Nech je Svetlo / Let There Be Light / Che sia fatta luce

Vincitore quest’anno del Premio InCE (Iniziativa centro Europea) il regista Marko Škop porta in scena la sua Slovacchia con occhio fortemente critico, cesellando personaggi ambivalenti e credibili. Il film narra la storia di Milan muratore emigrato in Germania per mantenere la sua famiglia in Slovacchia. Durante le vacanze di Natale ritorna a casa dai suoi tre figli e dalla moglie e deve confrontarsi con una realtà di cui ignorava e preferisce ignorare fino ad un certo punto l’esistenza. Nel paese un ragazzo dell’età di suo figlio maggiore si getta sotto ad un treno. Pian piano emerge il coinvolgimento del suo primogenito negli atti di bullismo che hanno spinto il giovane a suicidarsi e la pellicola segue lo straniamento di Milan e la sua difficile presa di consapevolezza. Il film in realtà ci mette di fronte ad una tematica ben precisa. Marko Škop narra lo straniamento di un uomo di fronte alla società che lo circonda. Il regista, che ha maturato una notevole esperienza come documentarista, dipinge un’emergenza sociale. In Nech Je Svetlo si mostra infatti l’influenza dei gruppi paramilitari giovanili sui ragazzi slovacchi a cui volenti o nolenti sono invitati ad unirsi con la complicità di una Chiesa xenofoba e omofobica cristallizzata nella figura del sacerdote locale mellifluo ed arrogante vero istigatore della violenza che serpeggia nel paese.

La generazione di Milan resta sospesa fra un passato comunista e antidemocratico che assume nel film le sembianze del suo temibile, ma alla fine integro, padre e un futuro in cui i suoi figli vengono “rubati” dal potere di Chiesa e gruppi paramilitari nel tentativo di forgiarli ad un credo nazionalista. Al quadro si somma l’ulteriore connivenza degli organi di Polizia. Nel film non si indaga veramente sulle motivazioni del suicidio, la famiglia del giovane, su cui pende il terribile sospetto di essere stato omosessuale, viene isolata e lasciata a se stessa e quando Milan vorrà aiutarla tutti i suoi cari ne pagheranno le conseguenze. E Milan sta in bilico, nella prima parte del film lo vediamo giocare ai videogiochi nella sua stanzetta in Germania come fosse estraneo alla realtà; lo vediamo imbracciare e far imbracciare ai suoi figli, quasi per gioco, i suoi fucili, la sua collezione di armi custodita in una preziosa vetrinetta. La sua presa di consapevolezza è lunga e difficile e alla fine diviene la presa di consapevolezza dello spettatore. Lasciando tuttavia aperte molte domande alla fine della proiezione.

Monştri / Monsters / Mostri

Opera prima del fotografo rumeno Marius Otteanu il film si sviluppa narrando una giornata di Dana e Arthur, moglie e marito, svelando pian piano retroscena e difficoltà di questa coppia di quarantenni. Svelamento che viene veicolato attraverso un’interessante escamotage. Il film è diviso in tre parti, la prima ci racconta di Ana, la seconda di Arthur, mentre nella terza i due sono riuniti. Otteanu decide di simulare per le prime due parti un 4/3 che diviene formato panoramico solo nell’ultima parte, quando i due si reincontrano.

Nelle prime due parti costringe così lo spettatore a stare strettamente a contatto con i protagonisti che rinchiude in questo formato, costruendo in maniera scrupolosa le inquadrature e includendovi due riuscitissimi personaggi secondari: il taxista suscettibile dell’episodio di Dana e il dongiovanni ipocondriaco in quello di Arthur. E’ forse nella terza parte però che il film non riesce ad interessare veramente. Bucarest, una dei protagonisti che Otteanu vorrebbe per il suo film, in realtà non diviene mai centrale prima perchè esclusa giocoforza dall’inquadratura e poi perchè irrilevante ai fini della storia . Gli interni studiati rigorosamente amplificano invece quella certa elegante freddezza che emerge più volte nel film e che si sposa perfettamente con quella di Dana.

Gli attori paiono lavorare sottotraccia, in sottrazione, riuscendo a rappresentare le inquietudini, più che i mostri, dei loro personaggi. Personaggi che alla fine risultano volutamente e convintamente sperduti nella loro realtà, grigi e spenti. Alla fine una decisa posizione di Otteanu nei confronti della coppia.

