Nel suo Diario di un gatto con gli stivali, Roberto Vecchioni, detto il Professore, scrive: Io nelle mie canzoni ho sempre tentato di scrivere storie al contrario, laterali o oblique. Le favole mi hanno sempre affascinato: in esse si trovano rappresentazioni psicologiche elementari…Ho cercato di far uscire le favole da se stesse. Perché ogni storia contiene il suo contrario. Perché niente è come appare: le favole sono alibi. E perché niente, infine, appare com’è: gli alibi generano altre favole.
Ragazzo di settantasei anni il cantautore milanese, autore di quarantacinque album e decine di romanzi, continua ancora oggi a raccontare la sua poesia in musica con una caratura fuori dall’ordinario e senza tempo. La sua statura poetica gli permette di essere contemporaneo e anacronistico nello stesso momento aiutandoci a guardare la realtà in modo sempre nuovo e antico come solo i grandi maestri possono fare. Lo testimonia il suo L’infinito Tour 2019 andato in scena al Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Ognuno dei presenti ha capito subito di trovarsi davanti ad un grande Poeta come ce ne sono pochi ed una signora dal loggione, in un momento di silenzio, lo ha gridato a gran voce interpretando il pensiero di tutti.
Vecchioni si è guadagnato sul campo il titolo che da anni lo distingue nel panorama della musica italiana. Il professore nell’antichità latina non era solamente l’insegnante togato e professionale (Magister), ma era quel sapiente la cui autorevolezza era riconosciuta dalla comunità anche al di fuori dell’angusto ambiente scolastico. Vecchioni ha insegnato in vari licei classici dal 1969 al 2004 ed ha tenuto corsi all’università, proprio negli anni in cui la sua fama di cantautore cresceva e si affermava.
Ancora a sipario chiuso, mentre le luci si abbassano sul pubblico del Teatro in attenta attesa, la voce del prof. risuona dal palco fino alle ultime file delle gallerie; è una voce melodiosa, profonda e carezzevole che accompagna gli spettatori lungo le stazioni ferroviarie del ricordo e della riflessione su noi stessi e su quello che ci sta davanti. La prima canzone in scaletta è Una notte, Un viaggiatore e si ispira al romanzo di Calvino che medita sulle possibilità della letteratura e sulla paradossale impossibilità di giungere ad una visione concreta della realtà.
Tra una canzone e l’altra Vecchioni si confida con il suo pubblico che non si perde una singola a battuta. Comincia citando una celebre sequenza di Amarcord di Fellini nella quale il nonno di Titta, il protagonista, si perde nella nebbia appena fuori dal cancello di casa. Da quel momento passano in un battito di ciglia due ore e cinquanta minuti di indescrivibili emozioni, pausa compresa per arrivare con il penultimo di ventidue brani tra i ricordi e il gioco dentro la nebbia di Luci a San Siro tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là.
Il professore ha avuto tutto l’agio di spiegare al suo pubblico che quella che intende è una nebbia nella quale non ci si perde ma dentro la quale si ritrova se stessi e il naufragar ci è dolce in quel mare.
Ad accompagnarlo nella pericolosa navigazione un quartetto di solidi musicisti con il poli-strumentista Lucio violino Fabbri alla direzione artistica e musicale già insostituibile collaboratore di P.F.M, De Andrè e molti altri. Tutto il concerto ha musicalmente la sua impronta.
Vecchioni con il suo cuore caricato a sogni e con la sua idea di tempo verticale, con la sua fissazione dei ritorni, con i suoi treni persi e la sue scale racconta le proprie storie in musica convincendo tutti che la vita è sempre una festa e che più s’invecchia e più si diventa giovani. Euripide diceva che Non ama davvero chi non ama per sempre.
Sembra quasi che tutti i poeti del mondo, sostiene, in realtà, abbiano sempre cantato i loro versi per una stessa donna con nomi diversi, ogni canzone d’amore si perde nel vento e non sai dove va. Il poeta chiede a questa donna, sotto le cui meravigliose spoglie mortali si cela l’inesorabile Nera Signora, di porre fine alle proprie sofferenze. Per questo invoca l’ultima musa pregandola di portarlo via: non riconosco più nessuno…questo non è più il mio tempo. Non è più il mio canto, non è la mia gente. È solo un breve momento di disillusione e di disperazione che non nasconde però alcuna nostalgia, rimorso o rimpianto per ciò che è perduto forse per sempre.
Si arriva così come in una traslazione onirica ad uno dei momenti più emozionanti dell’intera esibizione: la canzone dedicata a Giulio Regeni e soprattutto al dolore di sua madre associato a quello irredimibile, incommensurabile di Andromaca, della madre di Cecilia nei Promessi Sposi fino a Madre Courage di Brecht e alla mamma del comandante Ernesto Guevara de la Serna. Tutte le mamme del mondo che hanno perduto un figlio simbolicamente unite in una veglia in nome dello sfortunato studente di Fiumicello.
