E’ un finale d’anno decisamente scoppiettante, quello che il Rossetti ha preparato per questo 2018. In attesa dell’evento circense “Alis” (dal 29 al 31 dicembre), la settimana prenatalizia è stata quella dei grandi ritorni. Con “Copenaghen”, infatti, c’è innanzitutto il graditissimo ritorno di Umberto Orsini e Massimo Popolizio, che nel 2017 era stato possibile ammirare e applaudire sullo stesso palco per la loro entusiasmante performance ne “Il prezzo” di Miller. E il ritorno di un testo che ancora calca le scene dopo ben diciotto anni dalle prime rappresentazioni, senza per questo perdere nulla della sua forza iniziale.
Merito certamente della sapiente regia di Mauro Avogadro, che ha saputo “tradurre” la complessità del testo di Michael Frayn e trasformarla in ritmo, una tensione costante che conquista lo spettatore e lo avvolge nella ricerca di una risposta, una conclusione, come nei migliori romanzi gialli. E lo fa senza togliere nulla della potenza del testo originale, che si muove tra fisica, politica e storia ma porta presto l’attenzione su tematiche sociali, etiche e morali. La chiave della sua traduzione sta nel non aggiungere ulteriore complessità (di scene, di costumi, di cambi palco) a quella iniziale, e anzi a puntare sull’esatto opposto: la semplicità.
Ci ritroviamo così in uno spazio senza tempo, quasi vuoto, dominato dal nero e dal grigio. Sullo sfondo qualche lavagna piena di formule matematiche. In scena solo tre sedie. La luce -quasi sempre uniforme, se non per qualche occhio di bue in alcuni momenti- contribuisce a creare la dimensione onirica in cui si muovono i tre protagonisti, vestiti anch’essi di grigio. Un allestimento scenico che permette di concentrarsi appieno sulle mille sfaccettature del testo, su quella domanda iniziale (“perché Heisenberg si recò a far visita a Bohr a Copenaghen?”) che non otterrà mai una risposta definitiva ma anzi -come nel tiro iniziale di una partita a biliardo- porterà allo scoperto nuove questioni e nuovi quesiti morali e etici.
A cercare di dare una risposta sono proprio i tre protagonisti di quella sera: Werner Heisenberg, fisico tedesco scopritore del principio dell’indeterminatezza; Niels Bohr, fisico danese -prima maestro di Heisenberg, poi suo collega e amico- padre del principio di complementarietà che assieme all’indeterminatezza fa da colonna portante alla cosiddetta “interpetazione di Copenaghen” della meccanica quantistica; Margrethe Bohr, moglie di Niels e presente la sera del fatidico incontro.
E’ proprio Margrethe a formulare per prima la domanda. I tre però, morti ormai da tempo e ora anime che -in linea con la loro mente indagativa da scienziati- non si danno pace, sono avvolti da una sorta di oblio che non permette loro di ricordare cosa sia accaduto veramente. Nasce da qui una serie di ipotesi, di tentativi di rimettere in scena quella sera, dall’imbarazzato reincontro dopo anni davanti alla porta di casa Bohr, alla cena tutti assieme, ai dieci minuti di passeggiata dei due scienziati al rientro della quale la loro amicizia era improvvisamente finita. Le ricostruzioni degli eventi non riescono però ad essere analitiche e vengono venate da vecchi rancori e pregiudizi che oscurano l’imparzialità delle loro menti. Oltre a confondersi con altri episodi -precedenti o successivi- delle loro vite.
Come se ciò non bastasse, ben presto il piano puramente scientifico dei loro discorsi si interseca a quello politico. Ed è qui che si gioca il grosso dell’incontro. Sì perché in quello spazio afono sembra quasi di assistere a uno strano incontro di boxe a tre, dove vecchi amici si trasformano in rivali. La posta in gioco non è solo scientifica: si parla di etica e di morale in un contesto che sembra averle completamente dimenticate, quella seconda guerra mondiale in cui -a fianco di quella sui campi di battaglia- si combatteva anche la guerra per raggiungere per primi la bomba atomica. In questo scontro Heisenberg rappresenta simbolicamente la Germania, quel paese che aveva dilaniato il mondo mostrandogli orrori mai visti prima, mentre Bohr -ebreo- diventa l’icona del popolo oppresso. E diventa presto lampante sul palco lo sbilanciamento di questo match. Un “due contro uno” e un’apparente divisione buoni/cattivi, con un Bohr calmo e convinto della propria superiorità morale ma soprattutto con una Margrethe rancorosa e sempre pronta ad accusare Heisenberg e a interpretare i suoi dubbi di volta in volta come arroganza, supponenza, codardia o mancanza di spina dorsale. Per assurdo è proprio Heisenberg -chiaramente colpevole nella mente degli altri due- ad essere il più “umano”, il più tormentato dal pensiero di ciò che i loro studi teorici hanno poi portato. La domanda che nell’ipotesi dello spettacolo egli pone a Bohr durante la fatidica passeggiata ne è esempio lampante: “ha un fisico il diritto morale di lavorare allo sfruttamento pratico dell’energia nucleare?”
