È un caro vecchio amico di Pordenone, il grande scrittore franco marocchino Tahar Ben Jelloun. Più volte candidato al Nobel, è uno dei grandi narratori del nostro tempo, dotato di uno sguardo lucido e caustico sulla società contemporanea e sulla geopolitica soprattutto dei paesi del Mediterraneo. Originario di Fez, è da sempre molto legato a Tangeri, luogo d’elezione e scenario di molti suoi romanzi, come vedremo, elemento per niente secondario della sua narrazione.

La città sul Noncello lo celebrò già nel 2014 in una splendida edizione monografica della rassegna letteraria Dedica durante la quale gli fu conferito il sigillo della città. Ben Jelloun è, in sintesi, un pordenonese D.O.C. Non c’è da stupirsi che abbia scelto di presentare il suo ultimo romanzo, a pochi giorni dalla sua pubblicazione nel nostro paese, proprio durante Pordenonelegge.

Insonnia è uscito per i tipi de La nave di Teseo, la giovane casa editrice di Elisabetta Sgarbi che sta curando un catalogo davvero squisito che schiera scrittori altrettanto raffinati. Alcuni scriteriati, sedicenti giornalisti si sono stupiti che lo scrittore, in età matura, si sia ridotto a pubblicare un giallo, prefigurando, addirittura, una senescente svolta verso il mainstream commerciale della sua carriera. Sono illazioni che si commentano da sole e che rispecchiano lo stato miserabile della critica letteraria del paese nel quale in testa alle vendite c’è, attualmente, la storiaccia delle corna di un’inqualificabile personaggio televisivo.

Jelloun, giustamente piccato, risponde che da quanto ha superato i settant’anni si è sentito nel sacrosanto diritto di permettersi un po’ quello che gli pare. Prima, afferma, aveva altre cose ben più importanti da portare a termine. Con l’età si è guadagnato la leggerezza come tutti i grandi maestri.

Finalmente, ha potuto concedersi il piacere di scrivere un polar, genere del tutto diverso da quello che noi, grossolanamente, definiamo giallo. Nelle letterature francofone, il polar è un sottogenere del Noir, che tratta di crimini e loschi figuri senza che compaia la polizia o il classico detective all’americana o, ancor meglio, alla Simenon. Sembra un particolare irrilevante ma non è così. L’intervento dell’istituzione che garantisce o meno l’esercizio della giustizia e l’applicazione del diritto imprime una precisa direzione e tende a limitare la narrazione alla moralistica dinamica di causa-effetto, delitto-castigo.

Senza la forza pubblica il plot è più libero e fluttuante e resta, come in questo caso, aperto e sospeso nei suoi sviluppi, fino ad essere piacevolmente irrisolto. Raffinatezze che però il pubblico italiano di genere è raramente in grado di cogliere e tanto meno il giornalismo che si merita sempre impegnato a glorificare le scarpe grosse e il cervello fino di pretoni in bicicletta o le indagini al di sotto di ogni certezza di commissari piacioni con le ville al mare.

La trama di Insonnia in due parole: si racconta di uno sceneggiatore a Tangeri che soffre di una grave forma d’insonnia. Dopo aver soffocato la madre per liberarla dalla malattia terminale che la straziava, scopre di provare un gran sollievo ritrovando il riposo e il sonno notturno. Il piacere provato gli provoca una certa assuefazione inducendolo a cercare, in ogni modo, altri malati terminali da utilizzare come cachet per la buonanotte. Da qui rocambolesche avventure in corsie d’ospedali e reparti per lungo degenti fino al brivido supremo di praticare l’eutanasia su criminali di regime, pedofili e vari delinquenti di lungo corso. Nella seconda parte del romanzo, infatti, il nostro sceneggiatore si trasforma da insonne in vendicatore dei più deboli e della società in nome della giustizia fino al sconcertante epilogo che si lascia al piacere dei lettori che vorranno arrivare fino alle ultime righe del testo.

