Paola Colombo, presidente e curatrice della manifestazione, evoca il silenzio glaciale che gravava nella chiesa di San Francesco durante i Dialoghi al tempo del virus, le cinque serate in diretta streaming dello scorso maggio, praticamente ancora in lockdown: sala deserta e solo i benemeriti promotori con prestigiosi ospiti internazionali in video a parlare davanti alla telecamera a un mondo di assenze-presenti.
Nell’emergenza la tecnologia digitale è stata molto utile e ci ha aiutato a superare il necessario isolamento, ma gli spettacoli in genere e la musica nello specifico vanno ascoltati e vissuti in presenza; un concerto è un rito collettivo, una liturgia, qualcosa che accade tra chi suona e il proprio pubblico, insieme fisicamente in un medesimo luogo. Sappiamo benissimo che i corpi e i cuori assorbono, trasformano e restituiscono le vibrazioni che vengono dal palco e questo è vero da un punto di vista scientificamente acustico e ancor di più da quello emotivo.
La platea della chiesa, per il concerto d’apertura, era stata allestita con ogni scrupolo e attenzione ai protocolli anticovid; tra uno spettatore e l’altro, entrambi trasfigurati e resi quasi anonimi dalle mascherine obbligatoriamente indossate, il giusto distanziamento era garantito da un posto occupato da una sagoma di cartone, perciò il pubblico era composto in egual misura da persone vere, per così dire, e silhouettes, simulacri (presenti-assenze), molto scenografico e intelligente ma simbolicamente piuttosto inquietante; a luci abbassate c’era quasi da confondersi tra l’uno e l’altro.
Il programma della serata, decisamente straordinario, era un inno alla modernità e uno sguardo verso il futuro. Beethoven nell’Ottava sinfonia rielabora secondo un gusto che, al contrario di quanto è stato sostenuto, è tutt’altro che classicista ma sostanzialmente parodistico nel senso musicale del termine che non ha niente di farsesco o di caricaturale, ma è testimonianza di profonda ammirazione per gli antichi autori nel momento stesso in cui ci si rifà ad essi trasformando la loro opera in qualcosa di sostanzialmente nuovo.
Medesimo discorso per la Sinfonia classica di Prokofiev che si ispira, almeno formalmente, a Beethoven come lui ad Haydn e Mozart, con uno spirito rivoluzionario.
Copland, infine, con la sua sorgente sui monti Appalachi “inventa” la musica classica americana attingendo a tutti i fiumi della tradizione musicale che aveva a disposizione dal sinfonismo classico della musica colta europea, al folk e alle danze tradizionali della musica dei pionieri della frontiera americana, alla musica afroamericana, fino agli inni religiosi degli Shakers (Società Unita dei Credenti nella Seconda Apparizione del Cristo) una setta della chiesa Quacchera, che ancora oggi innervano la cultura americana.
A unire idealmente le tre opere, oltre allo sguardo moderno sulla tradizione musicale e alla presenza di danze popolari di cui diremo in seguito, anche le parti per clarinetto soprano che sembrano voler significare, in ognuna di esse, l’annuncio dei tempi nuovi.
Infatti, Il clarinetto, senza tener conto dei suoi fasti dai tempi Mozart, tra tutti i legni presenti in orchestra e ben prima degli ottoni, è quello che per versatilità e particolarità di suono ha segnato i primi passi della musica nel secolo ventesimo, dalla musica colta di Bernstein, al Jazz, al Klezmer e alla musica Bandistica.
– Sergej Prokofiev: Sinfonia n°1 in re maggiore op.25 “Sinfonia classica”.
L’attacco della sinfonia classica travolge come un impetuoso fiume in piena, lo stesso che tracimava in Russia quando il compositore si accingeva a comporre questa sua musica nel 1917.
Sono subito i legni a farsi sentire, ad indicarci la strada e il percorso della serata in musica. Tra questi è di certo il clarinetto con la sua voce ad essere il protagonista che ci fa da Cicerone, sembra quasi voler sottolineare ogni minima azione, così come fa la voce dei fagotti. Di certo decisiva e singolare anche la presenza dei timpani che garantiscono un piacevole brontolio di sottofondo.
