Foto Gianluca Moro ©

Quello che ci attende sarà un fine settimana all’insegna della ripresa delle stagioni teatrali griffate CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia rispettivamente venerdì 11 gennaio al teatro Pasolini di Cervignano e sabato 12 gennaio al teatro Palamostre di Udine (37^ edizione Contatto). In scena “L’Abisso”, uno spettacolo di e con Davide Enia tratto da “Appunti per un naufragio” (Sellerio Editore), musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri, produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Accademia Perduta – Romagna Teatri.

Classe ’74, scrittore, drammaturgo e attore palermitano, Enia vanta un invidiabile carnet di premi in ambito teatrale (dal Premio Ubu dello spettacolo 2003 per “Italia-Brasile 3 a 2” pièce d’esordio da lui scritta, diretta e interpretata fino al premio Gassman nel 2006 come migliore talento emergente italiano) e la pubblicazione di due romanzi: “Così in terra” nel 2012 (Baldini e Castoldi Dalai) e “Appunti per un naufragio” nel 2017 (Sellerio). E’ stata proprio quest’ultima fatica letteraria la fonte d’ispirazione de “L’abisso”, uno spettacolo che riporta Enia sul palcoscenico dopo una pausa durata una decina d’anni.

Di motivi per non perdersi lo spettacolo ce ne sono a bizzeffe. L’argomento degli sbarchi di migranti sulle coste di Lampedusa resta di stringente e scottante attualità. Ne ha parlato persino Baglioni in sede di presentazione del prossimo Festival di Sanremo! Oggi più che mai in Italia vi è la necessità di rimuovere i tanti pregiudizi, di conoscere per capire, per riuscire a superare l’assuefazione alla notizia spesso affidata a slogan adottati da rappresentanti politici che denotano una sempre maggiore insensibilità, proiettata esclusivamente alla ricerca di un facile consenso.

L’abisso di cui parla Davide Enia non è solo quello di un mare divenuto sinonimo di dolore e morte ma anche quello più intimo, quello di un suo viaggio interiore alla riscoperta delle radici. Con la forza della parola, del gesto appassionato, con un monologo intenso ed essenziale, Enia ci conduce in un viaggio dove emergenze umanitarie ed esigenze quotidiane si intrecciano, in cui il dolore di tanti è lo stesso dolore di una persona sola.

Dal 2002 un percorso professionale il suo in costante ascesa. Quale talento si riconosce?
Quello di avere anteposto la mia libertà a tutto anche a costo di scelte antieconomiche e da carrierista. All’apice del successo, tra il 2007 e il 2009, ho avuto la forza di fermarmi, chiudendo con il teatro perché incapace di adeguarmi a un sistema visibilmente incancrenito. Ho scelto di mettere da parte il teatro e di dedicarmi esclusivamente alla scrittura.

Scrivere e mettere in scena storie e sentimenti: da dove nasce questa passione?
Non si tratta di passione: è semplicemente il mio lavoro! Passione sono per me la cucina, il buon vino, il tifo per il Palermo, la musica. Certo un’inclinazione c’è. Per il resto devo onestamente ammettere che nasce tutto da un’ossessione-compulsione che mi porta a pensare in maniera continuativa a un testo, alle sue possibilità di sviluppo oppure, nel caso di uno spettacolo, alle azioni sceniche, alla una regia, al modo di illuminare la scena all’insegna della coerenza e del rigore rispetto al progetto che ho scelto di affrontare.

Da “Appunti per un naufragio a “L’Abisso” qual è stata la motivazione più forte che l’ha spinta a trasformare un romanzo in messa in scena teatrale?
La spinta inziale è stata quella di capire cosa stava succedendo in un territorio che è un’estensione di casa mia, della mia Sicilia: Lampedusa. Il primo tentativo di comprensione è avvenuto attraverso la parola scritta. Con il romanzo ho provato a capire se la parola poteva bastare per raccontare il presente in un momento di crisi. Ho così realizzato il fallimento della parola che non basta a dire quello che sta realmente accadendo perché davvero smisurato. Con la prima parola del titolo del mio romanzo “Appunti” denuncio di fatto detto fallimento perché si tratta di un termine che nega idealmente la struttura compatta e chiusa del romanzo. Nella scrittura non avevo trovato il modo di stabilire la distanza necessaria tra me e i fatti che mi avevano trapassato perciò ho voluto misurarmi con un altro linguaggio, quello teatrale in cui la parola trova corpo nell’azione scenica.

