Indimenticabile serata per il pubblico che ha gremito l’Arena Alpe Adria di Lignano (UD) per la fantastica esibizione di uno degli artisti più importanti degli ultimi 10 lustri. Robert Anthony Plant detto “Percy”, classe 1948, è fuori di ogni dubbio il cantante più influente della storia del rock e non solo per gli anni leggendari con i Led Zeppelin, ma anche per la sua pregevolissima ultra quarantennale carriera solistica.
Plant è un esempio anche dal punto di vista della caparbietà, della coerenza, delle scelte stilistiche e personali del tutto anticonformiste.
“Diggin Deep” è un piacevolissimo podcast arrivato ormai alla quarta stagione e ad una trentina di episodi nei quali Robert Plant racconta la propria carriera solistica tra canzoni, aneddoti, riflessioni e grandissima ironia. La fortunata trasmissione ha anche recentemente prodotto una serie di cd antologici con diversi inediti davvero succulenti non solo per gli “strictly addicteds”
Dopo gli ultimi tragici anni con i Led Zeppelin costretti a sciogliersi nel 1980 per la morte di John Bonham, ultima di una lunga teoria di disgrazie che sembravano perseguitarli, il cantante di West Bromwich (UK) è sembrato paradossalmente quasi rinascere.
Da allora sono passati quasi quarantacinque anni, un’intera vita, Robert Plant da allora non ha smesso di evolvere come musicista, come artista e come uomo, continuando ininterrottamente nella propria personale ricerca musicale senza mai cedere alle ammalianti sirene del rock system.
Avrebbe potuto godersi il proprio status di eccelsa, inarrivabile rock star a suon di reunion nostalgiche e faraoniche tournée planetarie, eternando la propria immagine di dio del rock, senza più la fatica del minimo sforzo creativo. A pensarci bene non ci sarebbe stato nulla da rimproverargli. Al contrario, ultimo di una clamorosa lunga serie di rifiuti, nel 2017 ha rispedito al mittente l’offerta di 160 milioni di dollari per una reunion.
Proprio nel podcast spiega in altro contesto la sua filosofia di vita. Narrando di un incontro a Las Vegas con uno stanco e abbruttito Elvis Presley che era stato uno dei suoi idoli ma che a fine carriera andava avanti a psicofarmaci, afferma di aver capito che nel mondo dell’arte ma anche nella vita bisogna agire sempre in piena consapevolezza credendo fino in fondo in quello che si fa senza fingere per convenzione o utilitarismo “Don’t fake it, mean it”.
Si permetta una breve digressione a proposito, proprio a riguardo di Presley che invece non volle o non fece in tempo a prendere in mano la propria carriera e la propria vita, evitando così di essere fagocitato dallo show business. Lester Bangs in un suo testo irriverente e corrosivo disse del re del rock’n’roll:
“Ha sempre avuto qualcosa di soprannaturale. Elvis era una forza della natura. A parte quello era solo uno stronzo. Un contadinotto stupido, con due punti di intelligenza in più rispetto al suo mulo, che un giorno ha abbandonato l’aratro per incidere un disco per la sua santa mammina e non è mai più tornato a casa, e probabilmente si sarebbe dimenticato di farlo anche se non l’avessero montato così tanto.” (Impubblicabile! 2007)
Robert Plant è una persona dall’intelligenza e dalla classe straordinaria che non si è fatto irretire dalle sirene del mondo dello spettacolo a fini esclusivamente commerciali, non ha mai accettato compromessi continuando dritto per la propria strada, inseguendo il suo istinto e le sue passioni. Nella sua prima vita con gli Zeppelin insieme alle altre divinità della musica aveva già raggiunto l’Olimpo del rock. Come scrive Tiberio Snaidero in un suo illuminante saggio su “La filosofia dei Led Zeppelin” (Mimesis 2018):
“Il Percy degli Zeppelin è anche la personificazione dello stato semidivino proprio della rockstar: bello e impossibile, crudele dominatore di folle osannanti, autoproclamatosi Golden God nella città degli angeli e dei dannati, Plant-Priapo, sfacciato protettore dei genitali maschili, ha incarnato nel più convincente dei modi il modello dell’animale da palcoscenico.”
Plant era già stato tutto questo, poteva scegliere di starsene sulla sua altissima montagna di zecchini d’oro in un’idiota beatitudine, venerato da milioni di persone fino all’età dei patriarchi e oltre oppure tornare sulle strade del mondo come un uomo come tanti, integro nella propria fallibilità e ricominciare da zero, bruciandosi la flotta alle spalle come un autentico eroe del mito e della musica, capace di tutto perfino di fallire.