Ivana Cea Groaznică / Ivana The Terrible / Ivana la Terribile

Vero atto di coraggio narcisista di Ivana Mladenović che nel film mette in scena la sua vita e il suo caratteraccio senza facili autoassoluzioni e forse proprio per questo autoassolvendosi in partenza.
Nel film l’attrice e regista serba racconta una sua crisi umana ed artistica con toni che oscillano dal realista al grottesco. Attrice di successo in Romania Ivana si trova a dover affrontare dei seri disturbi psicosomatici e decide di ritornare dalla sua famiglia a Kladovo sua città di origine al confine fra Serbia e Romania. Qui, immersa in una chiassosa confusione di cui è la prima artefice, Ivana verrà coinvolta dal sindaco locale nell’organizzazione del festival che celebra il gemellaggio serbo-rumeno e intesserà una storia d’amore con un ragazzo di 15 anni più giovane dando, in provincia, notevole scandalo.

Punto focale di Ivana la terribile, oltre ad Ivana, sono le persone che le girano intorno e non si può parlare di personaggi perchè di fatto la regista ha coinvolto i suoi veri famigliari ed i suoi veri amici per girare la pellicola. E se viene il sospetto, sentendola presentare il film alla fine della proiezione, che la sua famiglia non sia proprio entusiasta della cosa, tant’è. Il film trasmette, con notevole freschezza, le storie dei suoi eccentrici protagonisti, aggressivo nel suo voler essere senza filtri. Eccessivo e divertente trova la sua forza nella mancanza di messaggi e riflessioni. Scorre come la vita, in maniera imperfetta, colorata e a volte un po’ surreale.

Kot w scianie / Cat in the Wall / Un gatto nel muro

Prendendo le mosse dall’esperienza personale di una delle due registe bulgare Mina Mileva il film, ambientato a Londra, vuole raccontare i quartieri popolari della città alla vigilia della Brexit. Le due registe Mileva e Vesela Kazakova hanno alle spalle una solida esperienza come documentariste e Mina Mileva trasferitasi a Londra vent’anni fa ha potuto confrontarsi con i problemi legati alla migrazione economica e al successivo, inaspettato inasprimento

della diffidenza e intolleranza nei confronti di questa migrazione, soprattutto in anni recenti. Il film prende le mosse da un fatto di cronaca vera: in un quartiere popolare di Londra solo i condomini proprietari degli appartamenti si vedono costretti a pagare per i lavori di ammodernamento degli infissi di tutti gli altri abitanti delle case popolari, compresi quelli nulla tenenti. Tra i proprietari ci sono anche Irina e la sua famiglia composta dal fratello Vladimir e dal figlio. Rappresentanti di una media borghesia bulgara lei architetto e lui docente di storia, si barcamenano con lavori precari, mantenendo però una certa orgogliosa dignità. Trovarsi un nuovo debito sulle spalle rende la già non facile situazione esasperante e Irina cercherà di farsi promotrice di una protesta coinvolgendo gli altri proprietari. Un gattino ritrovato e adottato dalla sua famiglia diverrà il pretesto per far esplodere le mal celate conflittualità sociali con i vicini di casa.

Un gatto nel muro è uno spaccato molto preciso di un certo tipo di società e ne rappresenta le ambiguità. Il grande assente è lo Stato che,rappresentato solo dalla Polizia alla fine del film, non è in grado ne di essere equo, ne di rendersi conto delle difficoltà degli abitanti dei quartieri popolari. Il razzismo è strisciante e pervasivo e la cappa che permea il film e pesa sui personaggi è quella di una insostenibile frustrazione perfettamente trasmessa dalla messa in scena.

Oroslan

Tratto da un racconto di Zdravko Duša, il film dello sloveno Matjaž Ivanišin narra le reazioni di un piccolo villaggio alla morte di un uomo di nome Oroslan. Reazioni che nelle intenzioni dovrebbero dipingere un quadro rappresentativo dell’uomo o almeno di cosa quest’uomo sia stato per le persone che lo circondavano. Il film però non riesce a restituirci realmente né una sensazione, né una speculazione intellettuale di ciò che Oroslan possa essere stato. Il tentativo di ricercare la poesia delle cose, si traduce in una dilatazione inutile del tempo delle inquadrature, dei silenzi e delle attese. Non c’è coerenza narrativa, il registro stilistico appare scardinato. Il film si spezza confuso fra un istinto documentaristico addomesticato malamente e scene recitate da professionisti più sensate e potenzialmente coinvolgenti. Le due anime del film non riescono a mescolarsi, i bordi non collimano mai e la sensazione fastidiosa che ne deriva fa percepire come pretestuose e casuali quelle punteggiature che vorrebbero e potrebbero esserci, ma che galleggiano inosservate nel flusso del film.

Katia Bonaventura © instArt