Nel settembre del 2012 i Radiohead tennero un maestoso, indimenticabile concerto a Villa Manin; Thom Yorke, leader del gruppo non serve nemmeno dirlo, a distanza di sette anni è voluto ritornare sul luogo del delitto in un’esibizione straordinaria che segue di pochissimo (27/06) la pubblicazione del suo ultimo lavoro solista, Anima.
E’ proprio l’anima che il cinquantenne cantante inglese ha dato durante il concerto dimostrando un amore per il proprio pubblico, se non inaspettato, davvero raro per una superstar del suo calibro.
Ma facciamo qualche passo indietro. Quando Yorke cominciò a suonare la chitarra aveva sette anni. Il suo Guitar Hero era Brian May. Ogni sua speranza e sogno erano rivolti al riccioluto chitarrista dei Queen, voleva a tutti i costi diventare come lui.
La sua primissima, decisiva esperienza musicale fu attraverso l’autoradio di suo padre, unico strumento di riproduzione sonora presente in casa, se si esclude il televisore. Radio, stereo e mangianastri nemmeno a parlarne; la famiglia di quello che è stato dichiarato uno tra i cento cantanti più importanti della storia, non amava per niente ascoltare la musica. Passò letteralmente giornate intere, ore e ore,nel garage di casa dentro l’auto del proprio padre ad ascoltare ossessivamente, quasi in loop gli assolo di May e la musica dei Queen.
C’è quasi da restare stupiti che sia diventato uno dei musicisti più intelligenti, innovativi e sperimentali della nostra epoca viste le premesse, con tutto il rispetto per Brian May. Chiunque s’accosti alle note dei Radiohead o a quelle di Yorke deve essere conscio che è necessario affrontare un percorso interiore di comprensione profonda che fa bene al cuore e agli altri organi di senso. Non è musica main stream, disimpegnata e premasticata, come tutte le cose veramente belle richiede un po’ d’attenzione e forse un cambio di prospettiva.
La prima cosa che rimane impressa di quelle melodie è la particolarissima vocalità del leader, di certo un dono della natura ma anche il frutto di tanti anni di studio e di pratica. Assolutamente evidente se si paragona, per esempio, il primo album dei Radiohead (Pablo Honey 1993) con l’ultimo di Thom Yorke cui accennavamo più sopra, sembrano due persone diverse.
Modelli dichiarati, in questa evoluzione, sono stati Neil Young e Michael Stipe dei R.E.M e poi la cantante islandese Björk, tutti e tre grandi conoscitori delle tecniche di respirazione e del cosiddetto, canto di tesa, un singolare modalità di emissione del suono dalla cavità orale verso le fosse nasali che garantisce effetti sonori straordinari che interiorizzati e fatti propri da Yorke sono diventati un suo marchio di fabbrica. Il concerto di Villa Manin, senza tenere conto almeno di questi elementi risulterebbe del tutto incomprensibile e caotico.
Ore 20,30. Inizia l’opening act è affidato alla bravura del giovane percussionista e compositore elettroacustico Andrea Belfi che si è esibito in un live act assolutamente coinvolgente e interessante.
Si parte immediatamente con un telaio di suoni e ambientazioni elettroniche che non sembrano troppo distanti dal seminale Irrlicht di Klaus Schulze 1973 pubblicato mezza dozzina d’anni prima che Belfi stesso nascesse.
Dalla sorvegliata creazione d’intelaiatura magnetica si passa in un lampo alla guerra psichica di un drumming selvaggio, brutale, dai ritmi e dagli echi ancestrali, in un connubio tra tribalismo e una texture di suoni elettrostatici di grande impatto. Le immagini che suscita sono vivide e al contempo quasi indefinibili, si stagliano con il loro riverbero contro il cielo di piombo che grava sulla villa e che medita di venir giù a secchiate da un momento all’altro.
Niente di assolutamente nuovo o inaudito dagli Amon Duul ai teutonici Faust di batterie ossessive e spiritate se ne sono viste parecchie già una quarantina d’anni fa. In ogni caso, il lavoro di Belfi ha una sua originalità e piacevolezza almeno dal vivo. Sappiamo bene che la batteria è uno strumento duttile e dinamico, nell’epoca delle drum machines ne abbiamo avuto un altro lampante esempio, a Villa Manin. Come diceva Duke Ellington: A drum is a Woman e perciò sempre del tutto imprevedibile. Bravo!
Ore 21,28 Appare Thom Yorke tra le urla e gli applausi entusiastici del pubblico, dopo che i roadies hanno laboriosamente armeggiato sistemando il pur essenziale palco, sgomberando la batteria, predisponendo le tastiere su supporti se sembrano altari per la celebrazione di litutgie profane, e calibrando le proiezioni video sull’enorme avvolgente schermo.
Una sorgente di luce penetrante sullo schermo segna l’inizio di una lunghissima cavalcata nella musica più recente dell’artista che più che un concerto tradizionalmente inteso ha avuto la forma di un raffinatissimo DJ set o di un folle Rave party. Immagini lisergiche sullo schermo e luci stroboscopiche sparate sulla folla, ritmi luciferini ed ipnotici con bassi pulsanti e Tone Floats che facevano, letteralmente, ondeggiare l’impianto di amplificazione e rimescolare le viscere degli spettatori fino ai calzini. A tratti sembrava un vero e proprio Sound System tipo Spiral Tribe: Free Music for Free People.