Se questo gioco di ipotesi funziona appieno è merito anche di tre attori straordinari, senz’ombra di dubbio tra i più grandi della scena teatrale contemporanea del nostro paese. Gli stessi che già diciotto anni fa calcarono le scene in questi ruoli e che oggi Umberto Orsini -ora a capo della compagnia teatrale che porta il suo nome e che ha prodotto questa riedizione- ha fortemente voluto di nuovo con sé.
Rivediamo quindi un Massimo Popolizio che con Orsini ha ormai una completa sintonia, così come era già stato possibile notare ne “Il prezzo”. E’ incredibile la complessità che Popolizio riesce a donare al suo Heisenberg: uscendo completamente dal classico schema dello scienziato “tutto cervello e niente cuore”, costruisce un personaggio tormentato che continua a chiedersi quanto siano state giuste le sue decisioni. Perché il suo costante tentativo di rallentare gli studi tedeschi sull’atomica ha sì permesso la vittoria degli alleati ma a un prezzo che la sua anima difficilmente riesce ad accettare: più di 100.000 vite umane a Hiroshima, oltre alla disfatta anche psicologica della sua patria. Un tormento interiore unito a una sotterranea fragilità che lo rende adorabile e che crea un forte legame empatico con la platea.
A fargli da contraltare un Bohr estremamente pacato, che molto più di Heisenberg riesce a mantenere una mente analitica da scienziato, pensando meno alle conseguenze pratiche (e senza sentirsi in colpa quando Heisenberg gli rinfaccia di aver dato il proprio contributo alla bomba che causerà quei 100.000 morti). E’ bravissimo Orsini nel tratteggiare un Bohr per metà padre pronto a una carezza, per metà confessore. Moralmente superiore sì, ma che allo stesso tempo non se la sente di giudicare troppo severamente il suo vecchio allievo e che non condivide la durezza della moglie. E che anzi sente ora il dovere da buon padre di stare ad ascoltare Heisenberg, così come non aveva saputo fare durante quella passeggiata.
Terzo elemento del triangolo di personaggi, Margrethe è invece l’accusatrice dura. Ai suoi occhi Heisenberg rappresenta il male nazista ed è quindi colpevole a priori. E ogni aspetto di quella sera che il fisico tedesco cerca di chiarire sarà per lei motivo di accusa: per il bisogno di assoluzione da parte di Bohr che Heisenberg sente, all’incapacità di quest’ultimo di prendere una simile decisione da solo. E’ semplicemente splendida l’interpretazione di Giuliana Lojodice: la sua Margrethe appare davvero eccessivamente inflessibile e ingiusta, soprattutto davanti a un Popolizio/Heisenberg molto spesso fragile e indifeso. In più di un momento ci si sente colpiti allo stomaco in prima persona e si vorrebbe alzarsi dalla propria poltrona per ribattere alle accuse che Heisenberg incassa senza essere in grado di (o senza volere) difendersi.
Dopo diciotto anni, quindi, “Copenaghen” torna senza aver perso nulla dell’edizione originale. Non è uno spettacolo semplice, soprattutto perché vengono toccati argomenti scientifici ed enunciati teoremi fisici con cui lo spettatore medio non ha dimestichezza. Eppure allo stesso tempo sa essere estremamente avvincente e sempre attuale. Non da risposte, anzi partendo da una semplice domanda ne genera molte di più nella mente dello spettatore. Ma non sono forse le domande -soprattutto etiche e morali come quelle che “Copenaghen” lascia- la cosa più preziosa che si possa avere, in un’epoca che sempre più sembra spronare all’accettazione acritica e passiva di ogni cosa?
Luca Valenta / © Instart