Terminate le festività natalizie, riprende la programmazione al Politeama Rossetti per il nuovo anno. E lo fa con un grande classico del Novecento: “Così è (se vi pare)”, la commedia/poliziesco di Pirandello, in un nuovo adattamento realizzato dal Teatro Stabile di Torino per la regia di Filippo Dini.
Una versione che sa allo stesso tempo essere fedele all’originale e portare piccole aggiunte e elementi innovativi, ammiccando non poco al surrealismo e a Buñuel in particolare.
La vicenda è quella nota: l’arrivo in città dei coniugi Ponza e della di lei madre, la signora Frola, scatena l’ossessiva curiosità dei paesani. Sembra infatti che il signor Ponza tenga segregata la moglie in casa, mentre la suocera -alloggiata in un bell’appartamentino in un condominio- sia costretta a vedere la figlia solo dal cortile sottostante la casa dei Ponza, dal cui balcone la reclusa si affaccia per calare tramite un cestino delle lettere.
La scena si svolge interamente nell’appartamento dei vicini di casa della signora Frola, un interno borghese claustrofobico e scenograficamente molto ben studiato. La struttura infatti cambia da scena a scena, con le mura che vengono spostate fino al proscenio precludendo di fatto la vista di alcune parti del palco, diverse a seconda della sezione della platea in cui si è. Ciò si rivela un ottimo espediente per calare ancor di più nel clima -tipico dell’opera e di Pirandello in generale- di indeterminatezza e di inconoscibilità del reale, di cui ognuno (in questo caso ogni spettatore) può dare una versione che non coinciderà con quella degli altri.
Sarà in questo appartamento che i “pettegoli” riceveranno a turno la signora Frola e il signor Ponza, cercando insistentemente di carpire loro informazioni in merito a come sia veramente la loro situazione. Verità che però risulterà sempre meno chiara di dialogo in dialogo, con Ponza e Frola a sostenere due versioni diverse: per la suocera è il genero a tenere segregata la moglie per “troppo amore”, mentre per lui la figlia della signora Frola è morta anni prima e la donna segregata è la sua seconda moglie, che però la suocera continua a ritenere sua figlia. La sola cosa che entrambi sostengono è che è meglio non indagare oltre, perché l’unica cosa che può far bene a entrambi è l’essere lasciati in pace nel loro tormento.
Il tema fondamentale dell’indagine dei vicini di casa diventa quindi la pazzia: una delle due versioni DEVE per forza essere vera, quindi dei due chi è quello sano di mente e chi quello fuori di senno? Ed è qui uno degli elementi che discosta questa versione dall’opera originale: la pazzia (originariamente “relegata” alla strana famiglia/triade) presto dilaga sul palco e inizia a prendere possesso di tutti gli improvvisati investigatori, che col procedere degli atti si mostrano sempre più agitati e in preda all’ossessione per una verità irraggiungibile. La cosa si traduce anche scenograficamente, con i loro vestiti e le loro capigliature sempre più disordinati. Ed è molto brava l’intera compagnia di attori nel riuscire a mantenere questa “degenerazione” nei limiti di una comicità sì piuttosto marcata ma che quasi mai scade nel macchiettistico (tranne qualche perdonabile caso isolato). E che col passare degli atti fa provare una certa simpatia per quella sgangherata combriccola. Così cinica nell’opera originale, impegnata solamente in una macelleria umana nei confronti dei tre “diversi” e a cercare di fare luce (per farla diventare anche un po’ propria) sulla tragedia che li avvolge. E invece così vittima della propria stessa ossessione in questa regia, che li sa rendere in qualche modo più “umani”, anche se non meno colpevoli.
Discorso a parte merita Lamberto Laudisi, unico abitante della casa non investito dalla brama di conoscere la verità e che sin dall’inizio sostiene che potrebbe non esisterne una sola e che a loro modo entrambe me versioni sono vere, in quanto tali nella mente di ciascuno dei due sfortunati. E quindi rivendica un’uguale concretezza per la costruzione soggettiva del mondo, quel “fantasma” che ben viene delineato nella famosa sequenza allo specchio. Che qui si tramuta in sogno, dove uno smarrito Laudisi si ritrova circondato da specchi, quasi a giustificarsi davanti a un’immaginario pubblico (ma non tanto, visto che in quel momento vengono accese le luci in sala) che lo deride e a confrontarsi con la mistica personificazione di quel fantasma che è la versione soggettiva di sé stesso, degli altri, del mondo.
Laudisi è il pensiero pirandelliano fatto persona ed è lo stesso Dini a dargli corpo e voce. Encomiabile il lavoro da lui svolto sia in fase di regia che interpretativa. Per quanto non riesca a togliergli completamente quella patina da “sapientone” sa donargli certamente un’ironia fresca e pungente, oltre a dei momenti da protagonista vero e proprio che portano la platea a ridere di gusto.
Affascinante anche la scelta di relegarlo su una sedia a rotelle. Non a causa di un incidente o una malattia: la nipote lo accusa durante lo spettacolo di poter camminare benissimo e di essersi fissato di non poterlo fare. Almeno questo dubbio ha però una risoluzione che si svela nel finale, quando la signora Ponza appare. Lontana dall’enigmatica figura dal volto velato dell’opera originale, qui si presenta estremamente fragile, completamente bagnata di pioggia e dallo sguardo perso. A ripetere continuamente -con voce quasi rotta dal pianto- ciò che gli altri due “diversi” già avevano ribadito: “C’è una sventura come vedono, che deve restare nascosta perché solo così può valere il rimedio che la pietà le ha prestato”. Persa anch’ella ormai in quella pazzia che non ha risparmiato nessuno.
E’ la sua non-risposta (“io sono colei che mi si crede”) che rompe il già instabile equilibrio degli improvvisati investigatori e trasforma la loro l’incredulità in violenza. E’allora che Dini a fatica si alza e protegge la signora, apostrofando tutti (non più con con quel sottile sbeffeggio con cui si era loro rivolto fino a quel momento, quanto con tristezza e sconfitta) con il celebre “Ecco come parla la verità. Siete contenti?”. Lasciando gli altri completamente persi sul palco, ognuno a rintanarsi nel proprio angolino della labirintica scenografia, in preda alla pazzia della non conoscenza.
Luca Valenta / © Instart