Con la sua 32 edizione il blues festival si consolida come uno degli appuntamenti più blasonati con la Musica con la maiuscola non solo del triveneto ma di tutta Italia e d’oltre frontiera. Bastava fare attenzione agli accenti e alle lingue parlate dal pubblico che ha gremito il parco San Valentino per la prima infuocata serata della rassegna; non era difficile riconoscere gli sloveni, gli austriaci, gli ungheresi e poi tutti i dialetti italiani “Dalle Alpi alle piramidi…”

Pordenone con i suoi festival e le sue istituzioni ha un’enorme vocazione culturale che negli ultimi anni è diventata anche un ottimo volano dal punto di vista economico e turistico. Anche i più retrivi suoi rappresentanti hanno ben capito che la società multiculturale è ormai una realtà e chi non ne capisce le dinamiche anche commerciali ha perso la propria battaglia in partenza.

Andrea Mizzau, Deus ex Machina del Festival con i propri collaboratori, l’ha capito da decenni, facendo diventare i palchi pordenonesi un piccolo angolo di mondo dove gli artisti internazionali più acclamati del blues e non solo si esibiscono in un’atmosfera unica e irripetibile che sa di amicizia, di stare bene e di passione vera.

La musica di derivazione afroamericana può aiutarci a comprendere e interpretare senza i soliti isterismi i cambiamenti della nostra società. Un esempio, assolutamente lampante, era possibile vederlo la mattina prima del concerto nel secolare duomo-cattedrale di Spilimbergo, simbolo dell’antica storia di tutto il territorio pordenonese. Da molti anni nelle aziende di quella ricchissima e laboriosa provincia è possibile notare una massiccia presenza di immigrati di origine africana che gradualmente si sono integrati nel territorio facendo rivivere con il loro insediamento interi paesi prima praticamente spopolati, portando la loro splendida cultura, i loro ritmi e i loro colori.

A Spilimbergo quella mattina si sposavano davanti all’arciprete e a tutta la coloratissima e fastosa comunità del Burkina Faso Leonard e Barghissa, due meravigliosi ragazzi afro-italiani che hanno trovato il loro futuro in Regione. Assieme alla liturgia cattolica europea si sono levati tra le volte i canti e le grida di gioia tradizionali delle donne Burkinabé che salutavano la nuova famiglia a ritmo dei tamburi benderè ricavati da una particolare zucca. Il blues delle origini nasce anche da cerimonie di questo tipo, abbiamo la fortuna di ascoltarlo sui palcoscenici, ma possiamo vederlo rinascere e scaturire nuovamente nelle nostre strade e nelle nostre piazze, basta saper vedere bene con il cuore come diceva il Piccolo Principe che sognava la sua rosa.

Ai concerti di Pordenone, nell’accogliente parco di S. Valentino, i primi a scaldare il pubblico quando ancora faceva giorno sono stati l’ottimo duo “Superdownhome” (chitarra e batteria) dal suono potente e senza fronzoli. Bresciani ma con un’anima che più nera non si può hanno deliziato il pubblico con uno spettacolo giocato su standard e pezzi originali; interessanti e di certo meritevoli di un ascolto più attento e di una collocazione sul palco principale, sarà per un’altra volta.

A tempo debito salgono sul main stage i Planethard (Alberto Zampolli: voce, Marco D’Andrea: chitarra, Andrea Bovolenta: basso, Stefano Arrigoni). Anche loro lombardi con un sound robusto e pestato, quello che fanno tutti ormai niente di troppo originale; ben cantato (gran voce quella di Zampolli) e ben suonato, tutto molto metal e “barbuto” per stomaci forti, ma davvero gustoso come la carne di Angus che sfrigolava sulle griglie negli immancabili stand enogastronomici del festival che sfamano ogni anno i rustici appetiti dei migliaia che non sanno resistere al richiamo delle good vibrations della musica unite agli arrosticini e a una bella birra gelata.

E’ solo un breve set quello dei “Planethard” ma si capisce subito che i ragazzi sanno fare bene il loro mestiere, non possono ambire ad “asfaltare” la storia del rock, ma si lasciano ascoltare e come gruppo spalla, funzionano egregiamente, nel futuro si vedrà.