A prima vista non sembrerebbe gran chè; un altro giustiziere seriale, ancora un altro giallo sociologico che ci tiene sulla corda fino all’ultima pagina per lasciarci sconcertati e perfino dubbiosi sulla congruità di ciò che abbiamo letto. E’ però un errore madornale sottovalutarlo; il romanzo contiene ben altro e non dobbiamo lasciarci ingannare e depistare dai falsi indizi e dalle scontate evidenze che l’autore appositamente dissemina. Cos’ha voluto veramente dirci Tahar Ben Jelloun? Il suo è stato davvero solo un capriccio letterario? Una divagazione? Un divertissement? Naturalmente, sono domande retoriche che si rispondono da sole.

Lo scrittore di Fez ha dichiarato, in più di un’occasione, che il romanzo ha avuto una lunga gestazione, smentendo in partenza, tutti coloro che lo credono una parentesi alimentare nella sua produzione più seria. L’esigenza di scrivere si è fatta per lui più urgente dopo il periodo in cui ha dovuto assistere la propria madre gravemente malata e sofferente. Quando finalmente il calvario terminò, inaspettatamente, parafrasando De Andrè: Quando a mia madre si fermò il cuore non ho provato dolore. Lo scrittore, che soffriva d’insonnia dai tempi del servizio militare, in seguito al triste evento, invece di disperarsi, dormì saporitamente come mai aveva fatto prima.

Ora che si è ricavato il tempo per riflettere sul suo difficile rapporto con il mondo della notte ha voluto dedicarsi ad indagare quella particolare situazione, venendo a capo nel modo che gli è più consono, con la scrittura, di quella bizzarra sua elaborazione del lutto che, probabilmente, gli causa un qualche senso di colpa.

Se vogliamo cercare di comprendere il lavorio che lo scrittore ha profuso in questa e altre opere dobbiamo fare il piccolo sforzo di non abbandonarci semplicemente al fluire del racconto che, seppur avvincente, ha bisogno di qualche considerazione preliminare.

Ben Jelloun, come dicevamo, ha dichiarato di soffrire da sempre d’insonnia che però interpreta, non tanto come una patologia o una mancanza, ma come una precisa volontà di non dormire, un rifiuto di abbandonarsi nelle braccia di una sorta di indecifrabile abisso che ritiene molto vicina alla morte.

Spesso, ce la immaginiamo proprio così la conclusione del nostro peregrinare in questa vita: un cieco spegnersi, un eterno riposo come un sonno profondo, lo scivolare in un buco scuro senza più fondo e speranza dell’altezza. Con il Bardo: Morire, dormire…nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne. Fin troppo facile, lo sapeva bene l’inarrivabile poeta inglese, così come ne è consapevole lo scrittore maghrebino, che afferma non essere tanto la morte il vero problema e scandalo, ma la malattia sia quella fisica, cronica e irreversibile, sia quella psicologica che è quasi peggio di una morte cerebrale.

Nel mito greco Hypnos e Thanatos sono due gemelli generati da Notte (Nyx) e dalla tenebra infera (Erebo) presiedono, il primo al sonno propriamente detto con tutti i suoi correlati, il secondo è il tristo mietitore, il termine ultimo, l’eterna soglia dalla quale non si retrocede Sora nostra Morte corporale come scriveva il nostro Oriente.

Anche nella tradizione culturale e letteraria dei popoli arabi il legame tra morte e sonno è decisivo e cruciale. Nella più grande raccolta medievale di storie proveniente da quel mondo che conosciamo sotto il generico nome di Le mille e una notte, il pretesto narrativo si basa precisamente sulla volontà della protagonista di restare in vita. La principessa Shahrazad non vuole fare la fine delle altre mogli del sultano assassinate per vendetta e misoginia la prima notte di nozze perché considerate tutte infedeli, quindi distoglie l’attenzione del feroce monarca con racconti che durano,senza risolversi, fino al mattino cosi da richiedere ancora altre notti per essere completati. In questo senso la letteratura ci salva la vita e quantomeno dilaziona la morte. E’ proprio questa la vera funzione dello scrivere: ingannare la morte distraendoci da essa.