Il tema principale nel primo movimento è gioioso e gaio apparentemente semplice ma in realtà dai tempi molto complessi. La sinfonia è stata composta su modelli classici, soprattutto Haydn e Mozart inserendo anche una Gavotta, danza popolare di origine francese tipica delle suite settecentesche.
Con il secondo movimento sembra di scivolare sul ghiaccio con le lame dei propri pattini in ampi cerchi nell’aria frizzante e tersa di un mattino d’inverno. Bagliori di luce tagliente e strani luccichii dalla riva ci abbagliano e distraggono. E’ una musica lieta, senza ombre, ampia e rotonda, complicatissima nella sua apparente semplicità.
Nel terzo movimento si balla in un ampio salone dorato pieno di stucchi, ori e argenti, alle pareti grottesche che fanno pendere pampini e gioiosi putti che ci guardano divertiti. E’ una brillante gavotta breve ma molto intensa da far girare la testa.
Poi di corsa a rotta di collo al finale che fila dritto e veloce come una vaporiera lanciata a piena potenza su binari dritti fino all’orizzonte. Guardiamo ammirati dal finestrino il paesaggio che sfreccia e ci abbandona, le case, i campi, i paesi, le città, le persone, tutto sembra spostarsi indietro velocemente per far posto alla modernità che incalza al ritmo della macchina. Lo sfondo e i tempi mutano a vista d’occhio ma la musica non ci abbandona, è al nostro fianco sempre, divertita e felina. Sono le ultime ironiche, beffarde battute del clarinetto a ricordarcelo quasi a dire: “Non ti preoccupare, ci sono qua io, stai sereno”.
– Aaron Copland, Appalachian Spring.
E’ ancora il clarinetto soprano, in questo caso di Davide Argenterio, ad aprirci lo sguardo questa volta sull’orizzonte maestoso dei monti Appalachi che sono la spina dorsale del Nord America la cui frontiera è il futuro che ci aspetta. Immobili, placidi ma anche misteriosi e pericolosi. Mano a mano che la strada sale ci accorgiamo della loro imponenza e bellezza davvero straordinarie.
Di colpo gioiosi e al contempo drammatici, gli archi ci fanno scorgere il fiume incassato tra le montagne, risaliamo velocemente a volo d’uccello fino alla sorgente gelida ma pura e cristallina come una promessa di vita che sgorga dalla nuda pietra.
E’ questa l’Appalachian Spring cui allude il titolo. Spring ha nella lingua inglese una significativa ambiguità. Primavera (Spring) è il momento nel quale si sciolgono le nevi e il ghiaccio dei rigidi inverni che alimentano le acque sotterranee, la natura rinasce e rivive nel sole e nell’acqua della Sorgente (Spring) che gioiosa zampilla. Moltissimi paesi della frontiera americana che nei secoli si è andata spostando sempre più verso Occidente, dall’Atlantico fino al Pacifico, da est a ovest, si chiamano Springville (Città della sorgente), Springfield (Prato della sorgente) e proprio a questi antichi villaggi di pionieri si ispirava Copland pensando alla sua musica arricchendola con il patrimonio folklorico e le suggestioni che venivano da quella particolare tradizione culturale scaturigine dell’arte e del sentire più propriamente americani.
E’ ancora il bosco che ci chiama attraverso la voce del clarinetto, il dialogo con il pianoforte, appena poche battute che ci fanno passare dalla preoccupazione per il futuro alla speranza nella vita e alla fede nella rinascita e nella grazia. E’ tutto visto in soggettiva attraverso gli occhi della coppia di giovani pionieri che si sono spinti fin lassù per darsi la possibilità di costruire un mondo tutto nuovo a partire dalla vita che non tarderà a germogliare nel grembo di lei. La sfida contro gli elementi è enorme ma anche la ricchezza del paesaggio e dei cuori lo è altrettanto.
Li rincuora l’incontro con gli altri coloni che danzano felici per il raccolto, scongiurando l’inverno che, visto dalle ultime luci dell’estate, sembra così vicino e nemmeno così difficile da superare. L’opera fu commissionata al compositore dalla coreografa Marta Graham che aveva pensato ad un balletto moderno che sottolineasse gli autentici valori americani in un momento tanto difficile per gli Stati Uniti impegnati sui fronti della Seconda Guerra Mondiale.
