Nella splendida cornice di Piazza Libertà a Udine, proprio nel luogo dove si comminavano le pene capitali e le pubbliche torture, squartamenti e flagellazioni comprese, mentre le statue di Ercole e Caco mostravano divertiti le terga al folto pubblico accorso sotto l’egida del Leone di San Marco, la musica dal vivo e in presenza ha ripreso il posto che le spetta allontanando anche il ricordo del maledetto morbo, almeno per qualche ora.
Nell’attesa del concerto, dagli altoparlanti risuonavano le splendide note delle colonne sonore di Ennio Morricone, un omaggio dovuto e necessario al grande maestro da poco chiamato a comporre la colonna sonora del Paradiso, forse non siederà proprio alla destra di Beethoven come ha sostenuto qualche esagerato entusiasta, ma un posto di seconda fila nell’immenso coro dei beati se l’è davvero guadagnato.
A questo proposito, il Buono, il Brutto e il Cattivo dell’occasione erano gli splendidi “pistoleri” del Weather Repost Trio: Nevio Zaninotto (sax tenore e soprano) Rudy Fantin (tastiere) Umberto Trombetta Gandhi (batteria), com’è stato detto, le colonne portanti della musica udinese e non solo, il meglio del jazz friulano e molto oltre. Fate voi tra questi chi era il Cattivo.
Appena accennati i primi colpi di batteria, la musica si è fatta subito suadente, divertita e divertente, estiva e morbida, disimpegnata senza essere superficiale. Hanno contribuito di certo all’atmosfera i suoni analogici e valvolari delle tastiere (Nord Electro 5HP e organo Viscount Legend), il drumming elegante e raffinato della batteria e le Blue Notes del sassofono che hanno immediatamente tessuto una rete di suoni che, a strascico, hanno catturato l’attenzione non solo del fitto pubblico accomodatosi nella platea a cielo aperto ma anche di quella seduta ai tavolini dei bar della piazza, assiepatasi sotto la Loggia del Lionello e anche dei semplici passanti. Tutti, naturalmente, sotto le stelle del Jazz.
Le amministrazioni comunali, finalmente, sembrano aver capito che “suonare le città” non è solo un vezzo da parvenu ma una vera e propria necessità esistenziale. La musica, oltre a divertirci, salva le nostre anime incarognite da tante miserie quotidiane e ci educa alla bellezza e alla convivenza. Così, dopo aver impreziosito i centri storici, si potrebbe valutare la decisione di inviare nei quartieri cosiddetti difficili meno divise e pattuglie e più legionari armati di sax e chitarre perché come cantavano quei guerrieri luminosi del pentagramma: Nei tuoi occhi c’è una luce/che riscalda la mia mente/ Con il suono delle dita/ si combatte una battaglia/ che ci porta sulle strade/ della gente che sa amare/ che ci porta sulle strade/ della gente che sa amare.
In sintesi, ci vogliono molti meno mitra e più contrabbassi, meno chiacchiere malevole e pregiudizi e più concerti. Forse non sarà solo la musica a salvarci ma, di certo, può rendere più sereni e gioiosi i nostri giorni.
U. T. Gandhi di Osoppo queste cose se le ricorda bene visto che la sua splendida carriera musicale cominciò proprio durante un evento organizzato in favore dei terremotati nel bel mezzo del gelido inverno del 1976. Scrive:
“Ricordo una nevicata eccezionale quell’anno. Ebbi la fortuna di conoscere Alberto Camerini, Eugenio Finardi, ma soprattutto gli Area, che al tempo erano i miei idoli musicali, e visto che già suonavo e avevo messo a disposizione la mia batteria, suonai con loro. Era la prima volta che suonavo musica di quel genere su un grande palco con più di 2000 persone davanti a me. Fu una grande emozione per un ragazzo di sedici anni, una serata indimenticabile…con Paolo Tofani, Ares Tavolazzi e patrizio Fariselli suonai il blues. Da li cambiò tutto.”
E’ stato forse il silenzio calato sui nostri centri urbani durante la maledetta quarantena a convincere anche i più riottosi che una città muta e senza suoni assomiglia “e di brutto” ad un cimitero. Udine, finalmente, l’ha capito e almeno il suo centro, in questo dopo-covid è del tutto rifiorito, fino ad apparire rigenerato al motto sacrosanto di meno automobili e più calici da libare sotto le stelle. Sempre meglio i tannini e le bollicine dei residui degli idrocarburi. Infatti, via Mercatovecchio e Piazza Matteotti sono ridiventati veri salotti cittadini nei quali è piacevole stare e passeggiare in mezzo ad un’autentica folla gioiosa che vive e si riappropria della città.
Qualcuno continua ancora ad indicare questi gruppi di gente felice “assembramenti” ma è destinato a non lasciare dietro di se che ricordi spiacevoli e a sparire proprio come l’orrendo virus.
