Al Teatro Pasolini di Cervignano, è andato in scena il vibrante appuntamento conclusivo della II edizione dello splendido Festival del Coraggio a cura dell’inarrestabile Biblioteca Errante, gregge di “pecore matte” che, da un pezzo, vanno felicemente trasumanando e organizzando le culture del nostro territorio, coadiuvati, in questo caso, dall’Associazione Euritmica.

Prima della conversazione-concerto con Eugenio Finardi si sono ricordati gli intensi momenti passati durante i tre giorni della manifestazione.

Sembrava che risuonassero nei cuori di tutti i partecipanti le parole che Antonio Gramsci scrisse l’ 11 febbraio 1917:

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.

I tre giorni di questa gran bella edizione del Festival sono stati una vera e propria maratona di eventi e di incontri con ospiti di caratura internazionale che hanno fatto del coraggio di agire per il bene degli altri il significato della loro vita. Tutti gli incontri hanno visto la presenza di un foltissimo e partecipe pubblico, talmente caloroso da far emozionare ospiti e relatori, proprio come ha dichiarato il direttore artistico. La manifestazione con le quattromila presenze solo della giornata di chiusura secondo la questura, probabilmente erano molti di più, ha dimostrato le proprie esponenziali potenzialità di crescita. Nonostante i ritmi serratissimi tra una conversazione e l’altra, la grandissima volontà di partecipazione del pubblico si è fatta sentire ed era possibile percepirne il riverbero in tutta la città che ha accolto, anche quest’anno, i coraggiosi erranti nel migliore dei modi.

I presenti sapevano bene che:

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti”.

Il Festival ha alzato decisamente il tiro e non ha sbagliato un colpo. Le conferenze di Fiammetta Borsellino, Piergiorgio Oddifreddi, Beppino Englaro, Malio Baliani, Slavenka Drakulić, Nezan Kendal e tutti gli altri hanno toccato temi delicatissimi e di stretta attualità proprio nei drammatici momenti nei quali le coraggiose combattenti curde fronteggiavano l’invasione della loro terra da parte del macellaio turco Erdogan, dimostrando sul campo il vero significato del coraggio di sacrificare la propria vita per la libertà e la democrazia.

Sul palco del teatro Pasolini il sindaco di Cervignano Gianluigi Savino e soprattutto l’assessore alla cultura Zambon Alessia, vibrante pasionaria, hanno ricordato le emozioni, reazioni, immaginazioni, vibrazioni delle giornate appena trascorse tra un incontro e l’altro ribadendo che è sempre necessario avere il coraggio di ascoltare, dissentire, ribadire, discutere, condividere, negare, dialogare.

Il coraggio non è un’idea astratta ma è un atto concreto, qualcosa che risponde all’imperativo categorico di fare quello che è giusto e che è bene e che significa allargare gli orizzonti aprendosi agli altri, per fare in modo che non ci sia paura ma solo libertà. Come ha sostenuto il sindaco, Cervignano si è scoperta ancora una volta città aperta alla cultura e all’incontro con la diversità e mentre qualcuno, nel nostro paese, si ostina in ogni modo ad allestire festival della paura e fiere della carne per i soliti loschi scopi di potere, in quella città si pensa a celebrare il coraggio di lottare contro ogni ingiustizia.

Quella da combattere “è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare”.

Sul palco per qualche parola anche il presidente di Euritmica Giancarlo Vellisig, dalla lunga e coraggiosa militanza per la vera cultura democratica, che ha ricordato i momenti, immediatamente successivi a rovinoso terremoto in Friuli del 1976 quando il suo gruppo musicale il Canzoniere di Aiello suonava insieme a Eugenio Finardi da sempre amico di questo territorio. Vellisig ha invitato tutti i presenti alla prossima celebrazione del cinquantenario della strage di piazza Fontana nel medesimo teatro che vedrà la proiezione dell’inchiesta giornalistica che Pasolini girò all’epoca, un incontro con l’ex magistrato Felice Casson e una suite concerto di Claudio Cojaniz, pianista da sempre attento alle tematiche politiche e del sociale. Un’occasione da non perdere.

A dare uno straordinario segno di continuità e speranza sono stati per ultimi i quaranta allievi delle scuole superiori che sono stati impiegati come stagisti nel festival. Sono proprio loro il futuro del coraggio, capaci di emozioni, di approfondimenti ma anche di spensieratezza e divertimento, certi che ciò che distingue tutti i coraggiosi sono il senso dell’etica, la responsabilità e la gioia che è slancio vitale e volontà di incontro.

Saranno loro a contribuire allo scardinamento di quel sistema nel quale “tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa, e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente”.

Dopo i saluti dello staff della Bottega errante al gran completo, finalmente è salito sul palcoscenico il tanto atteso Eugenio Finardi che, sistematosi sul suo scomodo scranno, si è sottoposto al fuoco di fila delle domande, in verità, non sempre ficcanti del moderatore Maurizio Mattiuzza, mettendo in scena un autobiografico racconto in musica pieno di aneddoti, ironia, nostalgia, incontri, sotto intesi che ha, senza alcun dubbio, estasiato il pubblico.

