Non erano certo gocce di rugiada quelle che hanno annaffiato il parco di San Valentino nella seconda serata della rassegna pordenonese, ma il pubblico fatto di veri rocker non si è fatto per nulla intimorire. “Cade la pioggia ma che fa”, forniti di mantelli e ombrelli anche i più previdenti hanno finito per rifugiarsi sotto le fronde degli alberi fino a che il temporale estivo non ha deciso di desistere.
Prima di recensire i concerti della serata si permetta una piccola digressione su un’altra delle meravigliose realtà culturali di Pordenone che molti tra i partecipanti al festival, la quasi totalità veniva da fuori provincia e addirittura Regione, non si sono fatti sfuggire.
Un altro splendido luogo verde della città, il parco Galvani, contiene al suo interno, tra tanti alberi e un laghetto circondato da un’infinita varietà di rose, il Paff! il Palazzo Arti Fumetto Friuli che proprio quest’anno è diventato International Museum of Comic Art “con l’apertura dell’esposizione permanente, dell’archivio, del deposito climatizzato per la conservazione delle opere e la biblio-mediateca consultabile”. Un paradiso del fumetto adatto agli appassionati di tutte le età che proprio nei giorni del Festival ospitava una deliziosa mostra dal titolo: “The Art of Aardman Exhibition. Shaun the Sheep & Friends”, un incredibile viaggio nella straordinaria creatività della casa di produzione che ha creato la serie cinematografica “Wallace & Gromit” e ancora capolavori della stop motion come “Galline in fuga” o “Shaun, vita da Pecora”.
Se qualcuno si chiedesse cosa centra il fumetto con il blues e con lo sviluppo della musica afroamericana farebbe meglio a rivolgersi al grande critico e gloria locale Flavio Massarutto che vi ha dedicato tre illuminanti volumi (Assoli di china. Tra jazz e fumetto, Il jazz dentro. Storia e cultura nel fumetto a ritmo di jazz e la graphic novel Mingus).
The Damn Truth: Lee-la Baum (voce, chitarra ritmica), Tom Shemer (chitarra, voci) Py Letellier (basso, voci) Dave Traina (batteria, voci)
Mentre cadevano le ultime gocce del temporale di cui dicevamo più sopra, sono “saltati” sul palco i “The Damn Trouth”, la band canadese di spalla, accompagnati dalle note di White Rabbit dei Jefferson Airplane, tanto per far capire quali sono i punti di riferimento cardinali, è una vera e propria dichiarazione d’intenti cui il gruppo ha tenuto fede nel modo più assoluto per tutto il concerto. Per l’istrionica chitarrista, front woman Lee-la Baum e i suoi musicisti, che si definiscono “profondamente rock’n’roll hippies, peace & love”, gli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta del secolo scorso, non sono mai finiti, si noti che nessuno di loro per età anagrafica appartiene nemmeno lontanamente a quei decenni. Ogni singola nota che suonano, invece, viene da quell’epoca compresi, amplificatori, volumi, costumi, atteggiamenti, presenza scenica. Tutto quello che fanno ha almeno cinquant’anni ed ha come centro di gravità permanente l’opera dei Led Zeppelin.
La frontman e il chitarrista dicono di essersi incontrati per la prima volta mentre ballavano completamente nudi ad un festival hippie non lontano dal lago di Galilea in Palestina (dove la bibbia dice che Gesù camminò sulle acque). “Siamo stati insieme da allora. Senza pregiudizi o niente da nascondere. Solo amore” per tutte le altre amenità del genere si rimanda al loro sito (www.thedamntruth.com)
Non sono una cover band, ma anche se suonano pezzi originali poco ci manca. Quello che suonano in teoria è autentico, ma in pratica è il frutto di un sapiente assemblaggio di quanto di meglio offre l’hard rock prima maniera nella sua storia gloriosa.
Il mix sul palco funziona egregiamente, la chitarrista ha una gran voce e sa muoversi da vera rockstar, lo spettacolo è decisamente coinvolgente, la birra è buona e fresca, il cibo degli stand è succulento, gli amici sono tanti e vogliono divertirsi e al parco San Valentino si sta proprio bene dopo la pioggia che ha rinfrescato la torrida atmosfera. Cosa volere di più? Peccato che verso la fine del set ci sia stato un piccolo problema con l’amplificazione che per un attimo si è spento senza che loro nemmeno se ne accorgessero, funzionavano solo le casse spia sul palco. Quando se ne sono accorti da veri professionisti hanno continuato come se niente fosse guadagnandosi ancor di più l’affetto e la stima del pubblico. Durante il concerto che è stato caldissimo sul filo delle chitarre distorte e degli anthem scanditi sul battere della grancassa, degli urlettini della cantante, il gruppo ci ha tenuto più volte a ricordare che era venuto direttamente in volo da Montreal in Canada per suonare a Pordenone, evidentemente loro non riuscivano a crederci e volevano convincersene.