I Deep Purple, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, il segno lo hanno lasciato eccome tanto da rappresentare ancora oggi una testa della sacra trimurti dell’hard rock insieme ai Black Sabbath e ai Led Zeppelin. Gli album “Deep Purple”, “In Rock”, “Fireball”, “Machine Head” e “Made in Japan” sono le pietre angolari sulle quali si è costruito l’edificio della musica rock negli ultimi cinquant’anni e tutto il resto è conseguenza. Non c’è molto altro da aggiungere. E’ inutile ripetere che Ian Gillan è da sempre nell’Olimpo dei più grandi cantanti di ogni tempo, che Ian Paice dietro le pelli è ancora un autentico drago e che Roger Glover è il padrone assoluto del basso Hard Rock. Tra il merchandising ufficiale al concerto di Pordenone si faceva notare una t-shirt rigorosamente nera con una semplice scritta bianca sul davanti: “Deep Purple established in ‘68” e sulla schiena “Lauder, Harder, Faster” e tanto basta.

Una marcia trionfale (Mars, the bringer of war di Gustav Holst) finalmente annunciava l’entrata sul palco degli eroi tanto attesi dalla folla fremente di rocker di tutte le età e non lo si dice per convenzione, tra il pubblico c’erano famiglie con il nonno, il papà e il nipote e le groupies scatenate andavano dalle teenagers fino alle signore in età da pensione. Uno spettacolo incredibile autenticamente trans generazionale. Il primo brano a ghermire il pubblico con i suoi riff è stato “Highway star” ed era come tutti se lo aspettavano. Certo il falsetto di Gillan non è più lo stesso di quando scalava vertiginosamente le ottave dieci lustri fa ma nessuno lo pretende, insieme a Paice, Glover, membri originali del cosiddetto Mark II rimasti, non ha proprio niente da dimostrare, sono grandi ed eccelsi artisti e il loro volto è scolpito da un pezzo sulle montagne della gloria, sono nel cuore di ogni appassionato per i quali ogni loro apparizione è un’epifania.

Lo prova, se ce ne fosse bisogno, “Into the Fire” che sa ancora bruciare le budella come un sorso di acqua di fuoco e graffiarti come ai bei tempi.

Il pubblico non potrebbe essere più entusiasta, salta, canta, urla nella gioia incontenibile di aver ritrovato dopo tanto dei vecchi zii birboni con i quali è cresciuto e che ammirava per le loro imprese di cui a casa si poteva solo sussurrare. A vederli oggi si capisce subito quante ne abbiano combinate in gioventù. Quello che li ha sempre distinti a differenza di tanti altri della loro epoca è il loro fare cordiale e proletario, sono gente comune che potremmo trovare in una qualunque delle nostre birrerie a tifare per la squadra del cuore durante una finale di coppa, con un bicchierone in mano e qualche volta con un po’ di voglia di litigare “so-tutto-io”.

Per l’appunto c’è stato il momento di ricordare un amico di tutti, genio delle tastiere e che ci guarda di lassù, Jon Lord era un uomo fuori dal comune che ad un certo punto si fece venire l’idea di collegare i potenti amplificatori per chitarra Marshall al suo organo Hammond scatenando tutti i diavoli che aveva dentro e inventando dal niente un suono e un genere inimitabili.

Il chitarrista Simon McBride resta solo sul palco ad arpeggiare e distorcere per lunghi minuti, per un bell’assolo sentimentale cui repentinamente si aggiungono le ispirate tastiere di Don Airey e poi tutti gli altri. E’ un bel ricordo di un artista unico nel suo genere, rock classico alla Purple con rimandi tastieristici per quei suoni che hanno segnato un solco tra prima e dopo. Il tastierista si lancia in una vulcanica improvvisazione progressiva con perfino delle gag (da dietro le quinte gli portano un bicchiere di vino che trangugia mentre continua a suonare) ma è solo una sorta di lungo preludio a volte ironico e scherzoso, all’eterna “Lazy” che non è altro che un blues a doppia velocità che Gillan sostiene con la propria voce e con l’armonica a bocca tra le incitazioni del pubblico veramente in delirio.

