Una piccola piazza in una sera d’estate, una trattoria dove mangiare e bere qualcosa di succulento con i tavolini all’aperto giusto dietro al palco dove un quartetto di ottimi musicisti suona il Blues davanti ad una platea gremita che contiene una buona parte degli abitanti del paese. È quasi un’idea di paradiso, un sogno in dodici battute ripetute che, a pensarci bene, non è nemmeno così impossibile, anzi è veramente a portata di mano.
È successo nella piazza di Ronchis (UD) ma può succedere ancora e succederà, in uno qualsiasi dei 15 comuni friulani che aderiscono al P.I.C. (Progetto Integrato Cultura) e nei quali si svolgono i concerti della rassegna Musica in Villa. Questa specie di miracolo che porta la musica e la cultura non solo nelle ville di prestigio del medio Friuli ma anche nei luoghi più insoliti ma dal grande fascino, si compie da decenni grazie all’abnegazione e all’intuito di persone come Gabriella Ceccotti, direttrice artistica della rassegna che, anche per schernirsi, dice di sentire il peso degli anni che passano ma che, invece, anno dopo anno, conserva intatta tutta la grazia, l’energia e la freschezza della fanciulla che è.
Juri Dal Dan, Francesco Bearzatti, Romano Todesco e Alessandro Mansutti sono tra gli alfieri della scena musicale friulana che è viva e vitale e continua a generare talenti di livello internazionale che, per fortuna, possiamo spesso ascoltare dai palcoscenici delle varie rassegne del nostro territorio. Tutto questo nonostante le grandi difficoltà dovute alle contingenze di un paese come l’Italia che, in realtà, non ama la Musica con la maiuscola anche se, a parole, si gloria della grandezza della propria tradizione nelle solite fanfaronate.
Per vivere di musica, infatti, molti tra i nostri migliori musicisti devono, per forza di cose, rivolgersi all’estero dove sono ben lieti d’accoglierli. Non a caso Bearzatti, pur molto attivo nel nostro paese, ha un piede anche in Francia e un’acclarata e meritata fama internazionale. Senza dimenticare le recenti esibizioni con Dario Carnovale o con i suoi Licaones, si ricordi almeno lo splendido tributo a Woody Guthrie di solo qualche anno fa: “This Machine Kills Fascists”. Mai messaggio fu più necessario e attuale di quello richiamato fin dal titolo.
Juri Dal Dan presentando “Immaginario Blues” ultimo frutto della lunga collaborazione con Arte suono di Stefano Amerio, ha voluto precisare che l’ispirazione gli è venuta dai suoi primissimi contatti con la musica afroamericana.
Come per la gran parte degli europei della sua generazione e anche di quella precedente, sono stati i gruppi rock, tra la fine degli anni ‘60 e di tutto il decennio successivo, a far conoscere universalmente il Blues che, in realtà, è un prodotto peculiare di una zona rurale del sud degli Stati Uniti che, anche se ha profonde radici africane, con il vecchio mondo c’entra poco. La sua grande versatilità e relativa semplicità, ha però permesso che si diffondesse in tutto il mondo spesso sovrapponendosi alle musiche tradizionali autoctone.
Quando si parla delle origini del Blues e dell’influenza che ha avuto sul nostro immaginario il pensiero, almeno degli appassionati, non può che andare alla figura e all’opera del grandissimo etnomusicologo Alan Lomax che grazie ai suoi studi e alle sue registrazioni pionieristiche salvò dall’oblio quel genere e ne permise la riscoperta.
Lomax si interessò anche delle tradizioni folkloriche di molte altre culture con studi e registrazioni sul campo. Soggiornò a lungo in Italia e anche in Friuli, contribuendo alla salvaguardia della nostra tradizione musicale popolare.
Visto che Brian Eno sostiene che senza Alan Lomax non ci sarebbe stata la grande rinascita del Blues e nemmeno i Beatles, i Rolling Stones, i Velvet Underground e tutti i gruppi con i quali Juri Dal Dan e i ragazzi della sua generazione hanno nutrito i loro sogni, sarà il caso di farci guidare da qualche parola dell’etnomusicologo anche per comprendere il significato di una serata che può “rivelare di se molto più, molto più di quanto apparisse, la sua origine d’Africa la sua eleganza di zebra, il suo essere di frontiera, una verde frontiera” come si dice parafrasando quel tale avvocato della canzone italiana di Asti.
L’hanno chiamata l’età dell’ansia, ma forse sarebbe meglio definire la nostra epoca “secolo del Blues”, in onore del malinconico genere musicale nato intorno al 1900 nel delta del Mississippi. Il Blues è da sempre un modo di essere, prima ancora che un tipo di musica.
Juri Dal Dan e il suo quartetto, attraverso la loro musica, hanno trasmesso proprio quel particolare modo di essere che ha permesso al Blues di superare tutti gli steccati ideologici e le barriere culturali che, giocoforza, dividono i paesi del mondo dimostrando che comprendere e condividere è anche una questione di classe e di eleganza interiore. Proprio quello di cui avremmo bisogno oggi e di cui ci costringiamo colpevolmente a fare a meno.
Durante il concerto sono stati eseguiti integralmente i tre preludi e i quattro brani che compongono Immaginario Blues che può essere considerato una sorta di concept album anche se questa definizione suona un pochino datata. È una musica immediata e diretta che colpisce per la piacevolezza e lo spirito narrativo e confidenziale. Le composizioni sono quasi pagine di un diario nelle quali Dal Dan ha riversato la noia e le illusioni di certi momenti (Illusione e noia nell’Illinois) oppure le sue passioni letterarie(Blueskowski dedicato a Bukowski) e musicali (Hallelucination Blues/Bud Powell, Fugue Blues/Bach).
