Abbracciato dal calore del suo pubblico è tornato ad esibirsi in Regione un vero poeta della scena “indie” italiana, ammesso che abbia ancora un senso quest’ultimo termine. Vasco Brondi è di certo un indipendente, uno che va dritto per la propria strada senza guardare troppo al mainstream ma coltivando l’hortus conclusus delle sue emozioni ed esperienze esistenziali di giovane intellettuale che, quasi per caso, compone versi imbracciando una chitarra.

Lo avevamo lasciato diversi mesi fa dopo lo splendido concerto al Teatro Candoni di Tolmezzo, ultimo di un tour che concludeva l’esperienza de Le Luci della Centrale elettrica, il progetto musicale che gli ha dato fama e notorietà e che Brondi avrebbe potuto cavalcare ancora per decenni, scavandosi una carriera sicura e ricavandoci una pensione di tutto rispetto come fanno molti dei suoi colleghi. Invece di sedersi e godersi il frutto della notorietà, il cantautore ferrarese ha deciso di cancellare tutto e ricominciare da zero, o meglio di continuare il percorso con una cavalcatura nuova, più fresca e adatta alle asperità del terreno del presente. Questo primo giro di concerti estivi sembra indicare la nuova direzione. Lo ritroviamo, dunque a Villa Manin accompagnato dai suoi splendidi musicisti: Andrea Faccioli (chitarre), Daniela Savoldi (violoncello) e Angelo Trabace (pianoforte).

Scrive Vasco Brondi sul suo sito:

L’idea di queste sonate per pianoforte, violoncello e chitarre distorte e la possibilità di condividere le cose che sto leggendo e di ritrovarsi dopo questo periodo assurdo sono state un richiamo irresistibile. Mischiare alle mie canzoni altre canzoni che ho sempre ascoltato e scritti che mi sono rimasti dentro e tornati in mente come anticorpi in questi tempi di incertezza. Incontrarsi nello stesso luogo fisico. Riportando fuori i corpi in posti stupendi, tutti insieme responsabilmente come diceva più o meno un vecchio film”.

Quell’avverbio che si sostituisce ad un altro, appassionatamente che diventa responsabilmente, indica però che qualcosa è cambiato radicalmente e per sempre e non in meglio.

La forma di spettacolo con canzoni, poesie e letture non è nuova per lui e gli riesce benissimo, basta solo guardare l’apprezzamento del pubblico, ma il Covid 19 ha davvero cambiato qualcosa, rendendo ancora più evidenti una serie di contrasti già presenti prima e il concerto di Passariano l’ha dimostrato in tutta la sua evidenza.

Vasco Brondi attraverso la sua arte si dimostra sempre di più un acuto osservatore e sismografo della nostra attualità quotidiana. Le sue canzoni sono sempre state descrizioni di attimi d’esistenza inserite in costellazioni dai tempi dispari; così le letture che proponeva durante gli ultimi concerti de Le luci della centrale elettrica interpretavano le rughe e le asperità della vita d’ogni giorno proiettandole in un contesto sociale più ampio e frastagliato. Tutto funziona ancora a meraviglia ed è di piacevole ascolto ma se per un attimo ci si guarda in giro, ci si accorge immediatamente che, in realtà, le assi del palcoscenico della nostra stessa vita mandano dei sinistri scricchiolii e che il baraccone dello spettacolo rischia di venir giù portandosi nella sua rovina i guitti con tutti gli spettatori.

Facciamo un passo indietro per spiegare queste ultime parole che altrimenti appaiono solo vuote e retoriche.

Il filosofo coreano Byung-Chul Han, che Vasco Brondi cita e legge ripetutamente durante lo spettacolo e le cui riflessioni sembrano il vero raccordo tra un brano e l’altro, scrive nel suo Psicopolitica:

Viviamo in una fase storica particolare, in cui la stessa libertà genera costrizioni. La libertà di potere produce persino più vincoli del dovere disciplinare, che esprime obblighi e divieti. Il dovere ha un limite: il potere, invece, non ne ha. Perciò, la costrizione che deriva dal potere è illimitata e con ciò ci ritroviamo in una situazione paradossale. La libertà è, nei fatti, l’antagonista della costrizione, essere liberi significa essere liberi da costrizioni. Al momento, questa libertà, che dovrebbe essere il contrario della costrizione, genera essa stessa costrizioni. Disturbi psichici come depressione e burnout sono espressione di una profonda crisi della libertà: sono indicatori patologici del fatto che spesso oggi essa si rovescia in costrizione”.

