Con il brano “One of these days (I’m going to cut you into little pieces)” dall’album Meddle (1971) dei Pink Floyd si è aperto uno dei concerti più emozionanti e memorabili dell’estate friulana per il cartellone del festival Onde Mediterranee degli instancabili “ragazze e ragazzi” di Euritmica.

I fan vecchi e nuovi dello storico gruppo londinese che ha segnato la storia della cultura e della musica negli ultimi cinquant’anni sono rimasti letteralmente estasiati da quanto Nick Mason, membro fondatore della band e unico componente ad aver suonato in tutte le incisioni ufficiali, sa ancora fare alla soglia degli ottant’anni. Tra questi Stefano Simonato, collezionista e devoto cultore del verbo floydiano, che ha fornito alcune suggestioni per questa recensione.

Il terreno sonoro dell’esibizione era stato preparato da un lungo tappeto di effetti sonori iniziato mentre ancora il pubblico della piazza prendeva posto rumoreggiando. E’ sempre stato un trademark dei Pink Floyd che già negli anni ’70 nei pre concerti “sparavano” effetti in quadrifonia. Mason non ha utilizzato proprio gli stessi effetti ma l’idea è stata quella, molti l’hanno capito subito godendosi il concerto già prima che iniziasse.

Il brano d’apertura, ipnotico e violento, prende il via dall’impetuoso soffiare del vento sul quale s’innesta un ritmo di basso distorto e ossessivo cui si aggiungono le scudisciate laceranti delle tastiere. Quando s’avvertono i colpi stranianti sui rullanti senza riverbero è ormai già troppo tardi, si è come risucchiati in un vortice maligno nel quale niente va per il verso giusto e il tempo delle cose sembra andare al contrario, una voce inumana minaccia di farci a pezzi prima o poi. E’ il terrore cieco e muto che dopo tanta disperazione viene spazzato via dalla sferza del vento.

La voce nascosta da filtri e distorsori nel disco è proprio quella del batterista Nick Mason che urla la propria rabbia che allora era rivolta al logorroico speaker radiofonico Bbc, Jimmy Young, odiato da tutta la band e oggi ricordato solo per quei versi minacciosi.

E’ inutile però perdersi in questa aneddotica; su ogni singola nota dei Pink Floyd sono state scritte biblioteche intere e gran parte delle persone presenti in Piazza Grande conosceva ogni minima sfumatura dei brani. Quello che è davvero importante ricordare di quella splendida sera d’estate di solo qualche settimana fa, è il preciso intento di Mason di catturare lo spirito di un’epoca e di far ripensare alla magnifica stagione della psichedelia e della sperimentazione nel rock che non ha per niente smesso di farci gustare i suoi acidi e lisergici frutti.

Il gruppo di Mason visto a Palmanova era composto dall’eclettico ex chitarrista degli Spandau Ballet, Gary James Kemp, Guy Pratt il bassista di cui si servirono i Pink Floyd dopo l’abbandono di Waters, Dom Beken alle tastiere e Lee Harris alla chitarra.

Cinque in tutto come i componenti originali del gruppo storico che incise per l’ultima volta con il diamante pazzo Syd Barrett proprio il brano di apertura del concerto di Palmanova.

E’ una raffinatissima versione quasi da club underground con i suoni scarnificati e la steel pedal guitar evidentemente in secondo piano rispetto alle percussioni. E’ stato proprio questo il tema della serata nella quale la musica dei Pink Floyd è stata riportata ad una dimensione, se è possibile, più “intima ed essenziale” anche se sembra paradossale dirlo di una band nata per sfrecciare nello spazio interstellare.

Naturalmente appena stavano vibrando gli ultimi accordi il pubblico ha salutato il suo eroe con una vera, sentita, interminabile ovazione. Tutti i presenti hanno voluto far immediatamente capire al batterista e al suo gruppo quanta emozione condividevano con loro per qualcosa che è stato molto più di uno spettacolo di musica e luci come tanti.