Chi ha intuito profonde significanze psicoanalitiche nella questione del matricidio, seppur sotto forma di eutanasia, ci ha visto bene. Non poteva essere diversamente in un autore con un dottorato in psichiatria che ha esercitato a lungo come psicoterapeuta soprattutto nell’ambito dei disturbi da sradicamento dei migranti, argomenti ancora essenziali per comprendere la sua poetica. Questa sua esperienza è documentata con minuzia nei suoi primi lavori che si dividevano tra pubblicazioni scientifiche dedicate e finzione narrativa.

Per la letteratura francofona l’uccisione dei genitori è un topos, un pretesto indispensabile, un consueto scenario ed orizzonte. Si pensi a quanta letteratura hanno generato i casi reali di Violette Noziere, Pierre Riviere, Beatrice Cenci. Senza contare il cinema che ha raccontato spesso questo terribile crimine (uno per tutti, Psycho di Alfred Hitchcoch) Il matricidio è per Freud un atto primordiale, decisivo e fondativo della società e dell’individuo, lo si comprende considerando la teoria del complesso di Edipo, il mito di Oreste, ecc. Quello che è certo è che Ben Jelloun utilizza questa esperienza personale per creare una metafora in grado di spiegarci la complessità del mondo attuale. Lo scrittore ha dichiarato da una parte il suo grande sentimento d’amore e la riconoscenza per la madre che lo spinse a diventare scrittore ma anche la sua frustrazione per non essere stato in grado di risparmiarle l’inutile punizione dovuta al protrarsi della sua malattia.

In conclusione, qualche breve accenno allo scenario del romanzo. La città di Tangeri e’ fuor d’ogni dubbio un luogo letterario di incontri tra le culture. Ben Jelloun ha passato la propria infanzia e adolescenza in quella città. Erano gli anni in cui Tangeri era frequentata dalla boheme della Beat Generation; una folta colonia di cittadini americani in fuga dall’autoritarismo del loro paese, in cerca di nuove forme d’espressione. In quegli anni, in Marocco cresceva la voglia di ribellarsi al potere costituito e dal punto di vista culturale l’urgenza di creare una nuova letteratura postcoloniale, ne è un esempio il fondamentale Il Pane Nudo di Mohamed Chouckri.

Una nuova generazione di scrittori nasceva fortemente influenzata dalle esperienze più estreme e creative della cultura occidentale; Tangeri era il crogiolo delle più disparate esperienze culturali, un luogo di incontri e dissoluzione. Era, infatti, per gli Occidentali un porto franco dove dare libero sfogo ad ogni desiderio e vizio.

Ancora oggi la città conserva quella sinistra fama ma è ormai solo l’ombra di se stessa. Ci vissero a lungo Paul Bowles, William S. Burroughs e molti altri scrittori tra cui Allen Ginsberg, Jack Kerouac ecc. Nel suo romanzo Partire Tahar Ben Jelloun ne da un ritratto spietato: Questa gente vuole tutto, uomini e donne del popolo, ragazzi, persone in buona salute, meglio se contadini e analfabeti, persone che si dedichino a servirli di giorno e a fotterli di notte. Servizio completo, e tra un colpo e l’altro una pipa di kif bella carica perché l’americano scriva!

E’ anche in questo senso che va cercata l’origine della corruzione del Marocco ma simbolicamente di tutto l’Occidente. L’assassino seriale di Insonnia che cerca di redimere l’umanità con una versione tutta sua dell’eutanasia è, in realtà, l’inconsapevole risultato di quella corruzione che cerca di spazzare via. Infine, solo la scrittura, che partecipa sia del mondo del Sogno che di quello della Morte, può darcene conto. Il vero rimedio contro le ossessioni che ci minacciano è scrivere e raccontare delle storie fino alla luce del mattino proprio come faceva Shahrazad ne Le Mille e una notte e come continuerà a fare a lungo uno dei migliori amici di Pordenone e nostri Tahar Ben Jelloun.

© Flaviano Bosco per instArt