Divertimento puro con Yorke che non ha smesso di danzare e dimenarsi nemmeno per un attimo per tutte le due ore dell’esibizione, alternandosi alla chitarra, al basso al mixer, al Lap top e quant’altro di diavolerie elettroniche che si era portato.
Sembrava un ragazzino felice: cantava e ballava come non ci fosse un domani e tutto il pubblico, naturalmente, con lui. Tutti avevano talmente la testa piena di luci di suoni e di colori che nessuno è sembrato accorgersi nemmeno del piccolo black out video che ha rischiato di spegnere la scenografia. Per fortuna è stato solo un problema momentaneo.
In una recente intervista Yorke si è dichiarato molto affascinato da un libro sul significato del sonno di Matthew Walker, Why we Sleep: The new Science of sleep and Dreams
Durante il sonno frammentiamo e rielaboriamo le esperienze vissute nella veglia, senza questo processo la nostra mente è debole e la sua azione inefficace. Le esperienze oniriche sarebbero favorite dalla musica e dalle luci pulsanti; quindi, seguendo queste teorie, non troppo originali in realtà, lo spettacolo è stato concepito anche dal punto di vista scenografico come un’enorme Dream Machine, un generatore di sogni proprio come quello, infinitamente più piccolo, costruito da Brion Gysin e William S. Burroughs al Beat hotel di Parigi in anticipo sulla psichedelia di almeno dieci anni.
Alienazione, ansia, claustrofobia, termini del genere, paradossalmente, sono stati usati per descrivere l’ultima fatica di Yorke. Ogni opinione è rispettabile ma questa sembra essere totalmente errata, fuori contesto e non corrisponde minimamente a quanto visto a Villa Manin.
Sarebbe il caso di cambiare prospettiva quando ci si accosta all’opera di Yorke, in generale e nello specifico di quest’ultima. La figura dell’artista complessato e compulsivo, nevrotico e disadattato, che gli è stata a lungo attribuita con qualche lontana ragione, non gli si attaglia più, è del tutto frusta e consunta, stereotipata e inadatta a comprendere il suo percorso umano e artistico.
I termini che più spesso si utilizzano riferendosi ai suoi ultimi lavori, lo abbiamo cominciato a vedere, sono: claustrofobico, introverso, ego-riferito, desolato e desolante. Probabilmente non c’è niente di più sbagliato e distante da quello che lui è in questo momento. Bastava chiederlo ad uno qualsiasi tra il pubblico della villa.
La sua musica, per quanto se ne dica, trasmette gioia, energia, voglia di muoversi e ballare e anche quel senso di inquietudine che ci pervade ad un primo ascolto, in realtà è propedeutico ad un’esperienza musicale e psicologica interiore, tutt’altro che annichilente.
Confondere un certo spirito malinconico con quello dell’infelicità esistenziale è un errore enorme e imperdonabile. Thom Yorke visto a Villa Manin è un artista che sprizza felicità creativa da tutti i pori, la sua energia è vorticosa e inarrestabile, interagisce con il pubblico, facendo mostra di divertirsi come un bambino al Luna Park.
La sua musica non è per nulla deprimente o schizoide. Chi utilizza certi concetti per avvicinarsi al suo universo esperienziale e sonoro si accontenta di psicologismi d’accatto e di strumenti d’analisi ben miseri e da giornaletto scandalistico da quattro soldi.
Certo Yorke è un artista multiforme continuamente alla ricerca di qualcosa di nuovo da sperimentare ma questo non vuol dire che sia frustrato, psicotico o insoddisfatto. Il pregiudizio sulla musica elettronica è di lunga data. Associare una certa ricerca sonora alle bizzarrie da medico dei matti è facile e consolatorio; è la solita vecchia storia del Mad Professor, geniale ma completamente inadatto alla vita reale. E’ una storia vecchia almeno tanto quanto la filosofia d’Occidente, basta ricordare l’episodio di Talete caduto nel pozzo e della servetta tracia che lo deride. In musica il caso di scuola è quello di Ian Curtis dei Joy Division oppure Kurt Cobain: suicidati dalla società consumistica.
Per quanto ne dicano certi cronisti, Thom Yorke non è affatto così, non è per nulla assimilabile a quell’avvilente stereotipo di pazzo con la testa tra le nuvole. Certo ha una personalità complessa e straordinariamente creativa, la sua musica richiede un minimo d’attenzione per essere compresa ma il resto è tutta fuffa e cattiva comunicazione.
Paul Thomas Anderson, grande regista che ha girato un cortometraggio onirico ed espressionista di 15 minuti da Anima con il cantante come protagonista ha dichiarato: Thom Yorke è il protagonista di una specie di commedia romantica muta “Buster Keaton lo faceva. C’era sempre una scena un po’ romantica, Si, avete capito bene Thom Yorke come Buster Keaton. Ha quel mood vero? Fisicamente intendo. E’ incredibile con il corpo molto fisico, molto fisico. Continuavo a dire “Più Buster Keaton, più Buster Keaton!” e sembrava funzionare.
A parte la cripto citazione a Film di Samuel Beckett che lasceremo correre per amor di brevità proprio questo sembra essere il modo più giusto di entrare in sintonia con l’artista di Villa Manin. Anche a Keaton dicevano che aveva la faccia triste, ma era il suo modo di divertire ed entrare in contatto con il pubblico conscio che, paradossalmente, nel comico non c’è mai proprio niente da ridere.
© Flaviano Bosco per instArt