Nel trio di ottimi musicisti con curricula decennali, lunghi e ricchi di straordinarie collaborazioni, spiccavano le tastiere elettromeccaniche di Fantin, non certo per un qualche tipo di arroganza o subornata leadership ma perché s’intuiva immediatamente la stoffa del compositore e dell’artista abituato alla direzione d’orchestra che sapiente e sornione spianava la strada del pentagramma che gli altri musicisti fiduciosi seguivano, tutt’altro che semplici comprimari, gli altri esaltavano e amplificavano lo sforzo del band leader.
In scaletta il brano d’apertura, Money in the pocket (1966) ha omaggiato la figura e l’opera artistica immensa di Joe Zawinul, tastierista e compositore sommo, mente geniale ispiratore e artefice della migliore musica del secondo Novecento. Vero punto d’equilibrio e musicista prediletto dal trio friulano. A questo proposito U.T. Gandhi ricorda nella suo già citato, Diario di un autodidatta, il fantastico concerto che i Weather Report tennero al Palasport Carnera di Udine nel 1981:
“In ottobre vennero a suonare a Udine i Weather Report, e per noi musicisti in formazione e in evoluzione, fu un evento importantissimo. Non c’erano molte possibilità di andare a vedere concerti in giro, e quindi aspettavamo questo evento. Fu un concerto indimenticabile. Ricordo ancora oggi, le forti emozioni che provai vedendoli…Alle cinque del pomeriggio, eravamo già in fila, per poter stare sotto il palco e quindi essere molto vicini ai nostri idoli musicali. Seimila persone, sold out, il palasport pieno zeppo di giovani appassionati…Credo che sia stata una grande opportunità e un grande stimolo per tutti noi poter ascoltare quella formazione dei Weather Report con Jaco Pastorius, Peter Erskine, Bobby Thomas, Wayne Shorter e Joe Zawinul ci hanno aperto gli occhi e le orecchie e credo che anche questa sia stata una grande lezione di vita sul non accontentarsi, ma essere sempre curiosi ed esigenti nel rispetto della musica e di noi stessi”.
Molto divertente e struggente di tenerezza anche il brano composto da Fantin in omaggio ai calzini che la sua bambina nel suo tartagliare infantile trasformava musicalmente in “Zini”.
Se bisogna trovare per forza un difetto all’esecuzione bisogna ammettere che i suoni delle ance di Zaninotto, i ritmi della batteria e le modulazioni delle tastiere sono apparsi spesso fin troppo zuccherosi e caramellati, del tutto compassati, fluidi, preziosi e pastosi; dal punto di vista strettamente tecnico tutto è sembrato quasi scolastico, senza alcuna asperità e perfettamente digeribile quasi premasticato. Un sorbetto in musica adeguato alla serata disimpegnata e all’atmosfera da dopocena ricco e da cono gelato da passeggio. Cosa volere di più da un giovedì sera di metà luglio?
Il programma è scivolato liscio e piacevole passando attraverso le soffici malie della musica di Pat Metheney (Better days) con un sentito omaggio allo compositore e suo collaboratore Lyle Mays, proseguendo con le urbane seduzioni dei Weather Report, per approdare ad “un pensiero rivolto a Claudio Abbado” (A Thought about C.B.) dello stesso Rudy Fantin.
Da notare sempre il tocco di Umberto Trombetta che sulle pelli è unico e riconoscibile, si distingue per una naturale delicatezza e sobrietà. Abituati, come siamo, alla violenza fracassona di un certo drumming eccessivo e muscolare, spesso ci dimentichiamo che esiste anche una ritmica asciutta ed emotiva, precisa ma anche sentimentale. Fa sempre un certo effetto sentire “sussurrare” i piatti sotto le bacchette al posto dei boati a “pedale”della grancassa soprattutto se a suonare è un omone grosso come un albero dalle tante sigarette ma dalla forza gentile.
Nel finalone un tropicale danzereccio reaggetton degli anni ‘60, divertente e scanzonato, scritto da Zaninotto; ma, mentre il pubblico stava quasi per alzarsi a fare quattro salti, dall’organizzazione è arrivato d’imperio lo stop, le regole di distanziamento sociale anti-covid non lo permettono, e così tutti sono ripiombati nel solito sottile malessere che da mesi ci ammorba. Il sogno estivo era finito, il pubblico è stato costretto a tornare alla squallida realtà ma c’era ancora il tempo per un ultimo nostalgico bis. Epistrophy di Thelonious Monk che ha ricordato a tutti che il Jazz è soprattutto, come diceva il sassofonista Steve Lacy, un virus, un virus di libertà, che si è diffuso sulla terra, “infettando” tutto ciò che ha trovato sulla sua strada: il cinema, la poesia, la pittura, la vita stessa.
© Flaviano Bosco per instArt