Con la musica dei Pink Floyd non si scherza, ci sono persone come lo scrivente che ci sono cresciute e altre che ci hanno cresciuto figli e nipoti, molti dei cuori che erano a Palmanova solo qualche settimana fa hanno immaginato i propri futuri su quegli accordi, sognato e amato il loro presente, progettato la propria vita con in mente quelle note e ancora lo fanno.

Anche Nick Mason ha vissuto ogni istante con il proprio pubblico e chi lo dipinge come il più disinteressato alla musica del gruppo si sbaglia di grosso e non vede e non ascolta quello che ha davanti.

Nell’eterna puerile diatriba che da sempre divide critica e fan sulle tre ere dei Pink Floyd, la prima sotto il segno di Syd Barrett, la seconda sotto quello di Waters e l’ultima di Gilmour, ci si dimentica troppo spesso di Mason che, oltre ad esserci sempre stato in ogni occasione, è rimasto fedele a quel verbo e ancora adesso con il suo gruppo porta avanti i suoni più psichedelici di quei ragazzi che nella Swinging London di metà anni ’60 abitavano tutti nella casa di Mike Leonard che creò gli effetti luminosi lisergici che identificarono immediatamente la band tanto che allora si chiamava, per l’appunto, “Leonard’s Lodgers”.

Gli stessi effetti, generati dalle macchine più moderne, illuminavano il palco di Palmanova con proiezioni ed effetti che però non avevano nulla di nostalgico. La psichedelia è tutt’altro che un retaggio del passato, negli anni ’60 alcuni artisti erano talmente avanti che solo oggi i neuroscienziati cominciano a capire gli effetti reali della musica e dei colori sul nostro cervello.

Solo qualche giorno fa i media nazional-popolari riportavano una notizia clamorosa che certo è da prendere con le pinze ma che ha comunque molte suggestioni. Scriveva il Sole 24 ore: “In pratica i ricercatori hanno “addestrato” un computer ad analizzare l’attività celebrale dei pazienti che ascoltavano la musica. Basandosi solo su quegli schemi neuronali, l’intelligenza artificiale ha ricreato la canzone. E gli scienziati o sedicenti tali sono stati quindi in grado di riprodurre una versione riconoscibile della canzone dei Pink Floyd del 1979 “Another Brick in the Wall (Part 1)”.

Chissà se l’intelligenza artificiale e quella dei cosiddetti scienziati è in grado anche di comprendere il significato della canzone nel suo contesto.

Basta però con le divagazioni, il brano non faceva certo parte della scaletta del Nick Mason’s Saurcefull of Secrets che comprendeva chicche come Arnold Lane e Candy and Currant Bun rispettivamente Lato A e Lato B del primo 45 giri inciso dalla band nel 1967, e poi la sognante e tragica See Emily Play, la gattesca Lucifer Sam, la fiammeggiante Burning Bridges, ma soprattutto Vegetable Man che doveva essere Let’s Roll Another One ma che la censura stroncò, un pezzo che davvero riassume in se, nel bene e nel male, tutti i fermenti di quella colorata epoca, ma che i Pink Floyd non suonarono mai dal vivo nei loro storici concerti e che ha mandato in visibilio tutti i fan di Palmanova.

Straordinarie le esecuzioni di Echoes, Set the controls for the heart of the sun, Astronomy Domine. Affascinante il combo di If con un movimento dell’indimenticabile suite Atom Heart Mother.

Al netto di qualche perplessità, il tastierista, pur bravo, non convince del tutto anche perché il confronto con il genio di Richard Wright non può essere che impietoso, il suo sound è però quello più vicino possibile alla psichedelia sixties che si possa immaginare, il che è già più che sufficiente e tanto basta. Uno dei grandi pregi dei grandi musicisti di cui si è attorniato Mason in questo suo gruppo è che nessuno di loro fa “revival” o “cover”. I due chitarristi non ci provano nemmeno a rifare o a suonare alla maniera di Syd Barrett e tanto meno di David Gilmour come è giusto che sia.