I tre contrabbassi regalano una profondità al suono complessivo degli archi che risulta ammaliante e ipnotico. Il suono del flauto traverso ci calma e accarezza come la mano di una vecchia e tenera zia che ci fa addormentare. Nel balletto originario era prevista una figura d’anziana colona che prima osteggiava e poi blandiva i due sposi. Il sogno ci rapisce in un sonno bambino e pacificato. É sempre il clarinetto a cullarci e guidarci in quella meraviglia di colori e luci autunnali.
In generale, quello che la partitura fa trasparire e sembra indicare è l’apertura degli spazi e lo sguardo che vaga per chilometri di cielo e di orizzonte.
Se è vero che è stato John Ford a inventare visivamente la frontiera americana, è di certo Copland ad averla messa in musica. L’intento di entrambi gli artisti era quello di raccontare qualcosa di autenticamente americano che potesse essere di sostegno nei momenti difficili della Seconda Guerra mondiale e la conquista del West (How the West was won) è sempre stata parte integrante del sogno americano, lo è ancora oggi nel bene e purtroppo anche nel male.
Tra gli applausi il direttore omaggia e gratifica giustamente flauto, clarinetto, fagotto e pianoforte che sono state le voci che ci hanno raccontato questa splendida storia d’amore e di montagne.
– Ludwig van Beethoven, Sinfonia n°8 in fa maggiore op.93
La sinfonia venne completata dall’autore anche durante il soggiorno termale a Tepliz nel 1812 dove avvenne il suo celebre incontro con Goethe.
Il leggendario incontro che, in realtà, si risolse con un certo attrito e un’incomprensione di fondo tra i due titani tedeschi del XIX sec. fu in qualche modo propiziato dall’intercessione della giovanissima scrittrice Bettina Brentano von Arnim (1785-1859) che era in contatto con entrambi e che nel carteggio con Goethe riporta una conversazione avuta con Beethoven:
“Parli a Goethe di me, gli dica che vada a sentire le mie sinfonie; allora converrà con me che la musica è l’unica porta immateriale, attraverso la quale si accede ad un mondo superiore della conoscenza, il quale abbraccia l’uomo ma non può essere abbracciato. Occorre il ritmo dello spirito per comprendere la musica nella sua essenza; essa da l’intuizione e l’ispirazione delle scienze celesti e quello che lo spirito vi percepisce materialmente, è incarnazione di conoscenza spirituale…L’arte così rappresenta sempre la divinità, e il rapporto umano con l’arte, è la religione. Ciò che raggiungiamo con l’arte proviene da Dio, è ispirazione divina, che prefigge alle facoltà umane la meta che egli raggiunge”.
Bettina aggiunge che, prima di spedire la lettera a Goethe, rilesse al compositore quello che aveva detto qualche giorno prima ed egli esclamò: “Io ho detto questo?…e allora è segno che ero in estasi!”
E’ in quel tipo di estasi che Beethoven completò la propria ottava sinfonia da molti considerata “minore” rispetto alle altre, quasi un momento di pausa e di astrazione pacificata in mezzo ai maestosi lavori della Settima e della Nona. Ma sono in gran parte pregiudizi che vorrebbero Beethoven asservito alle bizze dei critici musicali e delle loro preferenze che pretenderebbero di insegnare a Beethoven ad essere se stesso. Quello di cui lo si accusa è di aver guardato troppo a modelli classici come Haydn e Mozart, come fosse una colpa, tradendo il proprio spirito innovatore e “rivoluzionario”; il minuetto poi, inserito nel Terzo movimento, fece scandalo all’epoca e fa stracciare le vesti ancora a qualche bacchettone. Il Minuetto era una danza d’origine popolare che venne introdotta per la prima volta alla corte del Re Sole Luigi XIV di Francia da Jean-Baptiste Lully diventando, in seguito, di gran moda in tutta Europa.
La prima esecuzione pubblica dell’Ottava sinfonia avvenne a Vienna il 27 febbraio 1814 in un concerto in onore del generale Wellington che stava rendendo la vita molto difficile alla Grande Armée di Napoleone in Spagna. Legata all’organizzazione della serata una serie di curiosi aneddoti.
