Replica del 18/02/2024

Vero e proprio trionfo a Trieste per la messa in scena di una delle opere più bizzarre del panorama lirico e belcantistico.

La definizione scolastica di “Metateatro” si attaglia perfettamente all’opera: “Tecnica teatrale (detta anche Teatro nel teatro) per cui, durante una rappresentazione teatrale, i personaggi mettono in scena una seconda rappresentazione all’interno della prima, mettendo così in rilievo la natura finzionale ed illusoria dell’intera rappresentazione”.

L’Arianna a Nasso di Richard Strauss e Hugo von Hofmanstal è un meraviglioso ibrido tra lirica, teatro, opera buffa, dramma, sperimentazione, critica sociale e molto altro ancora. E’ un’opera dalle identità multiple che si regge su equilibri sempre precari e difficili alchimie.

Proprio per questo quando la rappresentazione riesce pienamente come al Verdi grazie alla sapiente direzione di Enrico Calesso, alla regia di Paul Curran e ad un cast di primo livello, sembra sempre un miracolo della musica, una vera e propria epifania di suoni, emozioni, immagini e luci.

Per capire l’intreccio viennese tessuto all’alba del XX sec. dal wagneriano Strauss e dal raffinato poeta von Hofmansthal, è necessario partire da lontano.

L’idea nasce da una collaborazione tra i due e il regista Max Reinhardt che li aveva aiutati a far trionfare il loro Cavaliere della rosa (Der Rosenkavalier, 1911). “L’uomo di teatro più famoso d’Europa” doveva mettere in scena una versione aggiornata del Borghese gentiluomo di Molière e Strauss e von Hofmansthal si offrirono di rendere il favore.

Dopo aver spostato l’azione al ‘700 “roccaille” viennese e teresiano con l’aggiunta delle maschere della Commedia dell’arte italiana, l’idea fu di sostituire le originali musiche di Lully che allietavano la corte di Luigi XIV, con un dramma “moderno” anche se di argomento mitologico, per l’appunto Arianna a Nasso. In sintesi, un’allegra rappresentazione teatrale rivisitata e corretta al gusto modernista cui seguiva un cupo dramma lirico sostenuto da una magnifica partitura che, in soli trenta minuti, sprofondava gli spettatori negli abissi della solitudine e dell’abbandono.

Non funzionò e l’opera si trasformò ben presto dal fiasco della prima in un vero fallimento senza possibilità d’appello.

La versione che è andata in scena al teatro Verdi è la più fortunata e riuscita seconda versione che Strauss e Hofmannsthal fecero debuttare nel 1916, con i cannoni della Prima Guerra Mondiale che, colpo su colpo, stavano già sgretolando quell’impero millenario al cui centro, culturale e geopolitico, si trovava Vienna.

Lo spettacolo venne completamente rivisto sostituendo con un prologo cantato la commedia di Molière e con un’opera vera e propria e ben più articolata la seconda parte nella quale si mescolano commedia e dramma.

I temi principali de “Il borghese gentiluomo” furono comunque mantenuti, ma trasportati nella realtà viennese contemporanea.

La scena del prologo si apre sul salone delle feste di una villa di un nobile viennese molto in vista; la servitù sta allestendo la grande hall per il ricevimento. Fervono i preparativi, si mescolano camerieri e saltimbanchi; due compagnie teatrali allieteranno la serata con una “farsaccia nel genere buffo degli italiani e un dramma”.

Da una parte la primadonna (Simone Schneider) che interpreterà l’Arianna della tragedia, tutta elegante e azzimata, dimostra tutto il suo disprezzo e la sua snobistica distanza dai guitti che impersoneranno Arlecchino, Scaramucci, Truffaldino e Brighella. “Noi nello stesso mazzo con gente di tal sorta! Ma sanno qui io chi sono? Come ha potuto il Conte?” Le scintille scoccano anche nei riguardi della subrettina Zerbinetta a cui dava voce la conturbante soprano lirico di coloratura Liudmila Lokaichuk, impareggiabile nei vertiginosi gorgheggi delle arie nelle quali ha fatto risplendere il proprio carisma e la propria deliziosa presenza scenica “Così fu per Pagliaccio, così con Mezzettin. Venne di poi cavicchio e venne Burattin! Poi fu la volta di Pasquariello; ahi, e talvolta, s’io non m’inganno in sul più bello erano in due”.

