In una gelida nottata di fine febbraio, nella città metropolitana di Venezia, si è tenuto un devastante concerto di quattro gruppi della musica più estrema che si possa ascoltare in Europa per la gioia dei fan, dei loro timpani e probabilmente anche di quella dei tanti specialisti in otorinolaringoiatria del nordest cui dovranno prima o dopo ricorrere.

Gorgoroth è un nome nell’antica, oscura lingua Sindarin che significa letteralmente “Piana dell’Orrore”; si tratta di una vasta terra desolata descritta nel “Signore degli Anelli” di Tolkien, un gelido deserto di sassi e polvere nel reame del maligno Sauron, nel quale possono sopravvivere solo gli orchi e le creature più mostruose. È il nome scelto da una delle band fondative del metal scandinavo più radicale ancora perfettamente in attività dopo tanti anni di militanza “Ad Majorem Sathanas Gloriam”.

Mentre tuonano i cannoni di un’altra guerra imperialista e si costruiscono immensi allevamenti di maiali da 26 piani e per di più la catastrofe climatica sembra inarrestabile viene da chiedersi se l’apocalisse e il tempo del maligno tanto invocati nel Black Metal non siano qualcosa dello spaventoso futuro prossimo ma la condizione eterna dell’atroce presente cui ci siamo condannati. Ad ascoltare l’orgia sonora che è esplosa in tutta la sua ferocia qualche sera fa in un noto locale sulle rive del Piave ci sarebbe da crederci davvero.

Il Black Metal che qualcuno trent’anni fa aveva disprezzato come l’immondizia della musica estrema, derubricandolo a fenomeno adolescenziale da ragazzini scandinavi sociopatici, si dimostra ben vivo e ancora più radicato e radicale in tutto il mondo, insomma, con un facile gioco di parole orrorifico, più “non-morto” che mai.

Alla prima scomposta ondata dei primi anni ‘90, con gruppi seminali del cosiddetto “Inner circle” come Mayhem, Darktrone, Marduk e Gorgoroth se n’è succeduta un’altra allo scadere del millennio e altre per ogni decennio successivo in un moltiplicarsi di sottogeneri e di sperimentazioni sonore che non snaturando per nulla il main stream al contrario lo rendono ancora più fecondo e stratificato.

La forza percussiva e straniante del movimento non si è persa per nulla, al contrario la scena primaria ne ha innescate molte altre facendo sorgere ovunque a livello planetario legioni nere di estimatori Blackster più autentici degli originali.

TYRMFAR da Sion in Svizzera. Partono a freddo con il pubblico che sta ancora arrivando a riempire completamente il locale, l’impatto devastante è dovuto soprattutto al blast del batterista. La band alterna brevi momenti addirittura sul filo della melodia atmosferica della ballad a colpi di maglio ripetuti in pieno stile Black Metal. Il cantante ha un growl di un’intensità notevolissima e forsennata esecuzione per un immediato e inarrestabile headbanging della band e del pubblico.

I quattro sanno dosare perfettamente repentini cambi di velocità in un set compatto e violento. Fedeli alle loro tradizioni più antiche hanno picchiato sulle chitarre e sui tamburi come fabbri ferrai, senza apparire mai una band di semplice supporto o di second’ordine. Il loro sound tecnico e selvaggio ci ha messo un attimo a conquistare favorevolmente l’attenzione del pubblico preparandolo al meglio al massacro sonoro che sarebbe seguito da lì a poco. Grande la presenza scenica del chitarrista e del frontman che, senza perdersi in pose e coreografie varie, hanno badato sempre al sodo sparando ad alzo zero devastanti bordate di artiglieria sonora.

HATS BARN da Lille in Francia. Guardando i roadies affaccendati a preparare il cambio palco si capiva benissimo che stava per succedere qualcosa di davvero particolare: teste di caproni, con le luciferine corna arricciate, ossa di vari animali a mo’ di collane e perfino una costola bovina incisa con simboli esoterici della band messa in vendita al banchetto dei gadgets tra magliette e croci rovesciate. Un bric a brak occultistico esoterico che qualcuno dei presenti sembrava prendere molto sul serio e non erano gli effetti della birra trangugiata o degli shots di “brucia budella”. Senza paura di alcuna accusa di body shaming bisogna anche essere schietti e dire le cose come stanno, naturalmente senza alcuna volontà di discriminare nessuno. Il bassista dei satanisti francesi sembrava Charles Manson in versione transalpina e al suo peggio: magro segaligno e malvagio padrone di una tecnica che trasforma il suo strumento in un’arma contundente crudelissima. Continuando nei possibili paragoni il chitarrista era più spaventoso di Leather Face di Texas Chainsaw massacre, mentre il batterista aveva lo sguardo assassino e glaciale di un omicida seriale. A completare la congrega il frontman e vocalist che si presentava sotto le spoglie di un gigante psicopatico tormentato dai propri demoni interiori, maligni e cattivi più che mai. Se il male ha una forma pura in musica gli Hats Barn la conoscono di certo. Il cantante appare davvero come un ossesso che urla blasfeme malignità non solo contro il cielo ma anche contro il proprio stesso padrone infernale. Quando non canta continua a salmodiare sacrileghe litanie fino a bere sangue, si presume animale, da una coppa sacrificale per poi sputarlo sul pubblico in buona parte impegnato in un pogo selvaggio e tribale. Come il conte Ugolino dell’inferno dantesco, il cantante “Sollevò la testa dal fiero pasto…e più non dimandare”. I francesi non rinunciano nemmeno un momento alla farsa del satanismo e visto che una religione vale l’altra non c’è di che stupirsene, non è che un particolare di un gorgo sonoro stupefacente di un Black Metal senza alcun compromesso suonato con la massima energia e ferocia in un atmosfera notturna e malata da mettersi ad ululare alla luna.