“When a blind man cries” è la parte più sentimentale e più autenticamente blues dell’intera esibizione, c’è un’anima tenera e nostalgica anche nel più duro dei rocker: “Quando un cieco piange, Oh Signore, sai che non c’è una storia più triste”.

Molto romantica anche “Anya” da “The Battle Rages On” l’ultimo album di studio con conseguente tour che la band fece in formazione classica con ancora il luciferino Richie Blackmore alla chitarra. E fa capolino nella mente dei fan la solita, eterna, insensata domanda: “Cosa avrebbero potuto fare i Deep Purple se Blackmore e Gillan non si fossero sempre odiati?” Non lo sapremo mai e forse la tensione, la rabbia e il risentimento che covavano l’uno per l’altro è stato un buon “combustibile” creativo per i lavori della band.

Segue un altro intermezzo tastieristico talmente eterogeneo e bizzarro che si conclude con un accenno dell’aria “Nessun Dorma” dalla Turandot di Puccini che Gillan cantò in duetto insieme a Luciano Pavarotti a Modena nel 2001. Ancora una volta è un modo molto efficace di introdurre un classico della seconda vita della band quando la prima reunion della formazione Mark II produsse l’ottimo Perfect Strangers (1984) la cui title track è risuonata imperiosa al parco San Valentino: “Can you remember, remember my name as I flow through your life?”.

Quel nome i presenti se lo ricordavano di certo, lo avevano stampato sulle magliette, scritto sulla pelle in aggressivi tatuaggi e inciso sul cuore del più profondo color porpora. La scaletta scivolava verso gli accordi finali quando sono esplosi i primi accenni del riff più famoso della storia della musica in senso assoluto e ancora una volta è stato un fuoco d’artificio ad incendiare l’atmosfera e il fumo ad invadere la scena: “Smoke on the Water” non ha bisogno di elogi o di descrizioni, è un’emozione che si è condensata in note, un’opera d’arte senza tempo. Non sono mancate le iconiche Hush e Space Truker, roba divertente e tosta, proprio da camionisti spaziali. Durante il lungo bis il beffardo pirata Roger Glover si è sperticato in un ottimo, energico solo di basso proprio come solo lui sa fare. L’ultimo brano in scaletta prima dell’uragano di applausi del pubblico è stato “Black Night”, il brano che sancì il divenire genere dell’hard rock e che la leggenda dice fu composto dalla band mentre erano tutti mezzi ubriachi dopo una pausa ristoratrice in un pub nei pressi degli studi nei quali stavano incidendo “In Rock”; nemmeno loro si ricordano il significato del testo e il significato ultimo della comunicazione, è solo musica che ti prende alle viscere e ti fa muovere e stare bene. Come si diceva una volta: “In vino Veritas” anzi “In cervogia Veritas”.

Non finisce qui però, val la pena di raccontare la storia di Riccardo (nome di fantasia?), un grandissimo fan dei Deep Purple, cresciuto a pane e musica dai propri genitori, che ha deciso di frequentare il corso di chitarra elettrica al conservatorio, dedicando la propria vita al rock proprio a partire dal sentiero tracciato dai suoi eroi. Lui che quando i Deep Purple suonavano le prime note non era nemmeno nato. Dando fondo ai propri risparmi si è comprato un biglietto vip che consentiva l’accesso al backstage e l’incontro con Gillan e soci proprio prima del concerto. Il buon Riccardo, per l’occasione, aveva smontato il battipenna della propria Fender per farselo firmare dalla band. Dovevate vederlo al concerto che si è goduto insieme al padre, raggiante e pieno di gioia per un sogno che si era avverato per entrambi.

Sono queste le impagabili emozioni che il Pordenone Blues Festival sa regalare da tre decenni e che siamo sicuri continuerà a fare a lungo.

“Listen very closely to the message I’ve sung

Feel the blood a knockin’when you’re finger poppin’

Gonna get a message trough,

You’re gonna

Into the fire!”

(continua)

© Flaviano Bosco – instArt 2023