La sfida era impervia e sulla carta quasi improponibile. D’altronde è normale quando si decide di avere a che fare con un mostro sacro come Shakespeare, e con uno dei suoi drammi più popolari come Macbeth. Lo diventa ancora di più quando l’approccio usato è quello di un cambio radicale come quello di Alessandro Serra. Non una semplice rilettura ma un cambio completo di ambientazione: le lande verdi della Scozia si trasformano quindi nei rocciosi terreni della Sardegna e il sardo prende il posto della lingua del drammaturgo inglese.

Sfida che nel 2017 -dopo una gestazione lunga e meditata- ha dato origine a “Macbettu”, un’opera unica che pur portandosi agli antipodi dell’originale su praticamente ogni aspetto tipico della drammaturgia shakesperiana (torneremo più in dettaglio su questo) è in grado di esaltarne le tematiche di fondo e rivelarne la quintessenza.

Non a caso sin dalle prime repliche lo spettacolo ha ottenuto un enorme successo di critica e pubblico, oltre a una serie notevole di premi tra cui l’Ubu (quello di maggior prestigio per il teatro italiano) o il premio della critica da parte dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro.

In questo finale di 2018 è stato finalmente possibile applaudirlo anche a Trieste, grazie alla sinergia tra il Politeama Rossetti e lo Stabile Sloveno che lo ha portato sul palco di quest’ultimo. E toccare con mano perché si può dire che la sfida di Alessandro Serra e Sardegna Teatro sia stata vinta su tutta la linea.

Sin dai primi momenti si viene avvolti in uno spazio visionario ed evocativo, fatto di una scenografia ridotta all’essenziale (quattro pannelli di metallo, delle pietre, una sedia e una porta in legno sono tutto ciò che riempirà il palco nell’ora e mezza dello spettacolo), di luci quasi sempre basse e spettrali, e di una parte audio dirompente che con suoni tipici e cacofonie estreme sa ben ricreare le atmosfere della terra dei nuraghe. Vista e udito vengono catturati in un viaggio che lascia volutamente da parte tutto ciò che è orpello, ornamento magari bello ma inutile nello scandire la discesa di Macbettu nella pazzia. Ne è ottimo esempio la scena del banchetto a casa di Macbettu: il pasto diventa un’abbuffata animalesca attorno a un’unica ciotola dove Lady Macbettu versa il cibo e a cui gli invitati accorrono a quattro zampe e a petto nudo, mentre un’orgia di grugniti maialeschi riempire la sala.

Si potrebbe dire che la parola d’ordine dello spettacolo è “togliere”: togliere scenografie, togliere costumi, togliere dialoghi (quelli che vengono messi in scena sono davvero il minimo indispensabile per poter seguire il dramma anche se non si conosce l’originale). E riempire tutto quel vuoto con una solennità fatta di movimenti lenti, di sguardi e gesti che sanno trasmettere la visceralità al contempo di una terra e di una vicenda oscura, dannata, senza redenzione.

Mai il dramma di Shakespeare è stato così cupo. Eppure mai -nello stesso tempo- è stato così in grado anche di far sorridere, grazie alla splendida caratterizzazione delle tre streghe da cui Macbettu riceve tutte le profezie che ne causeranno le efferate azioni. Vestite completamente di nero, gobbe e dai movimenti buffi e macchiettistici, hanno saputo strappare diverse genuine risate alla platea con i loro siparietti semiseri. E questo senza nulla togliere alla profonda cupezza dello spettacolo, anzi esaltando ancor di più la viscerale tristezza degli altri protagonisti e della loro graduale discesa verso un inferno fatto di dolore e rassegnazione. Non solo quella di un Macbettu roso dai sensi di colpa: nessuno esce davvero redento dalle vicende che porteranno alla fine del tiranno di Scozia, e anche chi apparentemente è vincitore lo è ad un prezzo troppo alto per poter considerare salva la sua anima.

I protagonisti -come da tradizione elisabettiana- sono tutti maschi ed è encomiabile la loro prova: la loro fisicità riempie il palco ed i loro movimenti a volte lenti e misurati, a volte forsennati ben sa dare il ritmo alla scene che si susseguono. Come già detto la recitazione è interamente in sardo (con sovratitoli). Anche questa risulta essere una scelta pienamente azzeccata e quell’idioma ruvido e spigoloso, così simile a un canto, aggiunge solennità all’intera vicenda. Anche grazie ai diversi momenti in cui i borbottii da fuori palco degli attori si aggiungono a suoni e rumori per creare un tappeto sonoro evocativo che accentua la maledizione di cui è permeata la storia di Macbettu.

Più che un “semplice” spettacolo, Macbettu è quindi un’esperienza multisensoriale che riesce magistralmente a raccontare senza dire, a catturare e ipnotizzare facendo appello agli istinti più primordiali dell’animo umano.

Ottimo infine il riscontro di pubblico, con una platea entusiasta che al termine non ha lesinato una lunga standing ovation e che ha fatto tornare sul palco l’intera compagnia per ben cinque volte, prima di concedere che il sipario venga chiuso.

Luca Valenta ©Instart