DOODSWENS da Eindhoven, Netherlands. Certa informazione poco attenta continua a considerarle un duo femminile come è stato per il primo E.P. quando le Blackster olandesi avevano giustamente fatto parlare di se per il loro stile notturno, ipnotico e vagamente depressivo anche se di rara violenza ed efficacia. Almeno per il tour il gruppo è sempre un trio di ferocissima brutalità e di satanici intenti in una nera liturgia officiata dalla batterista che prima di scatenarsi dietro i tamburi brucia incensi, piume e peli in una oscena quanto sacrilega invocazione a Satana su un piccolo altare montato al centro del palco con tanto di pentacoli, crani umani e simboli satanici, per un effetto molto scenografico e alquanto pacchiano. A parte queste baggianate da Grand Guignol che fanno molto teatro d’avanguardia, la ragazza sa il fatto suo e dietro alle pelli scatena la furia bestiale delle Erinni. Anche per loro nessuna mezza misura, il bassista e vocalist sembra un demone emerso dalle profondità di una foresta primordiale più animale che uomo. Nel XVII sec quando si combatté la spaventosa guerra delle provincie unite, quelli che sarebbero diventati in seguito i Paesi Bassi erano definiti: “Il regno di Satana” per gli orrendi, inumani massacri che li imbrattarono di sangue impastandosi con il fango delle loro paludi malsane.

GORGOROTH da Bergen, Norvegia. Agli appassionati della musica estrema basta questo per capire che si tratta del più autentico True Norvegian Black metal della cosiddetta prima ondata che prese corpo proprio nella città del compositore Edvard Grieg a partire dai primi anni ‘90 del secolo scorso. In ben trentun anni di satanica carriera, nonostante gli inevitabili cambi di formazione, il progetto musicale del chitarrista Roger Tiegs aka Infernus ha mantenuto assoluta fedeltà al proprio stile senza alcun cedimento in diabolica coerenza. Come dice il Black Metal Compendium, la Bibbia del genere in Italia:

“Da Pentagram” nel 1994 a “Istinctus bestialis” del 2015 la band non ha mai espresso altro che suoni glaciali, violenza sonora pura e tutti i corollari stilistici tipici del genere: chitarre aperte, scream infernali e batteria pesante e ove necessario, tiratissima”.

Non serve dire molto altro se non che dal vivo sono ancora più convincenti che su disco. Lo show inizia niente meno che con la Marche Funèbre di Chopin (Son n°2 op.35) che si conclude con l’irruzione sul palco della band schierata frontalmente rispetto al pubblico su una unica linea d’attacco chitarra, basso, voce, ancora chitarra e a chiudere le fila nelle immediate retrovie, il batterista per un assalto coltello fra i denti fragoroso che è durato quattordici sanguinosi brani senza un attimo per tirare fiato con continue bordate metalliche. Sono deflagrati così attraverso la gola del vocalist Jakk Newman Hoest i grandi, distruttivi brani che hanno fatto la storia della band e dell’intero genere: Forces of Satanas storms, Destroyer, Katharinas Bortgang, Kala Brahaman ecc. L’esibizione è assolutamente compatta, solida, di una durezza sconvolgente per un ascolto che ad un certo punto diventa pulsante dell’energia siderurgica delle chitarre e del tuonare continuo e tellurico delle percussioni. Un gioco di luci rabbioso e aggressivo ha contribuito a far sembrare la band un gruppo di atroci orchi della Terra di Mezzo:

“Siamo noi gli Uruk-hai lottatori! Siamo stati noi ad uccidere il grande guerriero, noi a prendere i prigionieri. Noi siamo i servitori di Saruman il Saggio, la Bianca Mano: la mano che ci da carne umana da mangiare. Siamo venuti da Isengard e vi abbiamo guidati fin qui, e saremo noi a scegliere la via del ritorno che più ci piace. Io sono Uglùk. Ho parlato.”

© Flaviano Bosco – instArt 2023