In sintesi, la società neoliberista ci ha convinto che obbedire e sottometterci alle regole del profitto e del Capitale siano l’unica via possibile all’esistenza. Produzione e consumo sono baricentro e oscillazione di ogni nostra giornata. La tecnologia digitale ci ha persuasi di essere completamente liberi di conoscere, commentare, agire attraverso lo schermo di un semplice smartphone, basta solo che accettiamo di condividere tutti i nostri dati, spostamenti, gusti, relazioni, affetti, sessualità, e possiamo aver persino preservata e salva la nostra stessa vita da ogni malattia. Il telefonino è diventato il nostro talismano, l’amuleto cui ricorriamo continuamente per rassicurarci e per sentirci amati e parte di un qualcosa che è indefinibile e guardato da vicino, fa davvero paura.

Ma parliamo finalmente del concerto senza continuare a perderci in questi sofismi che però, lo scopriremo in seguito, sono davvero, dichiaratamente, il punto di partenza dello spettacolo che senza di essi non può essere compreso.

Sotto la minaccia di un imminente temporale, prenotati con largo anticipo su internet, inquadrati, contati, ordinati, puliti, disinfettati, ben distanziati, ognuno con la sua bella mascherina, in fila indiana, con la temperatura corporea regolarmente testata da gentili e abili crocerossine, con il posto sul prato rigorosamente indicato e segnato da guardie in divisa militare nera con serti d’alloro come galloni, gli spettatori si sono accomodati, si fa per dire, nel meraviglioso parco di Villa Manin, seduti sull’erba, ognuno con il proprio stuoino davanti al palco degli artisti ricavato sulla scalinata posteriore. Uno scenario mozzafiato che però ricordava vagamente quello di uno dei tanti film di fantascienza sociologica tipo quelli di Yorgos Lanthimos o Neil Blomkamp, tutti felici, o quasi, ma guardati a vista da guardie in tuta spaziale come un branco di alieni infetti.

C’era da domandarsi davvero cosa resta ormai dell’idea di libertà che rappresentavano fino a pochi anni fa i concerti all’aria aperta d’estate e non serve pensare all’età d’oro dei mega-raduni giovanili degli anni ‘60, basta semplicemente andare con la memoria ad uno qualunque dei concerti dell’altro Vasco nazionale per trovarsi proiettati in un altro universo.

L’età media degli spettatori era sulla trentina di un pubblico in generale anche più adulto, d’estrazione borghese, laurea appesa nel soggiorno dei genitori o in studio, passati Erasmus, specializzazioni e vari master, naturalmente la maggior parte precari o con un impiego nel sociale o terzo settore.

C’erano però anche giovani famiglie con educata prole al seguito, ex ragazzi selvaggi di qualche anno fa che avevano visto tenendosi per mano le luci della centrale elettrica e da allora non ne hanno più potuto di essere felici da fare schifo, come continua a cantare il loro poeta di riferimento.

Si vedevano anche rare coppiette di ragazzi molto alternative, tra la nuca rasata di lui, qualche piercing e gli occhiali a cartone animato di lei. Il massimo della trasgressione comunque sembrava, soprattutto per le ragazze, un tatuaggio con una rosa e uno stiletto, bere spericolate la seconda birretta e poi farsi un selfie spettinate.

Spiccava tra tutti un gruppetto di ragazze interrotte che, bevendosi la solita birretta, si passavano una canna, giocando a scopone scientifico come non ci fosse un domani, erano le uniche in mezzo a qualche barba da Hipster con la maglietta Dream-Merda di Canali a sembrare divertirsi davvero come ai bei vecchi tempi andati.