Al cambio scena, nell’attesa del main event della serata una dj molto altera, ieratica e darkeggiante ha infilato una serie di successi della New Wave che hanno deliziato una parte del pubblico. Ha mixato il suo dj set da perfetta Dark lady dallo sguardo sfuggente ed algido e dall’enigmatico sorriso appena accennato agli angoli della bocca quasi in un ghigno sprezzante e maliardo come si conviene ad una vera sacerdotessa delle tenebre. Devoti alla Mater Lacrimosa alcuni appassionati si sono messi a ballare sotto il piccolo altare a lei dedicato e pazienza se i brani erano mixati tra loro a colpi d’ascia come si usava prima del digitale. Chissà forse anche quello era un involontario omaggio da parte della virago ai bei tempi andati.
The Cult: Ian Astbury (voce) Billy Duffy (chitarra, voci) Damon Fox (tastiere) Charlie Jones (basso) John Tempesta (batteria)
Quando erano passate abbondantemente le dieci, un pubblico davvero carico accoglieva con un’ovazione i propri idoli. Da dietro le quinte erano stati per primi i fonici ad improvvisare sulle chitarre quasi a voler controllare un’ultima volta il bilanciamento dei suoni che si trasformavano in una nenia orientaleggiante sulla quale entravano i musicisti.
Il suono è stato subito massiccio e frontale, quasi un marchio di fabbrica soprattutto per l’inconfondibile voce di Ian Astbury che, in realtà, stenta nei primi brani, ma migliora progressivamente con lo scaldarsi delle corde vocali fino a diventare limpida e cristallina come ad inizio carriera. L’impatto “violento” è dovuto alla chitarra dell’altro membro fondatore del gruppo, Billy Duffy dalle pesanti sonorità hard rock. Astbury dal canto suo è un artista davvero carismatico che forse non ha il dono della simpatia ma che sa fare egregiamente il proprio mestiere di autentico animale da palcoscenico, istrionico e magnetico. Gli altri componenti della band seppur relegati nel loro ruolo di comprimari rispetto ai due leader storici, sono tutt’altro che turnisti. Il batterista Tempesta ha una lunga militanza nel metal con band come Exodus e Testament, il bassista Jones ha militato nientemeno che nella band del fantastico duo Jimmy Page e Robert Plant tra il 1994 e il 1999, tour compresi.
Nella musica dei The Cult di oggi c’è molto meno spazio alla psichedelia di un tempo, d’altronde non sono passati invano quattro decenni. Bene hanno fatto a non fossilizzarsi su quell’incredibile capolavoro che gli diede notorietà planetaria per la sua bellezza scintillante. Un gioiello luminosissimo incastonato nella storia del rock che, paradossalmente, avrebbe potuto schiacciare la loro carriera trasformandoli in meteore nella scena della musica, come tanti musicisti da un solo disco.
Caparbiamente hanno saputo andare avanti evolvendo il loro stile ma rimanendo originali al di là del cambiare delle mode musicali. E’ vero che la band ha subito varie vicende cui sono seguiti negli anni almeno quattro “temporanei” scioglimenti e altrettante reunion con costanti stravolgimenti della line up, ma è anche vero che musicalmente non hanno perso la grande energia che li ha sempre caratterizzati grazie al sodalizio creativo di Astbury e Duffy. I loro undici album di studio testimoniano di una certa caparbietà e creatività che non è ancora venuta meno e che li vede ancora girare il mondo in acclamati tour.
A Pordenone, sostenuti anche da un gran bel gioco di luci e un’incredibile energia, sono stati scatenati e divertenti facendo saltare e urlare il pubblico che ne aveva una gran voglia quasi fossero una cosa sola.
Nei loro ritmi sono riconoscibili le danze attorno ai totem dei nativi americani il cui immaginario è sempre stato grande fonte di ispirazione per il gruppo. A volte le atmosfere sono state più trasognate e sospese, pur rimanendo sempre incalzanti; tanto che in alcuni brani l’incedere è stato sontuoso e quasi marziale, non sono mancati toni vagamente liturgici evocati dalle tastiere, non a caso si chiamano The Cult. A scatenare il pubblico fino al parossismo naturalmente sono state le hits dei primi album che tutti attendevano come Love, She sells Sanctuary e Revolution che non si sono fatte attendere. Al di là di un briciolo di nostalgia nel cuore dei fan d’annata, anche i brani più vecchi, tratti essenzialmente dagli album Electric e Love, funzionano egregiamente e non suonano per nulla datati.
Quasi un omaggio a tutta la pioggia che il pubblico aveva preso prima del concerto, le note di “Rain” sono sembrate purificatrici come acqua lustrale.
“I’ve been waiting for her for so long. Open the sky and let her come down. Here comes the rain, here comes the rain…I love the rain!”
© Flaviano Bosco – instArt 2023