiere, delle suppliche, esaltazioni, speranze, dolori, sconforto, gioie, amarezze, illusioni e molto altro delle genti che li hanno hanno abitati, vissuti, sognati.

La grande musica ci aiuta a riconoscere quelle vibrazioni che dal Tempo si riverberano in quelle pietre fino ad intonare ad esse le corde del nostro cuore. Indiscutibilmente, ne hanno avuto una prova inappuntabile gli spettatori che urbanamente gremivano la Basilica accomodati a distanza di sicurezza sui banchi delle navate laterali o seduti in ordinata fila direttamente sul grande mosaico di quella centrale, per fortuna protetto da spesse stuoie di juta. Dalle prime file si rimaneva ammaliati dall’effetto dell’orchestra schierata di fronte all’altare e del coro disposto in alto sulla scalinata che lo divide dal transetto e dietro ai musicisti e ai cantori appariva la ieratica imponenza degli affreschi che risplendono di luce divina nel trionfo della volta dalla quale la Santissima Vergine e il Figlio dell’Uomo ci guardano.

Non capita tutti i giorni di trovarsi seduti sui mosaici di una Basilica millenaria, accomodati su sedute realizzate ingegnosamente con semplici scatole di cartone. Tra il pubblico e l’orchestra poteva scorgersi ancora il meraviglioso mosaico che racconta la storia di Giona inghiottito dal Leviatano e sprofondato nel mare scuro pieno di tenebrose creature e risputato all’ultimo perché ha affidato tutta la propria speranza all’Altissimo. Il coro del Requiem di Mozart canta: “Non mi abbandonare ma chiamami tra i giusti perché io confido in te” e intanto sembra già di sentire quel Voca, Voca me, sussurrato con flebile voce implorante mentre i dannati maledetti sono condannati al fuoco della Geenna. Come dicevamo, la Salvezza ad Aquileia guarda, fedeli e non, dalla volta centrale sopra l’altare incarnata nel bambino in braccio alla Madre con ai piedi gli evangelisti, gli apostoli e tutti i santi martiri tra cui Ermacora e Fortunato, celebrati, solo una settimana fa con un altro splendido concerto sul sagrato del Duomo di Udine che abbiamo doverosamente recensito.

Protagonisti della postrema opera mozartiana due strumenti che raramente siamo disposti a considerare di primissimo piano: il corno di bassetto e il trombone tenore, in questo caso specifico. È un organico davvero singolare in tutto il repertorio mozartiano che ha, anche per questo, un’importanza decisiva. L’accuratezza dell’esecuzione delle loro parti condiziona in un senso o nell’altro tutta la resa orchestrale dell’opera.

Ad Aquileia proprio le voci di questi strumenti hanno guidato gli spettatori fin dentro le loro stesse anime; le battute d’apertura del Requiem con la voce implorante dei corni di bassetto che indica l’iniziale disperazione dei morenti e il solo del Tuba mirum del trombone che evoca le trombe del giudizio alla fine dei tempi, sono stati decisamente tra i momenti più emozionanti di tutta l’esecuzione, anche perché attesi e sospirati da chi ha una certa familiarità con la composizione. Un plauso sincero e riconoscente ai maestri di questi strumenti. Certo è facile esaltarsi per il Kyrie, il Rex tremendae Maiestatis, spaventarsi al Confutatis maledictis o piangere calde lacrime durante il Lacrimosa, soprattutto quando risuonano le voci straordinarie del Coro FVG che il Maestro Dell’Oste ha saputo far crescere ed educare in lunghi anni di lavoro e diverse centinaia di concerti; più complicato ma altrettanto gratificante, è prestare attenzione alle prassi esecutive che il genio di Mozart ha pensato per far esprimere alla compagine orchestrale esattamente ciò che voleva esprimere. Tutto questo anche se sappiamo benissimo che si tratta di una composizione per lo più spuria, manipolata, mutila, lambiccata che Mozart lasciò incompleta e che l’amatissima moglie Constanze permise, a fini di lucro, che fosse “contaminata” da almeno altre quattro mani e terminata dall’allievo prediletto del marito F.X. Süssmayr che fece tutt’altro che un pessimo lavoro. Solo un certosino lavoro filologico ci ha permesso di riconoscere aggiunte, interpolazioni, taglie, cesure che rendono, paradossalmente, ancora più intenso il capolavoro.

Sulla composizione grava perfino una leggenda nera piuttosto inverosimile che la vorrebbe commissionata da Salieri al fine di assassinare il rivale Mozart. Proprio come si vede nel celebre film di Milos Forman, cinematograficamente notevole ma altrettanto reticente e bugiardo.

Notevole nell’esecuzione in Basilica anche le parti per archi che l’ensemble ha saputo interpretare perfettamente a partire dall’efficacissimo “tremolo” degli archetti sulle corde che ricorda il tremito e il tremolio della luce futura nel ricordo delle cupe fiamme della reminiscenza.

Convincente anche la prova dei cantanti solisti anche se in sostanza la stessa partitura li relega al ruolo di comprimari rispetto alla forza irruenta e tellurica che viene dal coro e dalla compagine orchestrale.

