Roma di Alfonso Cuarón
Alfonso Cuarón, vincitore del Leone d’Oro a Venezia, narra la storia di una famiglia benestante del quartiere Roma di Città del Messico all’inizio degli anni ’70. Sceglie il punto di vista di Cleo una delle due domestiche di casa. Roma è una storia al femminile che oltre a raccontare il personaggio di Cleo si interroga e ci interroga anche su quello di Silvia, la padrona di casa abbandonata dal marito Antonio. Si creerà un sodalizio fra le due quando Cleo, rimasta incinta, a sua volta verrà lasciata sola da Fermìn, il suo ragazzo.
Gli uomini del film sono traditori, incapaci, volubili, tronfi e anche un po’ ridicoli. Al quasi assente Antonio si contrappone Fermín, portabandiera di uno spirito militar-rivoluzionario apertamente sbeffeggiato da Cuarón. Gustoso (e anche un po’ disgustoso) il quadretto che ci mostra questo sedicente cultore delle arti marziali mentre si pavoneggia, nudo, di fronte a Cleo. Antipatico e preoccupante quello degli allenamenti di gruppo all’aperto dal sapore orientale. Fermín porta all’interno del film il clima del periodo, gli avvenimenti storici che intervengono si nel racconto, ma in maniera attutita ed, in un caso, tragica.
Roma è un film intimo, autobiografico, personale. E’ una storia d’acqua.
Con l’acqua si comincia e Cleo nel film, come l’acqua, si trasformerà pur restando la stessa. All’inizio c’è l’acqua saponata lanciata sul pavimento , acqua che cerca di pulire senza tuttavia riuscirci. E’ acqua sfinita ed addomesticata che precipita nello scarico. Acqua incanalata, acqua quieta come quieto è il ritratto che Cuaron ci propone della ragazza. Eppure l’acqua è potente anche quando è quieta, continua a scorrere sotterranea, è inarrestabile, tenace. Piccole onde via via si formano sulla superficie piatta di apparente, passiva accettazione delle cose che si rivelerà essere solo paziente attesa. Cleo non si arrende facilmente, trova la forza dentro di sé per inseguire Fermin, affrontarlo, guardarlo negli occhi, sopportare i suoi insulti e sopportare a denti stretti il definitivo abbandono.
L’acqua del finale sarà quella del mare, ribelle, rabbiosa, violenta, capace di uccidere. E’ una resa dei conti. Quel mare feroce la rappresenta ora: diviene simbolo della rabbia verso se stessa per il suo peccato più grave: non aver voluto quella bambina nata morta, figlia di un amore non ricambiato. Lo dovrà affrontare, dovrà affrontare quella parte di se stessa. Non è un caso che Cleo non sappia nuotare, non è nata libera anche se dentro di lei qualcosa ribolle. Cuaron ci mostra la metamorfosi: non è più, non è solo, acqua non è quella saponata che cade nel tombino. Cleo affronterà il mare per salvare dalle onde i bambini che le sono stati affidati e laverà il suo peccato, trovando, forse, una nuova se stessa.

Green Book di Peter Farrelly / Blackkklansman di Spike Lee
Fra i film candidati all’Oscar quest’anno Green Book di Peter Farrelly e Blackkklansman di Spike Lee sono stati entrambi tratti da storie vere.
Per molti aspetti si trovano sullo stesso binario, ma scelgono di percorrerlo con velocità e stili molto diversi.
Costruzione classica on the road il primo, con quel gusto retrò, ed un certo ottimismo di fondo che, neanche il clima asfissiante della segregazione razziale che racconta, riesce a stemperare. Veste i panni (barando) di un divertente poliziesco a zampa d’elefante il secondo.

Il film di Farrelly racconta la tournèe del pianista afro-americano Don Shirley (Mahershala Ali) nel profondo sud degli Stati Uniti all’inizio degli anni 60. Musicista classico dalle straordinarie capacità Shirley si imbarca in questa crociata per affermare il valore del talento, quello che dovrebbe essere senza colore. E mentre il suo talento è accolto trionfalmente in tutti i salotti più importanti, è l’uomo quello che sarà costretto a sottostare a tutte le regole e leggi della segregazione scritte in quel Libretto verde, ipocrita guida turistica, che da il titolo al film. Per accompagnarlo e proteggerlo sceglierà “l’ultrarealista” Tony Lip (Viggo Mortensen), buttafuori rimasto, momentaneamente, senza lavoro. Logorroico, sgraziato, mangione e maneggione, Tony conquisterà e verrà conquistato da Don. Il film dialoga con gli stereotipi. Lip è l’Italoamericano, legato a filo doppio alla sua comunità di appartenenza, mentre Shirley a causa del suo meticciato culturale non riesce a sentirsi veramente incluso in alcunchè. Dove l’uno si barcamena, l’altro ricerca se stesso, rischiando alla fine di restare solo.