Avrebbe potuto restare un dioniso del rock e, invece, ha rinunciato a tutte le catene dorate del successo postremo facendo fronte da solo alle procelle del tempo.
Probabilmente a farlo ragionare sono state le durissime prove cui la vita lo ha sottoposto. La famosa maledizione degli Zeppelin è stata una severa maestra come la luna di un famoso racconto di Heinlein. Plant subì un gravissimo incidente automobilistico che lo costrinse a lungo su di una sedia a rotelle, ma soprattutto subì la tragica morte dell’amatissimo figlio di 5 anni cui dedicò nel 1979 uno dei brani più strazianti di sempre, “All My Love”:
“Tutto il mio amore, tutto il mio amore per te adesso. Dovrei smettere di amare? E’ la fine o è invece l’inizio? Ora tutto il mio amore è per te, bimbo. Tua è la tela, mia la mano che cuce il tempo. Lui ora è una piuma nel vento. Mi ritrovo un po’ solo, solo un po’ solo”.
Il concerto di Lignano è stato una tappa di un breve trionfale tour nella penisola dalla quale il cantante mancava da parecchi anni. Il sofisticato progetto musicale che sta portando avanti da prima dell’epidemia di covid, non ha ancora prodotto alcuna incisione per una scelta artistica deliberata. Lo accompagnano Suzi Dian (voce, chitarra, fisarmonica), Oli Jefferson (percussioni), Tony Kesley (mandolino, chitarre) e Matt Worley (Banjo, chitarre).
Plant non ha mai voluto che il pubblico andasse ai suoi concerti per nostalgia o per sentire l’ennesima volta i vecchi successi in una sorta di eterna rievocazione dei bei tempi passati che gli deve essere sembrata sempre una sorta di esumazione.
Il cantante non ha per niente esaurito la propria creatività e la propria volontà di ricerca sempre più orientata alle musiche tradizionali delle zone rurali degli Stati Uniti tra Folk, Blues, Country, Blue Grass, Rockabilly e via di seguito.
Per questo, durante le sue esibizioni, vuole che il pubblico si concentri sulla musica e non sui lustrini o su “quant’era bella giovinezza”.
Sul fondale del palcoscenico, sul grande telone di quinta l’immagine pittorica di un singolo bufalo in mezzo alla prateria. E’ una figura che evoca immediatamente uno dei luoghi più suggestivi del pianeta: la frontiera americana, con i propri miti e misteri che solo Cormak McCarty ha saputo rendere in senso moderno.
Nella prateria in certi momenti dell’anno quando è appena caduta la rara pioggia dicono sia possibile vedere all’orizzonte una striscia di erba dal verde talmente intenso da sembrare blu scuro. E’ laggiù che continua a vivere la magia dei pionieri, dei nativi, della natura incontaminata, dove è possibile ancora sperare di essere salvati dalla bellezza e dalla Grazia.
E’ proprio in quel luogo spirituale che il cantante conduce i propri spettatori facendoli sognare con la sua voce che in tutti questi anni è certo mutata, ma che non ha perso minimamente il proprio fascino magnetico. Dopo non si ha più voglia di tornare.
“Savin Grace è la mia salvezza, mi sta dando momenti stupendi con il gruppo, anche perchè c’è molto folk. La nostra ispirazione affonda le radici nella musica antica, in questo progetto posso essere me stesso con tutte le mie caratteristiche. Saving Grace per questo mi sta salvando”.
Alle prime note, soggiogata dalla bellezza paradisiaca della voce di Plant, l’intera Arena Alpe Adria è ammutolita in un’atmosfera estatica western meditativa del tutto surreale. Proprio per questo almeno in un’occasione il cantante ha voluto scuotere il suo pubblico irretito da tanto splendore, rivolgendogli una esortazione a mo’ di incitamento dicendo” Is there anybody out there” come Pinky in “The Wall” dei Pink Floyd da far tremare le gambe in un cortocircuito di riferimenti e citazioni sicuramente voluti.
E’ stato un viaggio nelle suggestioni di un intero continente fisico e spirituale, un immenso spazio che la musica ci aiuta a percorrere. Plant da sempre affascinato da quella tradizione musicale che dagli Appalachi arriva alle paludi del Delta del Mississippi ha scelto di abitarci davvero anche perchè lo considera un luogo spirituale: “So I’m packing my bags for the Misty Mountains. Where the spirits go now, over the hills where the spirits fly”.