Per prima cosa il cantante ha ricordato che il suo legame con il Friuli deriva dal fatto che è stata una governante di Palmanova a crescerlo, una persona importantissima per la sua vita che lui considera una seconda mamma. Quella biologica, invece, era una cantante lirica americana di una famiglia molto benestante d’origine tedesco-irlandese e che si era formata nelle migliori scuole del mondo a partire dalla Juilliard di New York. Contando che Finardi si riconosce un sedicesimo di sangue ebraico ed è da parte di padre montanaro bergamasco, non lo si può certo contraddire quando si definisce un mulatto bianco che non ha mai voluto essere uguale agli altri. Lo sottolinea mestamente ricordando che volle essere stravagante anche nel momento in cui concepì sua primogenita che ne risultò affetta da sindrome di down.

Il cantante milanese ha a lungo insistito sul tema del coraggio di ribellarsi dagli stereotipi che, nel suo caso, per esempio, lo volevano prigioniero per sempre dietro la maschera del musicista rivoluzionario, giovane e capellone. In sintesi, ogni tanto è proprio necessario ribellarsi alla ribellione stessa quando quest’ultima minaccia di trasformarsi in una forma sclerotizzata che annichilisce ogni creatività e identità.

Fondamentale per la sua esperienza d’artista fu, sul finire degli anni ‘60, la pur breve appartenenza alla Numero Uno, l’etichetta discografica di Lucio Battisti. Fu in quel contesto che conobbe la Cometa rossa Demetrio Stratos, futuro leader degli Area e tutto quell’ambiente di musicisti che generò la meravigliosa stagione del rock progressivo italiano. Finardi ne fu uno degli ispiratori, partecipando di quella temperie da outsider con album epocali come Non gettate oggetti dai finestrini (1975) Sugo (1976) e Diesel (1977). Senza dimenticare la sua intensa militanza politica nelle file di quella che allora si chiamava la sinistra extra parlamentare.

Non è mai stato sicuramente tra “quelli che piagnucolano pietosamente, o tra quelli che bestemmiano oscenamente. Nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà sarebbe successo ciò che è successo?

Finardi ha poi ricordato la lucida emozione del primo ascolto di Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967) dei Beatles, l’album che ha cambiato per sempre la storia del Rock facendo esplodere in tutto il mondo il fenomeno della Psichedelia; ovunque tranne in Italia, dove ci si dovette accontentare di uno strapaesano, cosiddetto, movimento beat che anche se aveva in se ottimi germogli creativi, in realtà, non era altro che un’operazione commerciale basata su cover e sul plagio di canzoni d’oltreoceano, un altro degli effetti dell’americanizzazione del lungo dopoguerra.

Gli anni ‘70 furono caratterizzati, invece, da una lunga fiammata creativa che vide il nostro paese ai primi posti nel mondo della musica progressiva e d’avanguardia. Solo per un caso Finardi non diventò cantante e leader di uno dei gruppi più importanti dell’epoca, la Premiata Forneria Marconi, al posto di Bernardo Lanzetti. Cominciava in lui un lento processo di graduale, inesorabile distacco dal mondo dello show-business che vedeva svuotato di ogni autentica creatività artistica.

Cominciava a ribellarsi a chi lo voleva rinchiudere nel patetico clichè dell’eterno giovane ribelle che sentiva essere una maschera commerciale di un velleitarismo che serviva solamente a nascondere i tratti di un consumismo sempre più pervasivo e maligno. Pensò che era venuto il momento di tradire il proprio personaggio d’artista per poter continuare ad essere coerente con se stesso. Fu il momento della canzone escapista per eccellenza che segnò il definitivo distacco da quella stagione di speranze che stavano per collassare. Ormai Finardi in quel mondo era un Extraterrestre e cercava solamente un altro pianeta su cui ricominciare.

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi da fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto ad ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime”.

Per Finardi l’essenza stessa della vita è cambiamento e continua rivoluzione; così da allora sono stati moltissimi i dischi, le collaborazioni, i concerti in un continuo, errante girovagare alla ricerca della musica che non s’arresta ancora, anche se negli ultimi tempi, ha confessato mesto, di non nutrire molte speranze per il futuro. Immagina un cupio dissolvi della nostra civiltà che ha bruciato il proprio futuro con l’inquinamento e la sovrappopolazione in modo del tutto irreversibile. Il suo sol dell’avvenire sembra essersi spento lasciando solo tanta amarezza e disillusione. Finardi vede solo oscurità davanti a se e compiange i giovani cui la sua generazione ha contribuito a negare ogni possibilità. Non certo una prospettiva allegra. Speriamo si sbagli.

Dopo tante piacevoli chiacchiere con il pubblico, sorseggiando quello che ha definito “rarissimo estratto di calendula trovato in terra di Montenegro”, finalmente ha imbracciato la chitarra acustica e, accompagnato dal solo validissimo Giovanni Maggiore detto “Giuvazza” (chitarra elettrica) ha emozionato gli spettatori inanellando una decina di pezzi dal suo corposo repertorio che copre dieci lustri della musica rock italiana.

Con la sua voce da rocker capace però anche di toni flautati e melliflui ha ricordato che Non voglio essere solo; pensando all’Italia dolce Italia; cantando Hallelujah con Leonard Cohen; confessando La prima volta che ho fatto l’amore; immaginando E se dio fosse uno di noi; parlando di lei che aspettava Un Uomo; ascoltando La radio o gridando per le strade di Soweto. Il concerto si è chiuso con uno spettacolare bis: Hoochie Coochie Man di Muddy Waters interpretata da vero bluesman dal cantante, durante la quale Giuvazza si è esibito in un assolo stellare che ha sparato tutti i presenti in orbita attorno all’asteroide 79826 dedicato, dall’astronomo che lo scoprì, proprio a Eugenio Finardi.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi. In essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuna che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

© Flaviano Bosco per instArt