Molière, nella sua pièce, metteva alla berlina la corte di Luigi XIV per la sua grossolanità, la protervia, l’avidità e la grassa ignoranza del sovrano e della torma di parassiti sotto forma di sedicenti artisti che gli facevano da codazzo.

Strauss, pur conservando uno sguardo critico e ironico sulla ricca società borghese contemporanea e sui vezzi di artisti e primedonne, sembra essere interessato maggiormente ad indagare il processo della creazione artistica, con le sue dinamiche e gli elementi che insieme fanno scaturire la magia del teatro; per questo sposta il proprio punto di vista sul piano ontologico anche se abilmente mascherato da “farsaccia” con “arlecchini e pulcinelli”.

Nella sontuosa villa di cui dicevamo, il ricchissimo padrone di casa, per il suo ricevimento, ha commissionato un dramma lirico cui deve seguire una farsa sguaiata e divertente tutto per intrattenere gli ospiti tra la cena e il momento clou della serata che sono i fuochi d’artificio. Lo si capisce bene dal fatto che ad un certo punto, viene dato ordine di sveltire i tempi delle due rappresentazioni fondendole in una sola.

Come dice il Maggiordomo: “Il mio eccellentissimo signore e Padrone si è degnato di sovvertire il programma della serata da lui medesimo già benevolmente approvato, come segue: La pantomima danzante non si darà né come epilogo né come prologo, si bene contemporaneamente all’opera tragica Arianna”.

Da qui lo sconcerto di regista, attori, cantanti e compositore che si trovano a dover dare continuità e credibilità drammaturgica ad una messa in scena nella quale la tragedia più tetra deve alternarsi alla farsa grottesca e il lamento lacrimoso sostituirsi allo sberleffo o il pianto al riso.

Alle rimostranze degli artisti delle due compagnie che sulle prime non accettano la stravagante, capricciosa richiesta risponde tranchant lo stesso severo maggiordomo, intimandogli di onorare l’onorario pattuito e già incassato pena la sua restituzione. Visto che “Pecunia non olet” musici e teatranti devono fare di “necessità virtù”, tanto per far parlare i proverbi come diceva il meditabondo Don Abbondio.

Per la tragedia Hofmannsthal scelse uno dei simboli della solitudine e dell’abbandono per eccellenza, voleva farne un archetipo dell’ineffabile tragica purezza dell’arte poetica che trova la sua perfezione nel regno dei morti dove tutto è compiuto e il turbamento delle passioni trova finalmente l’eterno riposo.

Arianna, principessa di Creta il cui culto è associato a quello di Dioniso, era figlia del re Minosse e di Pasifae che si congiunse ad un toro sacro generando il Minotauro. Sul palcoscenico del capoluogo giuliano Arianna era interpretata con solenne regalità e un pizzico di ironia dalla soprano drammatica e wagneriana Simone Schneider.

Nel mito, la principessa innamoratasi di Teseo, dopo aver contribuito all’uccisione del fratello Theriantropo, fugge con lui che però, dopo averla illusa, l’abbandona ai suoi rimorsi su un’isola. Arianna si ritrova così letteralmente “piantata in Nasso” e il modo di dire, nella lingua italiana, deriva proprio dalla sua disperazione. Dopo tante lamentazioni, pianti e notti silenziose abitate solamente dalla tristezza, la deserta principessa fa innamorare delle proprie sventure il dio Dioniso (Bacco) che la sposa rendendola paredra.

Se per la cultura popolare Arianna passa per l’archetipo dell’ingenua fanciulla sedotta e abbandonata, uno studio più attento non manca di far emergere le contraddizioni di un personaggio che è tutt’altro che immacolato, ma che è in grado di veicolare le forze ctonie di terribili maledizioni e flagelli. Non a caso il suo culto è associato a quello di Dioniso.

“Miele alla Signora del labirinto” è l’iscrizione trovata a Cnosso su una tavoletta votiva che per la prima volta indica gli attributi di Arianna come dea adorata per i cicli di sviluppo/declino, vita/morte/rinascita. Nello stesso contesto veniva anche associata all’enigmatica Dea dei serpenti.