Vecchioni finisce il brano tra le lacrime, percependo quelle di gran parte del pubblico e una cascata di lacrime sembra inondare il proscenio dalle gallerie fino alle primissime file a lavare le ferite del povero Giulio. Piangere in pubblico però cantare che questo vivere è una festa come dice una sua canzone. Vi chiedo solo di non far rumore, vi prego se potete fate piano. Giulio è di là che dorme, sullo schermo dietro ai musicisti appare la Pietà Rondanini di Michelangelo e un miracolo laico di compassione si compie tra gli applausi e i singhiozzi.
Il Cantautore continua l’esibizione sostenendo che non si scappa davanti alla nera Signora , non ci si chiama fuori, più forte è il destino più forti dobbiamo essere noi e parte così il meraviglioso brano scritto insieme all’amico Francesco Guccini e dedicato ad Alex Zanardi e ad altri eroi contemporanei che se non riescono più a correre imparano a volare. Un’altra canzone ancora è dedicata al cappuccio rosso di una combattente curda contro l’Isis che non teme di sacrificare la propria vita, armi in pugno, per difendere ciò che ha di più sacro, l’amore e la libertà, mentre i suoi giorni più belli sono lacrime e sabbia.
I suono del mandolino di Fabbri impreziosisce molti brani regalando un’atmosfera sognante e sospesa quasi d’altri tempi, quelli belli.
Incantevole il brano dedicato al soggiorno di Giacomo Leopardi a Napoli, il periodo più felice della sua vita durante il quale il poeta di Recanati si sentì per la prima volta amato e amò la gente e i rumori della città dai quali si era sempre sentito deriso; il gelato sorbito nei caffè del Corso, le chiacchiere e gli schiamazzi degli scugnizzi la bellezza del golfo, l’euforia dei grilli della sua sera tutto entrò dritto nel cuore di Leopardi tanto che forse l’Infinito non era di là della siepe ma era di qua come canta in un verso straordinario Vecchioni.
Segue qualche considerazione in musica sugli anni formidabili del ‘68 e della rivolta studentesca e forse solo un po’ di rimpianto per la parola Compagni scritta nel vento della storia che ora appare lontana. La parola sta morendo, la parola va salvata come dice Ungaretti scavata come l’abisso come l’azzurro cielo. Su questa frase si chiude il sipario sulla prima parte del concerto, un senso di meraviglia lascia quasi attoniti e smarriti gli spettatori che riprendono a respirare regolarmente dopo aver a lungo trattenuto i sospiri in un silenzio meditato e religioso.
È proprio su temi scanzonati e teologici che si spalanca la seconda parte con una formidabile riflessione sul peccato originale che non ci ha per niente condannato ma al contrario salvato dal paradiso e resi liberi e disobbedienti, forse proprio come si aspettava, in realtà, il creatore che non pretendeva davvero obbedienza e sottomissione ma caparbietà e curiosità proprio la doti femminili che hanno permesso al mondo di diventare la meraviglia che è.
Attraverso la voce e gli aneddoti di Vecchioni il palcoscenico si anima ancora una volta di magia, il cantante mai retorico e nemmeno trombone saccente, camicia bianca e jeans, non ti fa mai sentire fuori posto, o preso in giro. Non c’è bisogno di sospendere l’incredulità per credergli. A testa alta guarda il pubblico con sincerità e racconta le sue storie direttamente al cuore delle persone, senza alcuna sguaiatezza o forzatura; non ha paura di incontrare gli altri ma si apre al sentimento e alla comprensione non si può che ricambiarlo. Vecchioni incanta cioè letteralmente stupisce attraverso il canto, la sua è un arte antica che apparteneva agli aedi o ai troubadours occitani. Scaturisce da lui un’energia positiva che fa vibrare a lungo le corde del cuore.
In conclusione, non è possibile esprimere tutta la gioia che ancora percepiva il pubblico lasciando la sala del Nuovo dopo che era calato l’ultimo sipario, se non facendo riferimento ad un epigramma di Callimaco contenuto nel fortunato romanzo di Vecchioni Scacco a Dio:
Metà della mia anima ancora respira,
metà non so se amore o morte m’ha rubato:
so che non c’è, forse è volata
di nuovo tra qualche ragazzo, e si
che mi ero raccomandato: “Ragazzo, non aprire le braccia a lei che fugge”.
Cercala: da qualche parte s’aggira
così demente di non corrisposto amore
che la dovresti prendere a sassate.
(Callimaco, Antologia palatina, XII, 73)
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