È stata poi la volta della sinfonia n° 40 in sol minore sempre di Mozart. Una gioia quasi infantile ci pervade al sentire il tema principale della composizione tanto quella melodia ha saputo agglutinare il nostro immaginario musicale in questi ultimi secoli. È stata rimaneggiata, riscritta, imitata in ogni forma possibile. Dall’opera verdiana alla musica contemporanea e perfino in alcuni fastidiosi jingle pubblicitari, da quando il suo autore le diede la luce traendola a sua volta da suggestioni musicali precedenti, la cellula germinativa di questa composizione non ha fatto altro che crescere e moltiplicarsi come è precipuo del vivente, diventando forma, colore, immagine e perfino clichè di tante altre meraviglie in musica.

Com’è noto, noi apprezziamo e riconosciamo musicalmente come capolavoro solo quello che già conosciamo, proprio come nella dottrina platonica della reminiscenza. Le composizioni di W.A. Mozart sono per l’appunto la sublime ricapitolazione di tutto quello che le precedeva e il punto di partenza di tutto il resto. Almeno abbiamo imparato a percepirle in questo modo.

Nel secondo movimento della sinfonia, il flauto e il fagotto ci deliziano con i loro gorgheggi. Al maestro Paroni è affidato il difficile compito di gestire gli attacchi e di dare i tempi giusti essendo l’unico riferimento possibile in quella situazione di “distanziamento sociale” dei musicisti che da veri professionisti hanno saputo adattarsi ad un’obbligata scomoda disposizione orchestrale che, se ha avuto il merito di rispettare le prescrizioni anti Covid e qualche effetto scenografico di rilievo per gli spettatori, li ha messi di certo in una qualche difficoltà soprattutto per l’ascolto d’insieme e per il ritorno sonoro.

L’incedere del terzo movimento è arioso e quasi maestoso con il bordone di contrabbassi e violoncelli e il rispondere concitato degli ottoni e dei legni. Subito di corsa nel quarto movimento, un vero e proprio galoppo d’archi leggeri. La sensazione che se ne riceve è proprio quella di una corsa su di un rapido destriero in aperta campagna baciati dal sole che sembra non arrestarsi nemmeno dopo il finale allegro assai.

Negli anni ultimi anni della sua vita, quando Mozart compose il Requiem e la sinfonia n 40, insieme a moltissima altra musica sublime (La clemenza di Tito, Il flauto magico, ecc.), a Vienna era in corso una vera e propria Haendel renaissance, ovunque si sentivano risuonare le note del grande Maestro del periodo barocco, anche tra le righe del pentagramma mozartiano. Era ancora così quando, diversi anni dopo, il contemporaneo F.J. Haydn tornò in patria dopo la feconda esperienza londinese e compose il suo celebre Te Deum su esortazione diretta dell’imperatrice d’Austria, eseguito la prima volta a Vienna nell’ottobre del 1800 per la visita dell’ammiraglio inglese Lord Horatio Nelson, un altro distruttore di imperi, che, per restare in modo un po’ arzigogolato al tema della serata, fu tra coloro che distrussero le smisurate ambizioni di Napoleone il quale nel 1797 aveva dissolto la Repubblica di Venezia che a propria volta nel 1420 aveva causato la caduta del Patriarcato di Aquileia. In musica tutto si tiene, basta solo saper legare e armonizzare le parti e si perdoni la spericolatezza di queste ultime righe.

Gli echi barocchi rendono il Te deum allo stesso tempo fastoso e severo, caratterizzato soprattutto dalla sgargiante luminosità degli ottoni e dal rombo marziale dei timpani, sempre di piacevolissimo ascolto soprattutto se diretto e interpretato da una compagine che è apparsa compatta e coesa con un notevole gioco di rimandi tra orchestra e coro… Et laudamus nomen tuum in saeculum et in saeculum saecoli.

Non c’è bisogno di ripetere che, per le ragioni che abbiamo argomentato, non ci poteva essere scelta migliore dell’Hallelujah di Haendel per concludere nel bis.

Per concludere queste righe è il caso di ricordare una recente preziosa e graziosa pubblicazione per i tipi della Guarnerio editore di Udine nella nuova collana minimae res: Aquileia, i Simboli di Paola Barigelli e Maria Bosco che per l’appunto illustra e spiega i simboli principali dell’arte aquileiese. Tra le tante meravigliose figurazioni ce ne son almeno due di straordinaria importanza anche in relazione al concerto celebrativo del Patriarcato di cui abbiamo detto. Il primo è quello dell’uva e dei suoi tralci onnipresenti sia nei mosaici che nelle decorazioni architettoniche, simbolo diretto di abbondanza, fecondità, benedizione e, naturalmente, espressione della presenza spirituale di Cristo durante la liturgia eucaristica. Altrettanto significativo e distintivo della simbologia Aquileiese il Nodo di Salomone:

Figura formata da due anelli schiacciati incatenati tra loro, rieccheggia un senso di equilibrio, giustizia e distribuzione. Particolarmente diffuso nei mosaici aquileiesi, campeggia come simbolo del legame di unione tra Uomo e Divino. L’abbinamento nominale a re Salomone, sembra legato al prestigio del sovrano biblico, per le sue doti di giustizia e imparzialità”.

È precisamente questa la vera eredità del Patriarcato di Aquileia che dovremmo saperci meritare esaltandola in musica: libertà, giustizia, fratellanza e unione tra tutte le genti…

Applausi di gente intorno a me…applausi, oceano di mani.

© Flaviano Bosco per instArt