A volerla e a pagarla profumatamente fu un bizzarro personaggio d’inventore ben noto e piuttosto facoltoso nella Vienna dell’epoca: Johann Nepomuk Maelzel, pioniere dell’acustica e dell’amplificazione moderna soprattutto per quanto riguarda gli strumenti a fiato e le percussioni.
Era riuscito ad ingaggiare Beethoven facendogli dirigere in pompa magna un concerto della durata di quasi cinque ore dedicato esclusivamente alle sue opere promettendo al Maestro di inventare un apparecchio acustico che gli avrebbe risolto definitivamente i noti problemi di sordità. Niente di tutto questo avvenne davvero in seguito, ma intanto l’entusiasta e speranzoso compositore dedicò un inciso nel secondo movimento a Maelzel garantendogli gloria eterna e non se la meritava proprio per niente.
Lo stesso autore la definì “Kleine Symphonie” per la breve durata rispetto alle altre.
Non fu capita dai contemporanei, tanto che alla prima un grido sovrastò gli applausi, e dal loggione si sentì risonare nettamente come una condanna: “Es fällt ihm schon wieder nichts ein! “Ecco di nuovo è privo di idee”.
La modesta interpretazione che se ne da in queste righe, lasciando ai puristi e ai filologi le critiche ammuffite, ha voluto immaginare il poeta Beethoven che assiste ad una delle battaglie spagnole per poi cantarne la vittoria come un preannuncio della prossima sconfitta del tiranno Napoleone che, solo pochi anni prima, gli era sembrato un eroe. Probabilmente è una forzatura, comunque sempre meglio degli sproloqui di tanti enobarbi.
La Piccola Sinfonia, in realtà non c’è proprio niente di minimo in questa partitura se non, come dicevamo, la durata. Fin dal primo movimento si sentono tuonare i cannoni in lontananza. Sembra di avvicinarsi ad una battaglia che vediamo imperversare lontana. Possiamo vedere distintamente il fuoco delle batterie, i cavalli alla carica e le schegge che volano dappertutto. Così distanti abbiamo una visione complessiva della scena che ci appare imponente, piena di colori e movimento. Non riusciamo a scorgerne gli orrori, non ne avvertiamo minimamente il pericolo ma solo il trionfo e la gloria di una bella avventura che si compie al ritmo di timpani e tamburi. Allegri, vivaci e briosi siamo noi in groppa al nostro destriero che galoppa dritto e sicuro al tintinnar degli alamari verso il luccichio delle sciabole sguainate.
Nell’Allegretto scherzando è già passato tutto, si è vinto, ce la siamo cavata con onore e senza un graffio. E’ il tempo della felicità e della gioia spensierata. Non si vince una guerra con una sola battaglia ma ci penseremo domani, per adesso godiamo e brindiamo insieme ai commilitoni raccontandocene di quelle grosse.
Tempo di minuetto. C’è perfino il tempo per gettarsi nelle danze, per un ballo in società tra gli uomini in alta uniforme e le signorine di buona società, per le altre ci sarà tempo più tardi all’osteria. E non si gridi allo scandalo. Chi conosce la biografia del genio di Bonn nei particolari, sa bene che certi intrattenimenti non gli mancavano di certo.
Allegro vivace. Abbiamo decisamente il cuore pieno di felicità e bellezza, tra lo scampato pericolo e la luce della vittoria ci sentiamo in una festa che non finisce mai.
Di fronte alla maestà e all’imponenza di tanta meraviglia, quasi in spregio alla fatica del direttore e degli orchestrali che stanno suonando senza pause, un’azzimata signora tra il pubblico non trova di meglio da fare che messaggiare tranquillamente in chat con il proprio telefonino. Chissà quale elevato scambio di pensieri stava avendo da sovrastare per importanza e interesse quella musica sublime.
“Tatta ta ta ta” saluta Beethoven rivolgendosi all’amico Maelzel che gli aveva promesso di nuovo la gioia dei suoni e che non mantenne mai la parola data. Una sonora pernacchia alla signora e a tutti quelli che non riescono a staccarsi dal telefono nemmeno davanti a Beethoven.
Ancora un inchino e una riverenza a corni e clarinetti tra gli applausi finali.
© Flaviano Bosco per instArt