L’ottimo chitarrista Lee Harris, per esempio, ha la presenza fisica di Justin Peter Löwenbräu Griffin Senior, meglio conosciuto come Peter Griffin della sboccata serie animata dedicata alle disavventure della sua famiglia. Visto che giustamente “l’abito non fa il monaco” non è proprio il caso di fermarsi alle apparenze, visto che, come ha ricordato lo stesso Mason, va a lui il merito di aver fondato la band “Saurceful of Secrets” dopo aver suonato e fatto il manager nei Blockheads che furono di Ian Dury (Sex&Drugs&Rock’n’Roll) per una dozzina d’anni e “scusate se è poco”.

Gary James Kemp, l’altro splendido chitarrista, che invece il physique du role ce l’ha davvero tanto da essere stato membro degli Spandau Ballet di Tony Hadley e attore di una certa fama, non se la tira per niente, certo è simpatico e alla mano e, come tutti gli altri, s’impegna “semplicemente” nel proprio lavoro di far felice il pubblico riuscendovi meravigliosamente.

Non sono i cloni di nessuno come si vantano di essere molte band che suonano esattamente come i Pink Floyd imitando tutto precisamente con lo stesso sound di un album in particolare o di un intero tour, tutto uguale ma con lo spirito di quella musica magnifica “assassinato”.

Molto apprezzabile anche il fatto che nessuno dei musicisti si è “atteggiato” a rockstar, nemmeno quella autentica e inarrivabile dietro la batteria che poteva assolutamente permetterselo.

Nick Mason ha sempre avuto un atteggiamento bonario, si è preso gli applausi, ma ha ringraziato il pubblico con la mano sul cuore ricordando gli anni del Piper di Roma dove i Pink Floyd tennero il loro primo concerto italiano (19/04/1968), “Un’insolita location situata in una cantina, con una lunga scala per accedervi” come recita la loro pagina Facebook ufficiale.

Il batterista ha anche ricordato con affetto sincero, insieme a tutto il pubblico, gli amici che il tempo si è portato via, il diamante pazzo Syd Barrett e il gentelman delle tastiere Richard Wright.

Quello che ha conquistato tutto il pubblico, in verità già molto predisposto e giustamente adorante, è stata la lezione di umiltà e di grandissima professionalità che Mason e i suoi pards hanno impartito a tutti. Ce n’è tanto bisogno soprattutto nel panorama della musica italiana nel quale sembrano contare solamente le smargiassate di cafoni social con l’autotune che si credono David Bowie o il broncio e le “cose di fuori” di ragazzine che si atteggiano a Louise Veronica Ciccone, come dice il Poeta all’Inferno: “Vanità che par persona”.

Detto questo e si perdonerà lo sproloquio dell’anziano critico, è necessario sottolineare anche l’importanza di Nick Mason come produttore e come epigono di un sottogenere del rock progressivo, il Canterbury sound, che sarebbe stato molto diverso senza la sua opera di supporto e produzione.

In particolare, visto che, quando si parla generalmente dei Pink Floyd, passa in sottotraccia, si ricordi il suo rapporto con il grandissimo e sfortunato Robert Wyatt che fece germinare quel capolavoro assoluto della musica contemporanea che è “Rock Bottom” (1974) e nel fantastico live dello stesso anno che vide la partecipazione di molti tra gli epigoni di quella scena musicale, pubblicato con il titolo di “Theatre Royal Drury Lane 8th September 1974”.

Il concerto di Palmanova che, invece, può anche essere interpretato come un omaggio al Cappellaio matto Syd Barrett, si è chiuso con “Bike” una sua emozionante, allegra, stralunata canzone dedicata a Jenny Spires, sua musa e sua fiamma dei bei tempi perduti nei quali per sognare bastava una bicicletta con un cestino e un campanello che suona.

“I’ve got a bike, you can ride it if you like, it’s got a basket, a bell that rings, and things to make it look good, I’d give to you if I could, but I borrowed it”.

© Flaviano Bosco – instArt 2023