Meno divertente ma sembrava anche lui uscito direttamente dagli anni settanta di cartapesta della televisione, Mox bella camicetta e occhiali, il sedicente cantautore cui era stato assegnato il compito di aprire lo spettacolo. La prima sensazione che restituiva era quella di un clone meno dotato di Rino Gaetano, fasullo e sbiadito, che canta la solita estate volgare con i suoi quattro accordi e i suoi versi da domenica pomeriggio, soli sul terrazzo a guardare le macchine che passano o i rari motorini che impennano, la seconda anche peggiore, Tutturuttutu…

Dopo tanti anni si sperava di non sentire più certi giri a vuoto tra nostalgie e ricordi stantii e di qualcun altro. Tutturuttutu… Le canzoni cui tiene tantissimo sono quelle in cui la solita lei colleziona disagiati come vecchi fidanzati e che quando si abbassa ad allacciarsi le scarpe le si vede il cuore e il culo che sono quasi la stessa cosa. Tutturuttutu… Oppure cantava sguaiato di Mara ma che male, anche il mare prima o poi finisce figurati l’amore. Tutturuttutu…

Dice che era tanto tempo che non cantava davanti a tanta gente e chissà quando gli ricapita perciò Ad maiora è stato l’ultimo suo brano speriamo per molto:

Quand’è che smetti di fumare/ quand’è che inizi a volerti bene/ Quand’è che butti tutti i brutti/ inutilissimi pensieri. Non vedi che ieri era ieri e che domani è domani.

Tutturuttutu…

Mentre le solite ragazze interrotte di cui sopra erano impegnate a preparare dell’altra ganja, il pubblico sembrava meritarsi pienamente i gorgheggi del barbuto borgataro e ringraziava scandendo con generosi battimani, tutto molto estemporaneo come un giro di parole che finisce contro un muro.

Saluta il pubblico plaudente con l’ennesimo Grazzissime, e se ne va. Era ora.

Si cambia decisamente registro con l’approssimarsi dell’esibizione di Brondi, lo si capisce subito già solo dal lavoro dei roadies nell’intervallo: chitarre acustiche, violoncello, tastiere annunciano qualcosa di meno sconclusionato e raffazzonato.

Si apre alla grande con una meravigliosa, intensa poesia di Erri De Luca (Dopo) che Brondi recita con sottofondo dei primi accordi.

Non quelli dentro il bunker,

Non quelli con le scorte alimentari,

nessuno di città,

si salveranno indios, balti, masai,

beduini protetti dal vento, mongoli su cavalli,

e poi uno di Napoli nascosto nel Vesuvio,

e un ebreo avvolto in uno sciame di parole,

per tradizione illesi dentro fornaci ardenti.

Si salveranno più donne che uomini,

più pesci che mammiferi,

sparirà il rock’n’roll, resteranno le preghiere,

scomparirà il denaro, torneranno le conchiglie.

L’umanità sarà poca, meticcia, zingara

e andrà a piedi. Avrà per bottino la vita

la più grande ricchezza da trasmettere ai figli.

Decisamente, non si poteva cominciare meglio che evocando una catastrofe prossima ventura nella quale ci stiamo guardando precipitare.

E infatti, esplodono subito le note di A forma di fulmine nelle quali possiamo correre, possiamo andarcene o stare immobili e lasciare tutto splendere ma soprattutto farci fottere.

E poi Le ragazze lo sanno bene che è proprio Sara ad aspettare di cadere incendiando il cielo come un meteorite e pensano che sei più bella adesso che sfiorisci.

La voce recitativa e sorda di Vasco Brondi guida il suo pubblico dentro queste apocalissi di ogni giorno, catastrofi quotidiane di un’escatologia in sedicesimo dai colori stinti come una vecchia maglietta. Sia detto senza alcuna ironia, questa sua attenzione ai collassi stellari nel microcosmo delle nostre azioni più comuni è quello che fa di Brondi un vero poeta montaliano ed ermetico che in alcuni cocci di bottiglia su un assolato muro sa contenere tutta l’inanità e la crudeltà del vivere.

Durante una breve pausa, il cantante si rivolge confidenzialmente al pubblico raccontando che a lui e ai suoi musicisti mancava moltissimo il contatto con il pubblico, le serate, le canzoni e perfino gli spostamenti in furgone cui adesso è stato aggiunto il parquet come rivestimento al pianale. Proprio una meraviglia, tutto molto divertente; sembra sincero, lo è.

Le canzoni che porta in giro quest’estate sono quelle che sempre lo hanno guidato e sostenuto non solo in questi ultimi mesi di “galera”. Brani suoi e d’altri che sono come talismani e poesie che diventano preghiere laiche la cui funzione è apotropaica o propiziatoria alla dea Fortuna e a sua zia Speranza.