Il sax di Bearzatti, in questa occasione, dai suoni spesso scabri, profondi e rochi, sembra, infatti, raccontare una storia che gli viene suggerita dal piano sottile di Dal Dan mai invasivo o esageratamente percussivo, ma sempre riflessivo e perfino spirituale. Il contrabbasso di Romano Todesco tiene bordone e cesella con le sue sommesse riflessioni a quattro corde il tema principale del racconto in musica, evocando al contempo atmosfere sognanti e antiche.
A sostenere il discorso anche le percussioni dell’ottimo Mansutti che sapientemente utilizza piccoli ma molto efficaci accorgimenti per dare alla sua batteria un suono originale e incisivo. A parte il discreto, minimale ma efficace utilizzo del sonaglio di zoccoli di capra o di barattoli, in alcuni brani, con la mano sinistra impugna la bacchetta al contrario, in modo che la parte più spessa del legno colpisca con maggior vigore le pelli rispetto alla bacchetta della mano destra che invece è tenuta in modo canonico. È un piccolo accorgimento, niente di assolutamente rivoluzionario ma che dimostra classe, stile, eleganza e cura per i dettagli.
L’informalità e la scioltezza con cui i quattro si sono proposti al pubblico che, naturalmente ha gradito moltissimo, sono proprio il blasone del vero musicista che sa non prendersi troppo sul serio perché è consapevole del proprio valore e della qualità della musica che esegue.
Anche se ai puristi parrucconi può sembrare sacrilego e dissacrante ad un certo punto approfittando di una piccola pausa tra un brano e l’altro, il pianista non ha esitato ad annunciare, tra l’ilarità dei presenti, che c’era da spostare una Skoda che intralciava il passaggio del parcheggio. Bearzatti, ha esclamato: “Molto blues!”. Interpretando perfettamente il senso della serata. Non era per niente una gag provata in precedenza.
Questo episodio, quasi surreale e strapaesano, ha contribuito a sdrammatizzare quel modo serioso che, fin troppo spesso, abbiamo di intendere e presentare la musica e il blues soprattutto. Sovente ce lo figuriamo come una cosa ingessata, ammuffita, quasi cimiteriale da matusalemme afroamericani con cappellone e artrite reumatoide o da altrettanto vecchi rocker, rottami di un epoca morta e sepolta. Il Blues nelle peggiori occasioni è diventato una cosa da serata a teatro, tutti composti, ben vestiti e profumati o peggio azzimati.
A parte le legittime cure dell’igiene personale che, in particolar modo, d’estate evitano spiacevoli olezzi e afrori, rilassarsi in shorts e ciabatte, ascoltando della splendida musica, sorseggiando un calice di vino bianco fresco è la condizione ideale. Si restituisce così al Blues la giusta dimensione e prospettiva. E non vuol dire assolutamente sminuirne l’importanza riducendolo al rango di lepidezza postribolare o condannandolo alla sguaiatezza degli avvinazzati. Giusto il contrario. Significa riconoscerne ed esaltarne le radici che sprofondano nelle acque melmose (Muddy Waters) del Delta del Mississippi che sono perfettamente assimilabili alle nostre zone di bonifica. Anche se il suono del quartetto di Dal Dan è più urbano e strutturato ed ha ormai poco del fango e della polvere dei campi coltivati o del sapore di mota del catfish, rimane comunque la eco Barrelhouse e apparentemente ruvida e sudata. Si perdoni il gioco di parole, musica che non è paludata ma paludosa nel migliore dei significati del termine “Bluesy”,
Nella nostra tradizione culturale, lo insegna il padre Dante, non c’è niente di più nobile della terra da cui uno proviene, della quale è intriso e legato indissolubilmente. La stessa parola uomo deriva da humus che altro non è che il fango nel quale germinano i semi della vita.
A riprova dell’atmosfera amichevole e estiva che si era instaurata, Bearzatti, che evidentemente si sentiva a suo agio come nel salotto di casa, ad un certo punto, anche per l’afa, si è tolto le sneakers ed è rimasto a suonare fino alla fine del concerto con i soli calzini. Sia detto fuor di metafora e senza alcuna ironia, è stato un gesto di familiarità e confidenza con il pubblico davvero apprezzato e cordiale.
Per concludere, è proprio il caso di ricordare velocemente anche gli altri brani proposti dal gruppo tratti dal loro repertorio ed in particolare dalla Trilogia del viaggiatore che racconta tra l’altro di peregrinazioni tra la musica portoghese e quella brasiliana. Chiude un bis e vocalizzo finale con il pubblico di certo divertente anche se si poteva fare meglio ma l’importante è partecipare.
Quello che si è detto, il sapore e il significato della splendida serata regalata da Dal Dan e dai suoi è riassumibile, ancora una volta, nelle considerazioni di Lomax che nei primi anni ‘50 passando dalle nostre parti scrisse:
Il Friuli è la regione della polifonia, delle voci aperte, liquide, che vanno lontano, mescolate in una dolce armonia e in una sequenza di accordi che sono entrambe incomprensibili per gli italiani del sud, e soprattutto è la regione delle influenze culturali, linguistiche e musicali che giungono dall’Europa del Nord. È una terra amabile e fertile, dove c’è abbondanza di vino e di cibo, dove innamorarsi è facile, dove la gente sta per molte ore nei caffè, unendo le voci in canzoni che sono gentili e vaghe, squadrate e dolci alla maniera austriaca, di stile slavo – uniscono le voci in lunghi, dolci accordi, con lacrime ubriache di vino e di piaceri.
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