Passata l’ebrezza e la vertigine dell’inaugurazione, le Giornate del Muto di Pordenone entrano nel vivo del loro programma, anche quest’anno ricchissimo e affascinante. Un occhio di riguardo è stato riservato al Western delle origini, continuando un’esplorazione di quel fondativo genere cinematografico che dura da quando esiste la rassegna e che promette di suscitare ancora meravigliose emozioni a partire, naturalmente, dal focus dedicato all’uomo della frontiera per definizione dell’epoca, William S. Heart.

Eccezionali anche le sorprese che regalano le proiezioni dedicate alle slapstick europee, quelle che generalmente chiamiamo comiche. Negli stessi anni in cui spopolavano i grandi maestri della risata: Charles Chaplin, Buster Keaton, Laurel and Hardy ecc. In Europa c’erano moltissimi altri divertentissimi attori dei quali si è persa praticamente memoria. Esisteva una comicità del tutto diversa da quella massificata che oggi siamo costretti a subire. Di grandissimo rilievo anche la sezione della rassegna dedicata ai capolavori del muto estoni che ci permette di riscoprire, occasione più unica che rara, la prospettiva baltica della cinematografia

– Not Guilty! di Harry Sweet (Usa 1926)

Come passare dal felice matrimonio di due sposini al dramma familiare con ironia e quattro risate. Un breve rullo di pellicola politicamente molto scorretto secondo i canoni attuali, ma esilarante e davvero divertente. Nelle prime sequenze vediamo una giovane coppia recarsi in tribunale perché il giudice li unisca in matrimonio. Per uno scambio di persona, il futuro marito finisce alla sbarra accusato di uxoricidio senza nemmeno aver avuto il tempo di consumare. I testimoni dell’accusa, in un processo farsesco, lo riconoscono come sicuro colpevole descrivendone le efferatezze in modo fasullo, ridicolo e grottesco. Straordinario nei panni del marito perseguitato l’attore ungherese Karoly Huzar ribattezzato Charles Puffy per la sua mole. E’ un simpatico ciccione che ricorda moltissimo Fatty Arbuckle e Oliver Hardy e fa parte di quella schiera di comici sovrappeso che all’epoca spopolavano con la loro adiposa simpatia. La messa in scena è una presa in giro, anche piuttosto virulenta, del sistema giudiziario americano con i suoi giudici forcaioli e pasticcioni, le giurie corrotte e i testimoni alcolizzati e distratti. Il breve film è sorretto anche da una buona dose di misoginia greve e insensata. Le mogli sono rappresentate come un vero fastidio per i paciosi mariti che ad un certo punto non possono fare altro che strozzarle. Certo, tutta la messa in scena è assolutamente leggera e spassosa basta non fermarsi a pensare troppo; erano altri tempi e dobbiamo riderne e fare in modo che siano definitivamente passati.

– Der Stolz der Firma (L’orgoglio della ditta) di Carl Wilhelm (Germania 1914) La pellicola racconta dell’ascesa sociale di un semplice garzone di bottega nel mondo della moda della Berlino dei primi del Novecento. Da scansafatiche furbacchione, il protagonista si trasforma in perfetto borghese e finisce per sposare la figlia prediletta di un importante uomo d’affari assicurandosi con la prole un futuro di agi e di successi. Niente di così originale nemmeno per l’epoca, infatti, il film è una riedizione di un’analoga pellicola dello stesso regista con il medesimo cast. A colpire gli spettatori è l’ambientazione che riguarda i vizi e le virtù della borghesia ebraica della città tedesca con, in bella evidenza, il suo particolare umorismo. Si tenga anche conto che quel mondo fu tragicamente spazzato via dalla storia europea dalla Shoah.

Testimone dell’epoca e straordinario attore protagonista è Ernst Lubitsch, il futuro grandissimo regista di Hollywood. Prima di essere costretto a volare oltreoceano, Lubitsh fu magnifico attore in una lunga teoria di pellicole, spesso di carattere semi-autobiografico. Anche lui faceva parte di una ricca famiglia ebraica con interessi nell’abbigliamento. Da ragazzo era stato assunto nella ditta del padre con le mansioni di più basso livello e con scarsi risultati; trovò però il modo di coinvolgere la famiglia nella sua passione per il cinema visto che la loro sartoria forniva i costumi per i suoi film, ricevendone in cambio un’enorme visibilità e pubblicità. Lubitsch si ricorderà di questo intreccio e di questa ambientazione in molti dei suoi film successivi negli Stati Uniti, basti pensare alla splendida commedia romantica del 1940, Scrivimi fermo posta (The Shop Around the Corner).