E’ un film di etichette e di appartenenze sbilenche come lo è l’opera di Spike Lee.
Blackkklansman narra la storia di Ron Stallworth (John David Washington), agente afro-americano che, all’inizio degli anni ’70, viene assunto dalla polizia di Colorado Springs. Ritrovatosi nel servizio di Intelligence decide di infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Per ovvi motivi, pur conquistando nei frequenti colloqui telefonici la simpatia del capo del Klan, non può presentarsi direttamente agli incontri e suo alter ego “fisico” diventa Flip Zimmerman (Adam Driver) collega di origini ebraiche. Sia a Stallworth che a Zimmerman quell’etichetta “razziale”, che fa di loro bersagli privilegiati del Klan, non resta ben incollata. Il film è un gioco di travestimenti dove l’identità sfugge.

Come Stallworth in Blackkklansman si affanna cercando una posizione nella polizia, “bianca”, che gli attivisti neri non possono comprendere e non comprendono; così Shirley, in Green Book, cerca il trionfo nella musica (classica) “bianca” quando avrebbe vita più facile suonando il blues e il jazz tradizionalmente “neri” .
Sono entrambi pionieri, outsider di talento, in anticipo sui tempi.
E’ nella miscela degli ingredienti, fra sofferenza, rancore e rassegnazione che i due film si allontano per poi alla fine ritrovarsi. Si ritrovano ponendo forse la domanda essenziale: “ a che punto siamo adesso?”. Ma laddove il sarcasmo militante di Lee accompagna il senso di amarezza dovuto ai tempi trumpiani in Green Book quella stessa amarezza, più intimamente, fa socchiudere gli occhi e sospirando invita a confidare in tempi migliori e nel valore salvifico dell’amicizia.

Black Panther di Ryan Coogler
Primo film tratto da un fumetto ad essere candidato all’Oscar, Black Panther diretto da Ryan Coogler, mette in scena il personaggio di Pantera Nera, nato negli anni ’60 in casa Marvel, per opera di Stan Lee e Jack Kirby. Film peculiare anche per la presenza di un ottimo cast quasi all blacks.
La pantera nera del titolo è il re dello stato immaginario di Wakanda collocato in quell’Africa centrale, culla della civiltà. Wakanda ha tratto enormi benefici dallo schianto di un meteorite, in tempi remoti, che ha portato con se il vibranio, materiale in grado, da una parte, di potenziare le capacità umane se ingerito e, dall’altra, di consentire allo Stato un progresso tecnologico accellerato e senza uguali.
Il piccolo stato, diviso in quattro tribù, ha deciso però di nascondersi agli occhi del mondo e di non interferire nelle vicende umane. Guardando dalla finestra schiavitù, atrocità e guerre.
Quando il padre muore, il principe T’Challa diviene il nuovo re, la nuova Pantera Nera. Dovrà scontrarsi con il cugino, cresciuto in America, che tenterà di rivendicare per se il trono, ma soprattutto dovrà decidere se l’isolamento di Wakanda possa continuare.
Trionfo visivo e di colonna sonora è il terzo film candidato all’Oscar quest’anno a trattare gli stessi temi di stringente attualità: il diverso, la povertà,il colonialismo nelle sue forme più o meno striscianti, il razzismo. E lo fa senza alcuna incertezza, non ci sono, infatti, opposti che si scontrano nel film. Intervenire nel mondo è scelta inevitabile, resta solo da decidere come.
Killmonger il cugino che spodesterà T’Challa non è il Cattivo. E’ solo pieno di rabbia e la via per reagire alle ingiustizie che ha scelto è quella della guerra e della violenza. Ma, lui lontano da Wakanda, non ha avuto altra scelta.
Ritornato al potere T’Challa cercherà di ridare la possibilità di scegliere la pace a quei “diversi” nel mondo. Lo dice, nella tradizione del fumetto classico, fin troppo didascalicamente: agire nel mondo per costruire ponti e non muri.

Il link della prima parte.

Katia Bonaventura © instArt