Racconta ancora di quando ascoltò un gruppo punk di giovanissimi al vecchio e glorioso centro sociale Dazdramiri in via d’Este a Ferrara chiuso e murato nel 2007 dal Comune e poi riattato nel “fighetto” Ferrara Off. Il cantante del gruppo, allora poco più che adolescente, girava tra il pubblico distribuendo dei foglietti con la spiegazione dei suoi deliranti pezzi. Il brano Punk sociale che intona di seguito è dedicato proprio alla tenerezza di quel ribelle e benedetti siano tutti quelli che non ce la fanno nella strana intimità dell’età della tecnica.

Quando risuonano le prime meravigliose note de Gli Scafisti il pensiero di qualche spettatore va subito al recentissimo e “lungimirante” provvedimento della regione Fvg che taglia completamente i fondi per l’integrazione e per l’insegnamento della lingua italiana ai migranti. Vacci tu a spiegare il motivo a quelli che abitano “in una città cinese in Africa, in una italiana in Argentina o indiana in Australia ma le nostre storie sono troppo belle non cercare di capirle, non cercare di capirle, non cercare di capirle”.

Brondi rincuora e consola, anche troppo, leggendo ispirato una splendida poesia del poeta coreano Ko Un, “la strada non c’è la costruisco mentre procedo”. E così è già l’ora di rimettersi In viaggio con il Consorzio dei Suonatori Indipendenti e la voce schiacciata dallo spazio senza tempo di Giovanni Lindo Ferretti che si materializza facendosi carne, sangue e vertigine.

Brondi, ancora dialogante, ricorda la prima volta che è venuto a Villa Manin per la festa della pionieristica etichetta discografica La Tempesta con tutti i suoi allegri ragazzi morti che si risolse nel solito nubifragio. D’altronde riconosce che il Paese di primule e temporali cui Pasolini apparteneva era questa stessa terra. Dice di seguire lo yoga e la meditazione proprio come le sue fan di cui parlavamo più sopra, ma di veri Maestri ne ha avuti tanti e tutti “storti” avvinazzati, perdenti, artisti maledetti che ti entrano nel cuore a quindici anni e non ti mollano più.

Canta dei Destini Generali e della luminosa natura morta con ragazza al computer che potrebbe essere benissimo una di quelle sedute adoranti tra il pubblico. In questo senso, la palma va di sicuro ad una ragazza di una volta vestita alla Mary Poppins con lezioso pagliaccetto nero, cappellino su caschetto verdolino, occhiali di Gucci, borsetta a triangolini di plastica lucida e sneakers bianche e nere d’ordinanza, supercalifragilisticospiralidoso perfino l’ombrellino con la Union Jack che nemmeno il principe Carlo.

Ci viene in soccorso una stupenda poesia di Elizabeth Bishop che ci insegna che L’arte di perdere non è difficile da imparare benché possa sembrare (scrivilo) un vero disastro.

Dopo che ci hanno confermato che ogni tanto dormite assieme è andato in scena uno dei momenti più intensi di tutto l’emozionante concerto in cui Brondi ha omaggiato i suoi grandi Maestri interiori intersecando Magic Shop di Battiato con Cronaca Montana dei P.G.R, pura magia anche se certo Le condizioni non sono favorevoli e quando mai?

Si citano perfino i Ramones di Blitzkrieg pop in per l’appunto Guerra lampo pop mentre Mox, del tutto fuori inquadratura, guarda lo spettacolo dall’alto di una scala antincendio della villa, fumando pensosamente.

Gli spettatori consci che, come sta scritto sulle magliette che alcuni indossano, Essere vulnerabile è un superpotere anche se ci sogniamo in un oceano di gomma, si apprestavano a sentire l’ennesima citazione del filosofo Coreano che non spicca per ottimismo Byung_Chul Han, che è circa questa:

Il soggetto di prestazione, che si crede libero, è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone. Nessun padrone lo fronteggia e lo costringe a lavorare. Il soggetto assolutizza la nuda vita e lavora.

E via di seguito, intendendo che nella società neoliberale non c’è nemmeno più bisogno di padroni, ognuno di noi attraverso il cosiddetto telelavoro o smartworking che ha ancor di più precarizzato i diritti dei lavoratori diventa schiavo di se stesso sacrificando sull’altare della produzione vita privata e tempo libero. Tra l’altro, è uno dei regalini dai quali è impossibile immunizzarsi che ci ha lasciato il Covid, Padre Nostro dei Satelliti aiutaci tu!

