Ore 20,00 Quintetto Porteño
Udin&Jazz approda finalmente a Grado con i favori del cielo. Uno splendido arcobaleno accoglie la prima serata nella perla della laguna di questa edizione del festival. Come affermato dal patron Giancarlo Vellisig nella presentazione della serata, già trent’anni fa cercò con poca fortuna di portare una rassegna a Grado (Isola Jazz). Ora si chiude quel cerchio aperto allora con un ritorno che fa ben sperare per un radioso futuro.
Salgono sul palco cinque tra i più valenti musicisti della regione impegnati in un progetto musicale che fonde e contamina le atmosfere del tango argentino con quelle del jazz e della tradizione popolare italiana e balcanica. L’assoluta originalità delle composizioni e l’energia sprigionata dal quintetto hanno fatto capire fin da subito che non si trattava della solita operazione commerciale che sfrutta il fascino del tango per irretire le balere e le arene estive strappando facili applausi ad un pubblico con il cervello a riposo o addirittura in panne, come capita fin troppo spesso.
Al contrario, fin dalle prime note il pubblico si è sentito precipitare in un’atmosfera morbida e ambrata che nella calda risacca della nostalgia ha riportato alla memoria echi lontani di profumi e di sguardi di un altro tempo e di un altro spazio.
I brani sono sembrati concepiti apposta per evocare l’amarezza di certi momenti mai però lontani dalla dolcezza degli elisir d’amore e di passione. Tutte composizioni originali affascinanti e travolgenti dal sapore speziato e dall’odore forte di tabacco scuro fermentato. Come è evidente nel brano Sogno abbandonato, un tango languido e sognante i cui richiami non riguardano soltanto gli amanti e gli chansonniers d’altri tempi, ma le frustrazioni e i dolori di tutti noi.
Risponde immediatamente Verso l’ignoto ma con coraggio una composizione che sembra un esortazione a non perdersi d’animo come sanno i ballerini di quella canzone di Paolo Conte che lo fanno un po’ per vera vocazione e han passo di ossessione san bene che tutte le figure han mille sfumature.
È tutto un mondo che viene evocato dall’infaticabile lavoro alla chitarra ritmica di Roberto Colussi che accompagna gli svolazzi e le autentiche rasoiate del violino di Nicola Mansutti che, quasi a segnare l’urgenza di un incontro appare spesso nervoso e autoritario fino ad essere tagliente e violento; così come Alessandro Turchet che tocca le corde del suo contrabbasso come quelle del cuore del pubblico evocando distanze e orizzonti, evitando il solito didascalismo ritmico che ammorba le operazioni di questo tipo. Le corde pizzicate e sfregate dall’archetto di Turchet si sposano perfettamente con quelle percosse dai martelletti del piano di Daniele Labelli uno Steinway & sons in tutta la sua lucida bellezza.
Contrabbasso, violino, chitarra, pianoforte hanno contribuito a creare una bellezza vorticosa e strana riusciva a fare ampi respiri grazie al mantice della fisarmonica di Nicola Milan.
I cinque senza troppi lirismi o momenti eccessivamente zuccherosi da balera di periferia hanno dimostrato d’aver colto la lezione dei grandi maestri argentini per i quali il tango non è mai stato solo un accompagnamento per anime solitarie e tristi in cerca di qualcosa che non trovano e che è destinato a non darsi mai.
Il tango, la milonga, la habanera, il cadombe non sono solo divertente musica da ballo o da domeniche pomeriggio d’estate. Possono essere, invece, un librarsi a volo d’uccello su un paesaggio tutto immaginato di colline e alberi strani. Una melodia che parte tranquilla e lenta e si evolve caricandosi d’energia fino a diventare coinvolgente e sinfonica come nel brano Tango quinto. Oppure un sentimento che vola sopra le nuvole dove il sole splende sempre come in Sole sopra le nuvole. E poi ancora nei tre componimenti ispirati alla milonga alle prese con i quali il musicista si diverte e si estenua e scopre la profondità delle proprie radici nei ritmi caraibici
Tra le proposte più significative del quintetto le melodie di Es tango che misurano i rapporti possibili tra la tradizione argentina e quella che genericamente chiamiamo balcanica. E’ solo quando popoli e culture diverse trovano il modo di dialogare, contaminarsi, influenzarsi, confrontarsi, confondersi che può nascere qualcosa di bello e nuovo, proprio come nel Rinascimento italiano altro pezzo eseguito magistralmente dalla band. Tutti i presenti al Parco delle Rose hanno potuto ascoltare e vedere questo prodigio facendosi rubare calorosi applausi
ore 21,45 Paolo Fresu trio. Tempo di Chet.
Le musiche presentate dal trombettista sardo sono state la colonna sonora di un fortunato spettacolo teatrale dedicato a Chet Baker che ha avuto 66 rappresentazioni in quattro mesi fino ad ora e che ha concluso da poco il suo primo peregrinare per le città italiane al teatro di Monfalcone ma che è pronto a ripartire al più presto.
La brillantezza davisiana del suono della tromba e del flicorno di Fresu unito agli effetti sonori elettronici e alla grande maestria degli altri due componenti del combo, Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso, hanno saputo raccontare per immagini sonore una storia che viene da lontano ma che ci riguarda molto da vicino.