A proposito di linguaggi, lo spettacolo vive anche di musica. Quanto è stata importante?
Giulio Barocchieri (autore ed esecutore della colonna sonora) ha sempre lavorato con me, la creazione del testo e della musica sono avvenute in perfetta simbiosi, ci siamo interfacciati continuamente durante tutte le prove. Il testo e la musica si sono reciprocamente adeguati, influenzandosi. Ciò che mi è stato chiaro fin dall’inizio era la presenza di una chitarra elettrica per cercare suoni distorti, sporchi perché sporca e distorta era la realtà che avevo incontrato nella terra di frontiera.

Quanto e come il suo lavoro, in particolare l’Abisso, ha cambiato il suo approccio alla vita, al quotidiano?
L’esperienza lampedusana mi ha cambiato profondamente sotto il profilo umano ma credo cambierebbe qualunque persona assistere a uno sbarco. Io ne ho visti molti, più di 150, essendo stato lì per anni. La constatazione che ne ho ricavato è molto amara. La narrazione che ci arriva rispetto ai fatti che accadono su quell’isola è quasi sempre strumentale, manipolata, drogata, tendenziosa, non racconta mai la pura realtà… Ed è ancora più allucinante constatare che i veri protagonisti cioè chi la abita, chi vi lavora, chi vive nella terra di frontiera o chi l’attraversa sono gli unici esseri umani ad essere zittiti. Ciò che fa rumore, che fa notizia, purtroppo è sistematicamente l’urlo del politico, di chi vive a migliaia di chilometri di distanza.

Che cosa dovremmo imparare a fare noi gente comune che vive lontano da quei luoghi?
L’unica cosa da perseguire e che ci si dimentica sistematicamente di fare è quella di abituarsi ad ascoltare. Ascoltare è fondamentale per poter capire.

Il teatro può offrire una valida alternativa a questo?
Il teatro per sua natura, necessità e origine è luogo deputato a parlare delle crisi del presente aiutandoci a ragionarci insieme. E noi gente del teatro abbiamo l’obbligo morale di farlo quanto più è possibile.

Dal debutto del suo spettacolo l’ottobre scorso a oggi quali sono state le reazioni del pubblico?
C’è qualcosa di assolutamente imprevisto. Alcune centinaia di persone a fine spettacolo si fermano nel foyer per continuare a parlare, per stringersi la mano, per abbracciarsi, per condividere dei pensieri. Pare essere tornato quel senso di comunità di cui negli ultimi tempi si era persa traccia. Mi conforta scoprire che questo mio lavoro stimola la riflessione non solo rispetto a ciò che accade alla frontiera ma anche dal punto di vista intimo e privato. Per me si è trattato di raccontare il dolore per la morte di mio zio Beppe che un tumore si è portato via per sempre e di cui io racconto spudoratamente in scena.

Da artista e quindi da cittadino come vive l’attualità italiana e del mondo contemporaneo?
Cercando, con difficoltà sempre crescente, di sospendere il giudizio su ogni singolo essere umano, anche su quelli che vomitano odio perché probabilmente hanno una vita talmente infelice che sanno solo aggrapparsi a sentimenti meschini. Ogni giorno m’impongo di sospendere ogni giudizio cercando di comprendere le ragioni della persona che ho difronte senza per questo giustificarle.

Nei suoi testi c’è tanto dolore che però non riesce a sopraffare la speranza. Lei ne ha ancora?
La speranza non può mancare perché esiste un movimento completamente trasversale sostenuto dalla forza di valori solidissimi che riconosce la necessità della tutela della vita al di sopra ogni altra ragione.

Rita Bragagnolo © instArt