– The Narrow Trail di Lambert Hillyer, William S. Hart (Usa 1917). Ottimo paleo-western che documenta chiaramente la rappresentazione della frontiera americana prima del fondativo lavoro sull’immaginario collettivo messo in opera da John Ford. Ci siamo ormai talmente abituati a quel tipo di rappresentazione (Monument Valley, John Wayne, orizzonte basso) da non considerare nemmeno la possibilità che potesse esisterne un altro. La sorpresa, da questo punto di vista, anche per gli appassionati è tanta. Si riconoscono alcune filiazioni ma l’ambiente è del tutto diverso. Prima di tutto c’è un solo colpo di pistola che, per altro non uccide nessuno, in tutto il film e poi lo scenario è quello silvestre e selvaggio delle montagne polverose attorno a Saddle City. Gli inseguimenti tra cavalieri sono nella boscaglia e non nella sterminata pianura o nel deserto, non c’è sole a picco o sudore e nemmeno pistoleri dal grilletto facile che tracannano whisky. Il bandito di turno, il grandissimo attore William S. Hart, è un personaggio romantico e sentimentale che si invaghisce di una prostituta di città in trasferta nel west e innamorato va a cercarla fino alla civilizzata San Francisco credendola un casto angelo del focolare. Anche lui però le ha mentito nascondendogli il fatto di essere un rapinatore. Non è però una commedia degli inganni, è la scoperta dell’amore da parte di due anime sfortunate che le condizioni ambientali hanno costretto a scelte dolorose. La vita della frontiera è per loro soprattutto desiderio di riscatto e speranza di libertà. Dopo rocambolesche avventure che coinvolgono anche il magnifico cavallo pezzato del protagonista, i due fuggiranno verso le montagne liberi e felici come nelle più belle favole. Qualche aggancio narrativo è possibile con la trama di Ombre rosse di John Ford (1939); anche in quel capolavoro, mutatis mutandis, c’è un assalto alla diligenza, l’amore tra il bandito redento e una prostituta di buon cuore e il finale in dissolvenza di due cuori e un calesse verso la frontiera.

– Retk Labi Setumaa di Johannes Paasuke (Russia 1913) Straordinario documentario d’epoca sulla popolazione dei Seti, contadini nelle terre estreme del Baltico. Vedere semplici momenti della loro vita quotidiana, il trasporto del fieno sulle barche, la preparazione della farina d’avena, il mercato, il duro lavoro dei campi, i bambini regala emozioni uniche; è come fare un balzo indietro di cento anni in una realtà arcaica e rurale perduta nel tempo e nello spazio. Davvero straniante la scoperta che quei volti di contadini bruciati dal sole, quelle mani tozze da zappatori, quegli abiti spessi e spesso stazzonati, ci sono familiari perché straordinariamente così simili a quelli dei nostri avi nelle campagne italiane degli stessi anni che tra fatica e miseria trovavano la forza di sorridere alla vita e di sperare nelle stagioni. Toccanti le sequenze del ballo campestre durante le quali si vedono le donne vestite in abiti tradizionali che ballano tra loro una sorta di carola, i loro velocissimi passi e le lunghe gonne danno l’impressione che stiano vorticando quasi sospese da terra in una danza magica che ne fa un tutt’uno con gli elementi naturali.

-Kutsu-Juku Seiklusi di Voldemar Pats (Estonia 1931). Le avventure del cane Juku sono il primo delizioso, piccolo film d’animazione estone. Ispirato vagamente alle prime prove di Walt Disney, ha tutta l’ingenuità e la flagranza di un prodotto autenticamente artigianale. Composto di circa cinquemila disegni, non può certo dirsi perfetto ma, a suo modo è originale e godibile. Non se lo sono fatto ripetere i curatori del merchandising del festival che hanno stampato l’immagine del dolce cagnolino su magliette e felpe andate subito a ruba tra gli spettatori. Anche questa nota di colore apparentemente anodina, fa parte integrante del festival dimostrando che l’estetica di novant’anni fa non solo funziona ancora ma è perfino indossabile.

© Flaviano Bosco per instArt