Il nostro immaginario musicale, infatti, è ancora pieno della musica e dell’affascinante figura di Chet Baker. Tutto il Jazz italiano a partire dalla fine degli anni ‘50 è cresciuto nel suo mito e nella sua presenza. Un’intera schiera di grandi musicisti del nostro paese si è formata nella sua ombra a volte fin troppo ingombrante; dai pionieri del Jazz moderno italiano (Romano Mussolini, Franco Cerri ecc.) fino agli ultimi musicisti con cui suonò un paio di settimane prima di morire (Roberto Gatto, Enrico Rava, Franco D’Andrea, Giovanni Tommaso)
A tredici anni durante un litigio con alcuni suoi coetanei, il piccolo Chet ricevette una sassata in faccia che gli spezzo alla radice l’incisivo sinistro. Dopo un precedente fallito tentativo con il trombone, suo padre musicista spiantato e alcolizzato come ha detto lo stesso Fresu, gli regalò una tromba fiammante. Il problema agli incisivi influenzò moltissimo il suo modo di suonare. Molti attribuiscono proprio a questo il suo particolare inconfondibile, inimitabile timbro, ed è proprio questo che caratterizzò lo stile della prima parte della sua carriera di musicista.
Nei primissimi anni del ‘60 quando la parabola dell’astro di Chet Baker sembrava spegnersi soprattutto a causa della sua dipendenza dagli stupefacenti, un gruppo di spacciatori lo malmenò a causa di un debito di droga. Si ritrovò con la mascella fratturata e parecchi denti in meno. Chet dovette gettarsi la carriera alle spalle e ricominciare da zero. Come ha raccontato Fresu si ritrovò perfino a lavorare in una pompa di benzina, lui che era stato acclamato dalle più importanti riviste specializzate del settore come il più grande trombettista jazz del suo tempo.
Ci sono poche cose difficili come suonare la tromba con la dentiera, eppure Chet dovette imparare tutto da capo e ci riuscì nella seconda parte della sua carriera, in modo egregio e ad altissimi livelli regalando alla magia della sua tromba sonorità del tutto particolari e nuove
Entro questi due spiacevoli incidenti può essere racchiusa la meravigliosa e sfortunata avventura musicale di Chet Baker. Tra i paesi che l’hanno amato di più c’è di certo l’Italia con la quale il trombettista ha avuto un rapporto molto profondo e complicato.
Il concerto di Fresu e soci è cominciato con un brano celeberrimo My funny Valentine, che accompagnò il trombettista tutta la vita: Your my funny Valentine, sweet comic Valentine, you make me smile with my heart. Certamente, è una delle più belle canzoni del secolo XX° soprattutto nella versione impareggiabile cantata dalla voce di Chet
Lo scopo di questa celebrazione del genio di Baker è scoprire la storia di un uomo e di un artista ma anche svelare quella dell’amore di tanti appassionati per la sua opera. Segue Basin street Blues ed è un ritorno all’infanzia di Chet, alla sua prima tromba regalatagli dal padre spiantato e illuso come dicevamo più sopra. Senza soluzione di continuità è risuonato Hotel universo che ha permesso a Fresu di raccontare un aneddoto davvero commovente .
Qualche tempo fa, era in tour con il suo quartetto e si trovava a Lucca per un concerto. Pernottavano in un vecchio e malconcio hotel del centro, Fresu rimase piacevolmente sorpreso quando scoprì che gli era stata assegnata, a sua insaputa, la medesima stanza che tanti anni prima aveva occupato proprio Chet Baker poco prima di scontare la sua condanna per droga nel carcere della città. Sopra la testata del letto, capeggiava una sua foto del trombettista scattata proprio in quella stanza. L’episodio è stato d’ispirazione per la composizione di Hotel universo, un brano d’emozioni uniche che ha commosso e deliziato il pubblico di Grado Jazz.
C’è una grande dolcezza e tenerezza nel modo di suonare di Fresu; il suono del suo strumento è sempre accogliente, avvolgente, comprensivo e bonario, come un buon amico che sa ascoltarci, confortarci nei momenti di disillusione e forse anche comprenderci.
Non sono mancati nemmeno i momenti nei quali attraverso la musica si sono ricordati gli scandali e la tossicodipendenza del trombettista americano. I brani Palfium e Jetrium con la batteria registrata di Stefano Bagnoli ricordano la Destromoramide, un potente analgesico oppiaceo, più potente della morfina, di cui Chet abusava in mancanza d’eroina proprio quando si trovava in Italia. Cercò più volte di disintossicarsi ma la dipendenza e il vizio lo accompagnarono tragicamente fino all’ultimo giorno della sua vita.
Ripensare a Chet vuol dire anche interrogarci su noi stessi. L’Italia che lui vide quando arrivò la prima volta è sostanzialmente diversa da come noi ce la immaginiamo e con la sua musica possiamo ci possiamo calare in quelle situazioni da un altro punto di vista, riconsiderando le nostre mancanze e le nostre miserie.
Le magie dell’elettronica hanno permesso a Fresu, sul finire del sua biografia per musica, di dialogare direttamente con la voce dello stesso Chet Baker e di duettare con lui sulle note della celeberrima canzone Blue Room in un incanto da togliere il fiato.
Uno sguardo retrospettivo di questo genere così ispirato, delicato e intelligente, è stato possibile solo grazie alle doti espressive di un grande interprete come Paolo Fresu che, con il fascino delle sue melodie e la sua straordinaria empatia, ha saputo guidare il pubblico in un viaggio a ritroso nella vita e nell’arte di un genio del quale si dimostra ancora una volta legittimo erede.
Nel finale un sentito omaggio a João Gilberto, il maestro brasiliano padre della Bossa Nova e di tanta meravigliosa musica. Fresu e i suoi due compagni s’impegnano in una incredibile versione di E la chiamano estate di Bruno Martino.
Hanno concluso meritati Applausi, oceano di mani.
© Flaviano Bosco per instArt