Dialogando con il pubblico, tra una canzone e l’altra, Plant ha fatto spesso riferimento anche in modo ironico alle “Misty Mountains”, il luogo dove ritirarsi a meditare dopo i dolori e le disillusioni del mondo (Folk down there really don’t care), proprio quello della famosa canzone dei Led Zeppelin, nella quale si esprime tutto il fascino della scoperta giovanile della rivoluzione psichedelica e del Flower Power.
A questi intramontabili movimenti il cantante ha fatto spesso riferimento come fonte di grande ispirazione ricordando il suo amore per i Jefferson Airplane, Grateful Dead, Love e altri ancora. Ricorda con grande nostalgia e ammirazione Donovan un grandissimo artista ormai dimenticato, Sunshine Superman della scena psichedelica inglese e americana. In altri momenti del concerto ha omaggiato anche il grande chitarrista Richard Thompson e i Los Lobos dicendo con un’umiltà disarmante, d’aver ammirato e imparato moltissimo da ognuno di loro.
Era un tempo nel quale con il rock si faceva politica e le canzoni servivano spesso a contestare i governi e perfino a fare le rivoluzioni: “Ve lo ricordate?” ha chiesto Plant al pubblico, rispondendosi un po’ sconsolatamente: “No voi non ve lo ricordate!” Erano tempi in cui aveva ancora un senso parlare e cantare di libertà.
Plant, potrebbe permetterselo, ma non si atteggia minimamente a rockstar spocchiosa e nemmeno a “santone”, eppure è automatico vedere in lui la scaturigine di una sorgente di forze sciamaniche verso le quali convergono a cascata tutte quelle del pubblico.
La lunga teoria di brani dell’esibizione ha visto molto spesso dei romantici duetti “call & response” con l’ottima Suzi Dian che, con la sua vocina sottile e perfino esile, è brava quel tanto che basta per accompagnare il leader, fare il controcanto, ma mai competere o rivaleggiare con lui in alcun modo.
La scelta di affiancare alla propria una voce femminile, come già successo con Alison Krauss, è com’è logico molto studiata. Plant ha giustamente rinunciato quasi del tutto al canto in falsetto e la sua voce non ha più quella straordinaria estensione verso gli acuti che aveva un tempo com’è naturale che sia. Per questo la dolcezza della voce muliebre compensa quello che la gioventù si è portata via nel suo fuggire.
Dion imbraccia anche la fisarmonica e uno stranissimo basso probabilmente di preziosa fattura artigianale, non è certo una virtuosa ma fa la sua figura e sa suonare davvero.
Allo stesso modo, sono stati molto efficaci Tony Wesley con il suo mandolino semiacustico, e Matt Worley con il Banjo. Anche con le chitarre, il suono aveva un bel delay e una distorsione profonda e sporca. Tutto risuonava della magia più autentica del country western rurale e Tex-Mex, molto più genuino e popolare di quello “commerciale” di Nashville, con tutto il rispetto per i gran parrucconi di Dolly Rebecca Parton.
C’è stato tanto spazio anche per coretti Southern Blues molto piacevoli e adatti ad un sano divertimento che spingerebbe tutta l’arena a ballare di gioia sotto la luna se solo si fosse potuto, ormai il servizio d’ordine degli scimmioni in divisa nera è davvero implacabile.
Tra i tanti momenti indimenticabili del concerto vi è stato quando Plant ha intonato il blues country gospel tradizionale: “Satan , your kingdom must come down” che fu registrato la prima volta nel 1931 da Blind Joe Taggart, un musicista di strada cieco che si guadagnava da vivere con il suo strumento letteralmente agli angoli delle strade. Robert Plant la incise per il suo album “Band of Joy” del 2010. “Canterò, pregherò e griderò fino a quando il regno di Satana sarà abbattuto” e non ci si riferisce a quel signore cornuto con il forcone ma al male assoluto dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alle guerre fratricide e ai soprusi che degradano il nostro vivere.
Davvero emozionante il modo in cui la band ha salutato il pubblico cantando a cappella “We bid you Goodnight” proprio come facevano immancabilmente i Grateful Dead alla fine dei loro concerti.
Non ci resta che dire con il poeta: “Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di…blues, poi d’improvviso venivo dal vento rapito e incominciavo a volare nel cielo infinito…”
Scaletta: Gospel Plow, The Cuckoo, Let the Four Winds Blow, Out in the Woods, Satan, your Kingdom Must come down, In my time of Dying, Everybody’s Song, It’s Beautiful Day today, Too far from you, Down to the sea, Friends, The rain song, Four sticks,Chevrolet, Angel dance, Gallows Pole, And we bid you Goodnight (a cappella)
© Flaviano Bosco – instArt 2023