Brondi purtroppo ha il vizio di tacere sulle proprie citazioni, lo fa programmaticamente forse per non apparire spocchioso, chissà quante altre cose non abbiamo riconosciuto. Così, dopo un’altra suggestiva lettura dedicata ai famosi fantasmi di Kafka che si nutrirebbero della nostra corrispondenza, non altrimenti identificabile, è il tempo della Smisurata preghiera di Fabrizio De Andrè che vibra nelle corde del poeta ferrarese come una sentenza dal belvedere delle torri, celebrative del nulla dove la maggioranza stà.

Straziante e da lasciare senza fiato, fermi a metà frase la lettura di Un incontro inatteso della poetessa russa Wislawa Szymborska. Che precede come un esercizio per la respirazione lo scioglilingua di Qualcuno mi ha detto che gli hai detto.

Dopo la bellissima interpretazione di Mistica, Brondi legge appassionatamente quella che forse è la più bella poesia di Charles Bukowski e a tutti ride il cuore perché sanno di essere meravigliosi e che gli dei aspettano di compiacersi in tutti noi.

A questo finale in gloria, per chi non ne avesse avuto abbastanza di tanto splendore, segue un altrettanto luminoso bis che più non si potrebbe. Quando, costretto dagli applausi, Brondi rientra in scena, interpreta Ringraziare desidero della poetessa Mariangela Gualtieri che, attraverso l’amore, ci fa vedere gli altri proprio come li vede la divinità, poi imbraccia la chitarra e canta Coprifuoco che fa venire i lucciconi agli occhi un po’ a tutti quelli con sette vite e sette miliardi di desideri.

Dopo questo intensissimo, ricco ed emozionante concerto resta il problema del talismano che visto così, in fondo, è un anestetico, In cauda venenum. Brondi finisce per risultare consolatorio, ammiccante, accogliente e contemplativo. Le sue riflessioni divertono e incantano il pubblico perché gli dicono esattamente quello che vuole sentirsi dire, senza graffiare, gratificandone l’ego meditativo e sognante. Come per altro sostiene paradossalmente lo stesso Brondi, il linguaggio ha il potere di suscitare in noi l’illusione della conoscenza e questa spesso sembra bastarci. Chissà mai se è questo il caso?

Nell’estasi parossistica degli applausi, Brondi, ottimo musicista e poeta ispirato, sembra non rendersi conto che la sua esibizione si è svolta nelle esatte condizioni tanto deprecate dal filosofo che ama tanto leggere e citare. Gli spettatori sono stati costretti in una sorta di panopticon benthamiano, quasi senza rendersene conto, plagiati e asserviti come un gregge ovino anzi come uno sciame dalle meraviglie della tecnica:

Scrive il solito Byung_chul Han nel suo Psicopolitica da cui, se non si era capito, sono tratte tutte le sue citazioni di cui sopra:

Ogni dispositivo, ogni tecnica di dominio produce oggetti devozionali, che vengono utilizzati per sottomettere: materializzano e stabilizzano il dominio. Devoto significa sottomesso. Lo smartphone è un oggetto devozionale di natura digitale, anzi è per eccellenza l’oggetto devozionale del digitale. Come strumento di soggettivazione funziona come il rosario, che pure rappresenta, per la sua maneggevolezza, una specie di cellulare. Delegando la sorveglianza a ogni individuo, il dominio aumenta la propria efficacia. Il like è l’amen digitale. Mentre clicchiamo like, ci sottomettiamo al rapporto di dominio. Lo smartphone non è solo un effettivo strumento di sorveglianza, ma anche un confessionale mobile. Facebook è la chiesa, la sinagoga – letteralmente, “adunanza” – globale del digitale”.

Per l’antropologia è chiaro che il rosario ha la medesima origine e funzione del talismano. Alzi la mano chi, a questo punto, non ricorda quel tale politico che si fa i selfie con lo smartphone mentre bacia il rosario.

Sul banchetto del merchandising all’uscita, tra preziosi vinili, magliette e ottimi libri, un talismano fatto di un sassolino colorato dentro un sacchetto di iuta finto-povero con cartiglio autografo di Brondi a 5 euro corrispondeva ai Sutra e gli Hare Hare a mille lire del Magic Shop di Battiato. Non si sapeva se esserne contenti o amareggiati. Meglio andare via e di corsa…sono Tempi incerti.

© Flaviano Bosco per instArt