Per questo il sofisticato poeta Hofmansthal s’irritò parecchio quando alla sua ieratica eroina Strauss volle affiancare la spumeggiante Zerbinetta, simbolo della donna leggera e gaudente in grado di passare da una conquista ad un tradimento e di folleggiare senza il minimo rimorso. Il poeta sentiva oltraggiato il suo ideale di arte purissima e incontaminata dalle sozzure e dalla triviale vita quotidiana.

Giusto per associazione di idee, viene in mente il dialogo tra Gustav von Aschenbach e Alfred ne “La morte a Venezia” di Luchino Visconti da Thomas Mann: “Nel tuo rigoroso moralismo vuoi far quadrare a ogni costo la perfezione delle tue opere con quella del tuo comportamento. Ogni cedimento lo interpreti come una catastrofe, come una contaminazione irreparabile…la bellezza appartiene ai sensi, solo ai sensi.”

Strauss e Hofmansthal per quel cipiglio furono sul punto di rompere il proprio sodalizio; per fortuna, il compositore seppe far valere la propria saggezza e il clima finì per rasserenarsi. I critici più sagaci però hanno riconosciuto un riflesso dell’isterismo estetizzante di Hofmansthal nel personaggio del compositore e nella sua aria più famosa. Nell’allestimento triestino il carattere era interpretato, en travesti come da libretto, dall’ottima mezzo soprano danese Sophie Haagen:

La musica è un’arte santa, per raccogliere ogni idea di ardimento come i cherubini intorno a un trono raggiante! Musica è questo, e quindi è la santa tra le arti!…Questa gentaglia…che fa le capriole nel mio tempio! Ah!”

Così come Arianna non è solo la fanciulla abbandonata, ma ha in se il mistero dell’abisso, anche Zerbinetta non è ciò che sembra: “Poco è un istante – tante cose uno sguardo. Immaginano molti di conoscermi, ma il loro occhio è opaco. Se sul teatro io faccio la civetta, chi può dire che recita il mio cuore? Sembro allegra, eppure sono triste, mi credono socievole e sono solitaria.”

Tutto è doppio e ambiguo nell’Ariadne auf Naxos quasi che due concetti antitetici si rispecchiassero l’uno nell’altro cercando di riconoscersi e vicendevolmente scambiarsi le parti.

La dualità comincia con i due compositori Strauss e Hofmansthaal che avevano caratteri opposti. Il primo era estroverso e aperto verso il mondo e le novità; il poeta al contrario era molto chiuso nel suo mondo ideale di perfezione artistica in cui la poesia diventava liturgia e culto. Nell’opera sono proprio questi due caratteri esistenziali a contendersi la posta in gioco.

Due compagnie teatrali con stili e interessi contraddittori si confrontano sul palcoscenico sopportandosi a fatica per poi finire in un abbraccio fraterno.

Due sono gli atti anche se tecnicamente il primo è un prologo e il secondo solo il suo compimento; due sono le primedonne, le ambientazioni, le storie, le arie che si contrappongono e raddoppiano e così via.

Ne “La nascita della tragedia dallo spirito della musica” (1872) Nietzsche scrive:

“Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti non solo al concetto logico, ma anche all’immediata certezza dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’Apollineo e del Dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla dualità dei sessi in continua contesa fra loro e in riconciliazione meramente periodica. Questi vocaboli li prendiamo a prestito dai greci….Sulle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, è fondata la nostra teoria che nel mondo greco esiste un enorme contrapporsi, enorme per l’origine e per il fine, tra l’arte figurtiva, quella di Apollo e l’arte non figurativa della musica che è propriamente quella di Dioniso. I due istinti tanto diversi tra loro, vanno l’uno accanto all’altro, per lo più in aperta discordia, ma pure eccitandosi reciprocamente a nuovi parti sempre più gagliardi, al fine di trasmettere e perpetuare lo spirito di quel contrasto che la comune parola “arte” risolve solo in apparenza.”

Gli scroscianti applausi meritati ai cantanti, al Direttore, al regista, allo scenografo e al costumista di questa messa in scena vanno certamente condivisi anche con la direzione artistica della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste in grado di entusiasmare il pubblico con allestimenti e cartelloni sempre di altissimo livello. Bravi!

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©